Nuvole

L’importanza delle nuvole l’ho capita da poco. E sì che la testa nelle nuvole l’ho sempre avuta, me lo dicevano tutti e un tempo ci pativo anche, ora non più. Qualche spigolo viene smussato dalle intemperie e dall’azione del mare, ad altri si finisce per affezionarsi e per lasciarli dove stanno.

Ma dicevo delle nuvole. Anni fa, quasi dieci ormai, quando ancora riuscivamo a fare questi mitici viaggi in luoghi lontani e per periodi più lunghi di cinque giorni, mi colpì il cielo cangiante della Norvegia. Aveva qualcosa di magico nella sua incostanza, in quell’umore mutevole, in quel suo essere mobile, mai fermo, mai uguale a se stesso. Forse è stato allora che il senso delle nuvole ha cominciato a insinuarsi nella mia mente.

Poi, quest’estate, quando il terreno è sembrato per un momento sgretolarsi sotto i miei piedi, ho dovuto aggrapparmi alle nuvole, per ritrovarti. Il giorno in cui ho cominciato a guardare su e dentro avevo questo pensiero, che se tu fossi stato lì e avessi visto quel mare raccogliere le nuvole, lasciarsi sedurre e restituire alla terra la loro luce moltiplicata all’infinito, forse saresti rimasto. Poi mi è venuto quasi da sorridere, pensando che vivevi in quello che credo sia uno dei posti più belli del mondo. Però in certi momenti, sai, i pensieri fanno un po’ quello che possono. E mi ha stupito anche il fatto che non fosse un pensiero triste, o almeno, non solo triste. Perché in fondo non avrei potuto vederti né in un cielo tutto azzurro, né tantomeno in un grigio ininterrotto, ma quel corruccio carico di pioggia che si apriva repentinamente in uno sprazzo quasi abbacinante, per poi stemperarsi nella morbidezza dei pastelli, quello sì, ti si confaceva al punto che potevo quasi convincermi che per la prima volta tu mi vedessi, proprio in quell’istante in cui ti stavo guardando.

You’re thinking of me. Keep thinking of me. I still exist.

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1. Popeye

Il cinema è stato per molto tempo una delle mie grandi passioni. Lo è ancora, ma visto il tempo limitato a mia disposizione, mi oriento su quello che voglio vedere perché fa piacere a me, e non perché “va visto”, per qualsiasi ragione. Spesso torno più e più volte a rivedere film particolarmente amati, mentre lo faccio meno coi libri (ma anche in quel caso, capita).

Per la mia prima recensione parlerò di un film, abbastanza poco noto credo, almeno qui da noi, che oltre ad essere il primo con Robin Williams (1980!), ha portato sul grande schermo uno dei personaggi forse più amati della nostra infanzia, parlo per me almeno: mi riferisco a Braccio di Ferro, ovvero Popeye, che è anche il titolo del film (già l’immagine sulla custodia del dvd mi piace 🙂 ).

Popeye

Popeye appartiene, se non sbaglio, a quel genere di film che o si ama, o si odia. Io lo amo. E giuro, non è solo perché amerei un film con Robin Williams anche se lui interpretasse una scatoletta di spinaci. Si tratta realmente di un adorabile, delizioso, multistrato divertissement che si può vedere (e appunto, anche più di una volta, nel mio caso), guadagnando del tempo prezioso in cui sorridere e alleggerire il nostro modo di guardare a un mondo, che resta comunque un posto strano (per usare un eufemismo).

In cerca di suo padre, Popeye giunge nel paese di Sweethaven, apparentemente un idilliaco, pittoresco porto, (anche se con qualcosa di curioso e inquietante nelle sue case addossate le une alle altre e nei percorsi delle sue strade, come qualcuno più autorevole di me aveva già osservato, http://www.rogerebert.com/reviews/popeye-1980); fin dall’inizio, però, il cocciuto senso di giustizia e la profonda esigenza di libertà del marinaio si scontrano con la legge nel suo aspetto più grottesco, nella persona dell’esattore che pretende la tassa sui nuovi arrivati in città, la tassa sulle domande, quella sulla curiosità e quella sulle “cattive intenzioni” (up-to-no-good tax).

Le tasse sono solo uno dei modi in cui Bluto, forzuto e malvagio tirapiedi di un invisibile “commodoro”, esercita un governo fondato sull’arbitrio e il capriccio. Bluto dovrebbe fidanzarsi con Olivia (una fenomenale Shelley Duvall), ma un neonato avvicina Olivia a Popeye in un modo la cui stessa assurdità è fonte di divertimento per gran parte del film.

Poi ci sarebbe anche da dire del gioco continuo dei rovesciamenti, in cui le “brave persone” di Sweethaven sono mostrate anche nei loro aspetti di diffidenza e vigliaccheria e nei loro pregiudizi, e almeno uno dei “cattivi” finisce per rivelarsi tutto sommato non più “cattivo” degli altri. Anzi.

E poi ci sarebbe da parlare di Altman, della sua regia, del resto del cast, della musica (il film è praticamente un musical, e però così diverso dai “classici” musical da non poter propriamente rientrare nel genere), della ricostruzione dei luoghi, della composizione studiata di certe scene che fanno ridere sì, ma non sono per questo meno “vive”, reali e verosimili. Come spesso accade, ridiamo di cose che conosciamo molto bene, dei difetti nostri e di chi ci circonda (due o tre di queste scene varrebbero da sole tutto il film). Ma anche questo, Ebert lo dice benissimo e potete sempre seguire il link. Io vi direi, guardatelo con gli occhi di un adulto che sa ancora stupirsi, e vi stupirà.

Unico neo, temo sia difficilissimo da trovare in italiano. Naturalmente, vedere un film in lingua originale è sempre un valore aggiunto, se è possibile, e se c’è Robin Williams questo è doppiamente vero (e poi ci sono sempre i sottotitoli), ma sarebbe bene che tutti potessero godersi questo piccolo gioiello.

La curiosità è una bestia selvatica

Curiosità

Da ogni cosa ne nasce sempre un’altra, e specialmente, ogni cosa nuova che si scopre si ramifica, dà vita a decine di altre, che a loro volta danno vita a centinaia e poi migliaia, non c’è limite. La curiosità è una gran bella bestia, ma selvatica, difficile da domare.

Ogni tanto mi piace essere io a seguire il suo passo, perché essendo costretta molto spesso a imbrigliare la mia parte più estrosa, qui posso seguire i miei percorsi stralunati, saltare di palo in frasca, iniziare cento cose e portarne a termine, per il momento, anche solo una, ma le altre poi troveranno il loro tempo e il loro spazio, come ho già avuto modo di sperimentare. E poi chi lavora di sabato e domenica ha dei diritti, incluso quello di vagabondare per siti e blog, perdendo un po’ più tempo del normale e facendosi incantare dalle sirene dell’incoerenza, della non-logica, del ghiribizzo insomma.

Comunque anche l’imbrigliamento dei giorni feriali ha un limite. Ho cominciato a vedere l’altro ieri un film che ieri ho proseguito e finirò stasera. Seguirà recensione. Parlerò di qualcuno dei libri che ho letto tempo fa, perché fatico a trovare il tempo per leggerne di nuovi. Prima però devo fare la torta di nocciole che prometto da giorni ai miei figli. Insegno, traduco, seguo corsi per imparare a muovermi nel cloud e nella tecnologia, faccio alberi di Natale, stampo cartoncini da colorare, bevo tè, metto in ordine le email, mi studio il libro d’inglese per i bambini, cerco altri spunti in Internet, guardo video, ascolto musica, lavo i pavimenti, trascrivo in inglese i dialoghi dei film che non hanno i sottotitoli, cammino per città solo a piedi perché non ho la macchina, faccio la spesa, prendo il caffè con qualche amica, scrivo, vado a riunioni di lavoro. Rigorosamente non in quest’ordine. Qualcuno dice che ho molta energia. Pensandoci, in effetti… ma le recensioni arriveranno prestissimo. Sono sempre più organizzata, il che significa: faccio sempre più cose, ma sono tutte cose che mi piacciono (beh, quasi). Quindi va bene così.

Parlo di te / Speaking of you

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Alba con luna

No, non ho un vuoto dentro. Questa mancanza che in certi giorni si fa più forte, senza preavviso e senza motivo apparente, mi fa pensare al vuoto, ma non è un vuoto. Anzi. Se mi intestardisco a non dimenticarti, devo accettarne le conseguenze. Se decido di rivederti in tanto di ciò che sono, in tutte le cose che faccio, se riempio di te tutto questo, allora questa pienezza riguarda anche il dolore. Per ogni cosa che penso sia vera, in tutto questo groviglio, spesso è vero anche il suo contrario.

Con le parole si spiega il mondo e allora ci devono essere delle parole per spiegare anche questo: una scelta fatta quando tutte le scelte sembrano provvisorie e che invece è diventata, negli anni, definitiva. La scelta, irrazionale, forse, tanto quanto, certamente, profonda e irreversibile,  del mio faro, del mio punto di riferimento, della mia guiding star. Ho affidato la mia fede nel mondo e nella vita a un uomo senza averlo mai visto. Ti ho riconosciuto quasi al primo sguardo e non ti ho mai visto (è l’unico vero rimpianto).  Oltre trentacinque anni di ammirazione incondizionata, affetto, passione, risate e lacrime e come puoi parlare della perdita di qualcuno che hai avuto vicino per oltre due terzi della tua vita, e però non lo sapeva? E perché poi dovrei spiegarlo? Perché dovrei scriverti una lettera pubblica, quando quello di cui parlo sembra così personale? Forse perché il giorno in cui ho ricevuto qualcosa che desideravo da tempo, è stato il giorno della tua morte. Forse perché ho riaperto un blog da tempo abbandonato, e ho ripreso a scrivere, in buona parte, perché non volevo che la vita si limitasse ad “andare avanti”, ma che si fondasse sul ricordo, appropriandosene, scavandolo a fondo e accettandolo pacificamente come una parte indissolubile di sé.  E quindi ho assunto questo parlare di te come una specie di compito, uno di quelli che si scelgono e che si fanno con tutta l’attenzione e la cura di cui si è capaci, che se poi sbaglierò qualcosa, comunque, non fa nulla, quello che conta è l’impegno, il mettersi in gioco.

Perché poi vedi, una delle cose belle è proprio questa. Avrei potuto non capire, lasciarmi scorrere tutto addosso senza trattenere nulla e invece… Queste non sono emozioni che mi hanno travolto, nessuna euforia chimica da innamoramento, nessun impeto accecante che abbia annullato la mia ragione e la mia volontà, ma una vita trascorsa a studiare parole e gesti, tic e inflessioni della voce (prima in italiano, poi finalmente in inglese, scoprendo la “tua” quella “vera”, e che voce!), le battute ricorrenti, le espressioni che sono cambiate nel tempo e quelle che sono rimaste le stesse, il modo di esprimere la timidezza e di schermirti, il modo di difenderti con una fuga apparente, mentre poi eri là a esporti così completamente, a esserci sempre. Un’affinità intuita, poi consapevolmente alimentata e accudita, coltivata con la pazienza che si riserva alle cose veramente preziose.

Ho saputo sceglierti, ho saputo riconoscerti, e ne sono orgogliosa. Sono orgogliosa di condividere tante delle cose in cui credo, e anche dei dubbi che ho, con una persona così straordinaria (anche proprio nel senso di “fuori dall’ordinario”). Sono orgogliosa di quella parte che molto in piccolo, un po’ ti somiglia, quella buffa e divertente e dolce e sentimentale e piena di voglia di giocare, quella che sa ridere e piangere spudoratamente, senza vergogna. Quella che “ha modo con i bambini” e che cerca di imparare a non giudicare mai. Quella che cerca di essere all’altezza. Non di un santo, certo non di un santo. Di un uomo. Un angelo, forse, quell’angelo che in certi momenti vedevo con gli occhi dell’immaginazione, i primi giorni, e che ancora, qualche volta, penso che tu possa essere stato. Un angelo fragile, con una spada affilata in una mano, che era la tua intelligenza, il tuo acutissimo spirito di osservazione, che ti faceva vedere sempre oltre; e nell’altra tutto quell’amore infinito per il mondo, la vita e le persone, un amore tanto grande da ferire, perché non avrebbe mai potuto essere ricambiato con quella stessa forza. O forse sì. Forse poteva, e forse tu lo hai sempre saputo, e hai scelto di vivere per questo, e di andare incontro alla morte quando, semplicemente, sentivi che era il momento giusto, il completamento di tutto, che l’arco della tua vita era arrivato dove doveva. E guarda che comunque, idealizzato o no, della tua “parte oscura” so molto. Però ti dico questo. Sei una di quelle persone per cui mi piacerebbe tanto che esistesse un paradiso. E se dovessi mai attraversare una qualche forma di inferno, vorrei che fossi tu ad accompagnarmi.

No, there’s no emptiness inside. This yearning that gets stronger some days, with no notice and for no apparent reason, makes me think of emptiness, but it is no emptiness. Quite the opposite. If I’m that obstinate in not forgetting you, I have to accept the consequences. If I decide to see you in so much of what I am, in everything I do, if I fill all this up with you, then this fullness regards the pain too. For each thing I think is true, in all this tangle, the contrary is often true as well.
With words, we explain the world, so there must be words even to explain this: a choice made when all choices seem to be somehow tentative and which, however, has become final, over the years. The choice, as irrational, perhaps, as it is, certainly, deep and irrevocable, of my guiding light, my anchor, my captain. I’ve put my faith in the world and in life in the hands of a man I’ve never seen. I recognized you almost at first sight, and I’ve never seen you (this is the only real regret). Over thirty-five years of unconditional admiration, affection, passion, laughs and tears and how can you talk about the loss of someone that you felt so close to for over two thirds of your life, although he never knew it? And why should I explain that? Why should I write you a public letter, when I’m speaking of something that feels so personal? Maybe because the day I received something I had wanted for so long, was the day of your death. Maybe because I’ve come back to a blog I had abandoned for quite some time, and I’ve begun to write again, mostly because I didn’t want life to just “go on”, but I wanted it to be built on this memory, to take on it, delve into it, and accept it peacefully as an indivisible part of itself. That’s why I’ve undertaken to speak of you as some sort of task, one of those you voluntarily assume and carry on with all attention and care you’re capable of, and if I should get something wrong, it won’t matter after all, what counts is commitment, putting yourself on the line.
In the end, you see, this is one of the silver linings. I could have failed to understand, let it all go away and not be touched in any way, and yet… We’re not speaking of emotions that overwhelmed me, no chemistry of love involved, no blinding ardor shaking my reason and will, but a life spent studying words and gestures, twitches and voice tones (at first, in Italian; then in English at last, so I discovered your “own”, “real” voice, and what a voice!), recurring jokes, the expressions that changed over time and those that remained the same, your way of showing shyness, of shielding yourself, of apparently running away for defense, whereas on the other hand you were always there, completely “exposed”, fully present in the moment. This affinity I sensed, and have since consciously nurtured, looked after, cultivated with the special patience one reserves for truly precious things.
I was able to choose you, to recognize you, and I’m proud of it. I’m proud of sharing so many of the things I believe in, and so many of the doubts I have, with someone so extraordinary (also in the meaning of “out-of ordinary”, as it is). I’m proud of that part that is a bit like you, in its own small way, that part that is comical and funny and sweet and sentimental and playful, the part that can openly laugh and cry, without feeling ashamed in any way. The part that “gets on so well” with children and that’s trying never to judge. The part that strives to come up to the mark. Not of a saint, never of a saint. Of a man. An angel, perhaps, the angel I saw through the eyes of imagination in the first days, and that I still think, sometimes, you may have been. A fragile angel, with a very sharp sword in one hand, which was your intelligence and wit, your being such a keen observer, so that you always saw beyond others; and in the other hand, all that endless love for the world, for life and people, so much it hurt, because it could never have been returned with the same strength. Or could it? Perhaps it could, and you’ve always known it and you chose to live for that reason, and to meet death when you felt the time was right, simple as that, everything that mattered was complete, the arc of your life had arrived where it was meant to. And then look, idealized or not, I know a lot of your “dark side”. But I can tell you something. You’re one of those people, for whom I wish so hard there was a heaven. And if I had to go through any sort of hell, I’d want you to be with me.

 

Impressioni di una neomaestra di inglese

E’ tutta la vita che voglio insegnare. E adesso eccomi qui. La caparbietà non è un difetto che mi manca, grazie al cielo. E contro ogni pronostico, consiglio e ragionevolezza, sono qui a insegnare inglese ai bambini, divertendomi come loro con le nursery rhymes, i giochi con la palla, la preparazione dei cartoncini con le figure, i cartoni animati in inglese… alla mia età! Come altre cose, in questi ultimi tempi, accudire questa mia parte “piccola” (e trasmettere qualcosa che adoro a questi altri “piccoli”) mi serve ad alimentare certi ricordi, ad onorare a modo mio la memoria di chi mi ha “insegnato”, chi, senza neanche saperlo, ha dato forma e vita a tanti miei desideri, e addolcire al tempo stesso la nostalgia. E’ stato bello sentirmi dire che per la prima volta i bambini sono usciti sorridenti da una lezione di inglese. Ancora meglio vedere uno di quelli considerati “pestiferi” mostrarmi tutto orgoglioso le parole scritte con tanta cura sul foglio che si era fatto dare da un compagno perché non aveva il quaderno. E poi c’è quello che addirittura ti corre incontro a braccia aperte con un sorriso fino alle orecchie… Poi la stanchezza, il tempo, l’impegno di essere sempre preparati, la difficoltà di trovare la giusta “chiave” per coinvolgere tutti… Tutto questo c’è. Ma siccome sono matta, quasi quasi un po’ mi dispiace che lunedì sia festa. aspetto le prossime lezioni con un’impazienza che, se me lo avessero detto prima, forse non ci avrei creduto. Divido il mio cuore tra le mie due attività (l’altra è tradurre), le amo entrambe e so che è una grande fortuna. La traduzione è comunicazione, costruzione di ponti, apertura di strade. e in un certo senso, anche l’insegnamento lo è. In modo diverso. E’ come se avessi completato un cerchio. Caparbietà e quel pizzico di pazzia sono un mix tosto. Aiuta molto, a volte.