Fiori di luce

Ho occhi d’azzurro smarrito,
mani inchiodate alla croce dei ricordi.
Seduta sul ciglio di un racconto
guardo fiori di luce volare,
i miei ladri di fortuna bussano alla porta
e come un viaggiatore che ha sbagliato viaggio
cammino dove non c’è strada
cerco la terra in fondo al mare
trovo la mia barca nei deserti
e coltivo tutti gli echi del giorno
per vendemmiare la mia voceImmagine

Esilio – Parte II

Il denaro è onnipotente, un’ossessione per tutti, contadini, mercanti e re. L’oro è l’unica chiave, pensò. Tornerò coperto d’oro e mi accoglieranno perché non c’è esilio che valga di fronte al denaro. I signori delle banche sono signori del mondo. E questo i mercanti genovesi lo avevano capito presto.

La sua mente riprese a vagare tra passato e futuro. Il coraggio… “Cosa è il coraggio?” si chiese, e non per la prima volta. Affrontare tre, quattro nemici o anche di più, con la sola forza dell’istinto di sopravvivenza e della rabbia. Difendere i deboli senza curarsi delle conseguenze. Reagire alle umiliazioni e alle minacce battendosi a mani nude con il disprezzo degli incoscienti onesti per i mezzi sleali dei bravacci. Ebbene, questo lui lo aveva fatto. Aveva cercato di farlo, almeno, per quanto quale risultato il suo intervento avesse avuto per… questo non lo sapeva.  E perché no? Morire si deve, o presto o tardi. Ma c’è un’altra forma di coraggio che richiede qualcosa di molto più profondo della capacità di morire. Un nemico senza volto e senza nome… Camminare per le vie, lavorare, mangiare nelle osterie, fingendo di non sapere di quell’ombra nera che ti segue e non si lascia vedere né sentire. Diffidare, con vergogna, anche dei propri amici d’infanzia, dei propri fratelli, magari della propria stessa madre, non parlare con nessuno, non sapere mai da quale parte arriverà il colpo mortale, perché quel nemico può comprarsi la fedeltà di chiunque in mille modi diversi, con l’oro, con la paura, con l’amore… Dicono che se hai coraggio si vede davvero soltanto nel momento in cui ti trovi di fronte al pericolo. E lui era in fuga. Dunque…

“Ohé, ragazzo! Non devi partire? – La voce stentorea del capitano lo fece sobbalzare, riscuotendolo definitivamente dalle sue fantasticherie. Partire. Cosa avrebbe dato, solo un mese prima, per salire su quell’imbarcazione immaginando lidi sconosciuti, scoperte e avventure. Ma così, così no. Così sarebbe stato meglio restare, continuare a fare il montanaro e sognare il mare, in quelle terre dove tutto si deve conquistare ogni giorno: gli orti strappati alle montagne tanto quanto il porto strappato all’acqua, che lascia alla costa a malapena qualche striscia stretta e infida, e tutto ha la bellezza di un paesaggio fatto fiorire dalla fatica, non un eden donato tal quale e senza sforzo. I disprezzati arbusti che si fanno strada tra le rocce nude, i rovi che si aggrovigliano tra le gambe dei viandanti, le ginestre inutili, che pure consolano il cammino con il loro colore di primavera, e quegli alberi miserelli cui il vento vieta di crescere, quelli hanno una loro bellezza selvaggia che i verzieri delle ville e le possenti navi dei mercanti non conoscono. Ma è una bellezza che crea fame. I valichi sono franosi, d’inverno non di rado il gelo morde le vallate, e solo le castagne alleviano la penuria di borghi troppo isolati, che non possono neppure contare sui pedaggi dei mulattieri.

Aveva lottato palmo a palmo per scendere giù da quelle montagne, per diventare un cittadino, per il sogno di essere qualcosa di più e di meglio. E aveva perduto tutto in una notte, giocando una mano truccata con qualcuno di cui sapeva fin da prima che avrebbe barato.

Genova ha una vitalità clandestina, l’intensità di una passione dissimulata come il fuoco tra le braci della vecchia stufa nella minuscola casa di Staglieno dove aveva trascorso la sua non rimpianta infanzia. Genova dove il mare si aggrappa ai monti e i monti si aggrappano al mare, gli uomini di terra fingono di non conoscere i mercanti che vanno lontano, e questi ignorano i montanari, ma gli uni senza gli altri non potrebbero vivere, è la verità che tutti respingono e che tutti sanno.

Esilio (titolo provvisorio)

genova porta soprana   Inizio di un racconto che sto pensando di finire 🙂

“Genova ti costringe ad andartene e ti costringe a tornare. Non conosco altra città più cruda e aspra quando ti vuol male, né altra città più vezzosamente austera, elusiva, magnificamente misteriosa di lei quando vuol sedurti, cortigiana accorta, ben addentro alle arti della conquista, fintamente timida, fuoco sotto la cenere, acqua cheta, passione fremente sotto un velo di apparente freddezza.

L’insegui senza sosta, cercandola, implorandola, e sempre ti sfugge. Quando infine, stremato,credi di essere giunto a detestarla, e che ovunque vorresti essere tranne che là, ecco che ti si offre, spalanca le sue cosce a un cielo che qui è più azzurro che altrove, apre le sue porte di pietra, le macchie pastello delle sue case, i suoi vicoli d’improvviso d’allargano, s’inondano di luce, paiono non più budelli ma strade, strade vere, larghe e scure e calde, e tu credi ormai di afferrarla, di possederla. Allora una libecciata ti colpisce in faccia come uno schiaffo, e ti par d’udire in lontananza una risata di scherno, crudele e aggraziata a un tempo, e non puoi fare a meno, mentre la maledici e quasi voluttuosamente ti soffermi a contare i suoi peggiori difetti, di amarla nondimeno, di sentirla più tua, proprio quando la stai perdendo e la sua risata t’accompagna nell’esilio come la musica dolce di un’amante che sempre ti tradisce e non ti è infedele mai, perché  sa che tornerai sempre e lei non sarà capace di respingerti.

Pietro si riscosse. Stava farneticando. Vero che gli doleva lasciare la sua città, ma queste stucchevolezze non erano da lui.

Giuro che la odio, questa bagascia che ti chiede tutto e non dà che amore mercenario, com’è vero Iddio vorrei bruciasse fino all’ultima pietra con le sue torri, i suoi giardini, i marmi e il porto con tutte le navi che vi hanno trovato rifugio. Proprio questa sera mi mostra di cosa è capace la luce della luna sul mare, questa sera che devo partire, crede così che sarà più forte il rimpianto, ma non rimpiangerò nulla, oh no, non io. Non si rimpiange una puttana, anche quando è la tua preferita e la richiedi ogni volta che puoi, e ti fa impazzire di desiderio ogni notte, ma poi al mattino l’hai già dimenticata e così farò io, appena messo il piede fuori dalle porte della città dimenticherò che mai sia stata la mia città.

Il cuore gli batteva – di collera, certo – e gli occhi si riempirono di lacrime furiose.

Un uomo di confine, incrocio di razze, di madre genovese e padre (forse) “turco di Crimea”, sempre che l’inquieta genitrice gli avesse raccontato, almeno su questo, la verità. E con un desiderio infinito di essere altro, un cattolico fedele ai dogmi, un ebreo osservante, magari un musulmano, pur di avere un’identità certa, stabilita da confini nitidi e principi facili da capire per chiunque.”

 

Presentazione

Come forse sa chi mi legge in altri luoghi (e chi mi conosce bene) sono una viandante intempestiva, che quando si sveglia spesso non sa dov’è, e deve riconoscere dai suoni il mondo che ha intorno. Forse anche per questo scrivo, perché il suono delle parole mi serve a capire dove mi trovo. Ma fondamentalmente scrivo perché mi piace. Vedo sempre le cose avvolte nella luce di una fiaba, o di un racconto, di una storia da raccontare. Giustamente, dicono che ho la testa tra le nuvole. Ma io non credo nella contrapposizione tra sogno e realtà, tra una rosea fantasia e uno schifo di mondo: secondo me i sogni sono parte della realtà, e il mondo forse sarebbe brutto, se non ci fossero i libri, la musica, il cinema, il teatro, le parole… ma queste cose ci sono, e avendole create noi, che ci crediamo o no, sono parte della nostra realtà. La bellezza è nel mondo tanto quanto l’orrore, e riconoscerla serve anche ad amare la vita un po’ di più.

Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure, allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare… Scriviamo spinti dalla vocazione per la volontà, la leggenda, l’utopia, l’umorismo nero, la satira, il melodramma involontario, il realismo accidentale. Scriviamo perché ci sembrerebbe di morire se non potessimo raccontare storie di fate e folletti, gli incubi dell’ultimo dittatore o la descrizione del campo da pallacanestro dopo la partita, e moriremmo davvero se smettessimo di farlo…Non chiediamo niente di più di quello che già possediamo: la facoltà di scrivere e di essere letti. E così raccontiamo con la stessa rabbia feroce e divertita di chi, solo dopo aver perso tante volte l’aereo, comincia a capire veramente il senso del viaggio”. Sono parole di Paco Ignacio Taibo (da: Te li do io i Tropici, M. Tropea Editore), ma credo che valgano per chiunque scriva, anche solo per se stesso. Io almeno mi ci riconosco, e certo non saprei dirlo meglio.