La metamorfosi delle farfalle

Sai che sui tetti, io mi muovo bene.
C’è come una luna piccolina,
mi sta qui appollaiata sulla punta di un dito,
ma credo non sia proprio una luna,
una lucciola, piuttosto, che tu hai lasciato indietro
quando non ti sei voltato,
ché avevi troppa fretta di partire.
Non t’ingannavi, sai, sulla dolcezza delle cose.
Non t’ingannavi su quella cenere nell’acqua
in cui certo c’è più vita che in un legno morto sottoterra
e si conserva meglio la tua fede
nella metamorfosi delle farfalle.
La mia lucciola m’illumina il respiro, sussurra
la sua musica d’ali quando la pioggia si rovescia
e tuona e lampeggia e sradica e piega
i rami, forse, ma non la sottile bellezza della sua danza d’insetto.
M’inchino al suo risalire la corrente come i salmoni il fiume
ma con la leggerezza infinita dell’effimero
quel suo indomito cogliere il vento a farne volo,
ché sembra ferma solo perché è più veloce del mio sguardo.
E il mio dito guarda se stesso e trema un poco
in quell’istante imperfetto, per essere rimasto nudo e solo;
una maglia in più ci vuole, o stringersi nel cappotto:
fa più freddo, infatti, quando ripercorri un’assenza.
Ma l’indocile messaggera non sta lontano a lungo,
e il ritorno si fa nodo di tenerezza nella gola,
perché è tuo questo scarabocchio di sole,
un mattino che batte sulle imposte e fame d’erba
ed uscire a ripercorrere la via degli aquiloni.
Tu voli ed io cammino, ma una sola bussola ci guida
verso lo stesso nord.

Immagine presa dal web

Il Bosco – Parte I – Capitolo I – VI

VI (1966)

“Non c’è amore agli occhi di Dio fuori dal sacramento del matrimonio, non c’è famiglia, solo miseria e peccato. I concubini e gli adulteri non conosceranno altro che inferno, sulla terra e anche oltre la morte!”. La voce di Don Luigi, professore di religione, si alzò di un tono, diventando stentorea. Parve a Elisa che le rimbombasse nelle orecchie, lasciando un’eco nella sua testa come il prolungamento delle note di un pianoforte quando si tiene schiacciato il pedale.
Non sapeva se fosse la proposta di legge sul divorzio il bersaglio degli strali del devoto sacerdote. Ne aveva sentito parlare vagamente da Fabrizio, ma in sé le interessava abbastanza poco, tanto più che a quanto lui stesso diceva, dormiva sonni tranquilli nelle quiete stanze del Parlamento e avrebbe continuato a dormire probabilmente ancora per un bel po’. Almeno per quanto riguardava la sua famiglia, quella legge non avrebbe cambiato granché. Ma pareva fosse la situazione di chi viveva fuori del sacro vincolo, come sua madre e Fabrizio, che agli occhi del sant’uomo apriva le porte delle case a Satana in persona. O se non altro in spirito, che nel caso di Satana, dopotutto era lo stesso.
Forse non stava davvero guardando lei, le sue parole magari non erano intenzionalmente indirizzate a lei. Poteva sospettarlo, crederlo, poteva anche esserne convinta, ma non lo sapeva davvero.
Quello che sapeva era che ai suoi compagni, che sua madre fosse o meno una concubina importava meno che a lei, tranne che per tormentarla. Che fosse separata lo sapevano tutti, anche se non aveva mai capito come, e l’esca era troppo ghiotta perché se la lasciassero sfuggire.
“Ehi Perasso, com’è avere due padri?”
“Secondo me tua madre dovrebbe andare all’inferno, tu che ne dici?”
“Penso che intanto potresti andarci tu, per cominciare!” Troppo tardi Elisa si accorse che non aveva esattamente sussurrato la sua risposta.
“Signorina Perasso, la prego di smettere di creare confusione nella mia classe, o sarò costretto a portarla dalla preside”.
Elisa non rispose. L’esperienza le aveva ormai insegnato che era meglio non discutere coi professori, per quanto l’ingiustizia le bruciasse in gola.
Dopo le lezioni, corse via a testa bassa, senza guardare nessuno, senza parlare con nessuno, gli occhi offuscati dalle lacrime, ignorando anche Gianna, l’unica faccia amica in quel mare di volti ostili, che la chiamò sgolandosi inutilmente per diversi minuti.
Suonò e venne ad aprirle Fabrizio. Qualche volta tornava a casa per il pranzo. Benissimo. Era proprio quello che voleva.
“Ciao”, disse lui. Lei lo aggredì come una furia.
“Non salutarmi, non guardarmi neanche! Se potessi non vorrei più sentirti né vederti. Ti odio! Tu hai rovinato tutto, vorrei che non fossi mai entrato in casa nostra, vorrei che non fossi mai esistito. Io voglio una vera famiglia, quella che tu mi hai portato via. Ti odio!”, ripeté, come per rafforzare il concetto anche di fronte a se stessa.
Fabrizio fu colpito non tanto fiotto di parole con cui l’aveva investito, piuttosto da tutto il dolore e la fatica che le stava costando la sua ricerca disperata di un amore che non fosse tradimento e ferita.
“Noi siamo una vera famiglia, o almeno, voi siete la mia vera famiglia, che tu ci creda o no”, le disse con dolcezza.
“No che non lo siamo, voi non siete neanche sposati e spero che non lo sarete mai. Chi sei tu per me? Chi sei per noi? Mio padre è mio padre e tu… a te non so neanche come devo chiamarti!” Odiava lui e odiava anche se stessa, odiava le lacrime che non voleva piangere, odiava la sua voce cattiva e le parole che diceva. Eppure continuava, non poteva farne a meno.
Fabrizio la guardava e nel suo sguardo c’era una comprensione totale, incondizionata, che la spaventava e la rassicurava a un tempo, il che naturalmente era assurdo, come se la causa della malattia potesse essere anche la cura.
“Puoi continuare a chiamarmi Fabrizio, per me va benissimo.”
Lei arrossì. Era così che lo chiamava, naturalmente. Ma usare il suo nome continuava a sembrarle strano e lo faceva solo quando proprio non poteva farne a meno. A volte ricorreva quasi a delle specie di sotterfugi per evitarlo. Lui non era un parente. Non era neanche un amico. Qualcosa di più, qualcosa di meno…
“Un padre è un padre per tutta la vita” riprese lui. “Ma le cose non possono comunque tornare come prima, questo lo sai anche tu. Solo tu puoi decidere chi fa parte della tua famiglia, tu e nessun altro, perché quando si è in due a voler creare un legame, il legame già esiste. Non importa il nome che mi dai, importa se hai voglia di chiamarmi oppure no”.
Ho voglia di chiamarlo? Si chiese Elisa, e già il fatto che se lo domandasse era un cambiamento notevole rispetto ai pochi minuti precedenti, in cui avrebbe semplicemente voluto cancellarlo dalla faccia della terra. Aveva smesso di piangere adesso. C’era ancora rabbia, ma non era più così sicura che fosse proprio lui la ragione, benché restasse il bersaglio più ovvio.
“Se la mamma andasse all’inferno sarebbe tutta colpa tua, perché sta con te anche se è ancora sposata con papà, ma a te non importa un bel niente, vero?”.
“All’inferno? Se Dio avesse un inferno per le persone come tua madre, non mi piacerebbe conoscerlo – disse Fabrizio con una certa durezza. Poi proseguì più dolcemente: – Forse il mio Dio non ce l’ha neppure, un inferno. E se l’avesse, non sarebbe certo per il delitto di amare la persona sbagliata. Dio è libero, perché dovrebbe volerci prigionieri? Vivere la vita che ci siamo scelti non è sempre facile. Dobbiamo accettarne i rischi, sentircene responsabili, saperla rispettare. Quello che conta, quando ti trovi la sera davanti allo specchio, è poterti guardare e sentire che credi in quello che vedi. Tua madre è bella, Elisa, bella dentro, intendo, e io so che può guardarsi allo specchio senza paura”.
“Ma se tutti dicono una cosa e tu ne dici un’altra, come faccio a sapere chi ha ragione?”
“Io non ho mai ragione”, disse Fabrizio. “Mi evita di dover cercare di convincere gli altri”. Le strizzò l’occhio, ma tornò subito serio. “Qualunque risposta io abbia trovato a questa domanda, non è mai quella definitiva neanche per me, figuriamoci per gli altri. Il senso non sta nel percorrere una strada, ma nel cambiarla sempre, senza mai sapere esattamente né dove si vuole andare, né dove effettivamente stiamo andando. Nell’imparare, gettare alle ortiche quello che sai e ricominciare da capo”.
Scelte, rispetto, libertà, amore. Imparare, decidere, buttare via tutto e ricominciare. Sembrava una fatica enorme. Non c’era nessun punto fermo in quello che le aveva detto Fabrizio, nessuna scialuppa di cose sicure a cui aggrapparsi. Buffo però, accorgersi che si era sentita così insicura quando i sentieri parevano già tracciati e adesso che le era stato dato in mano il timone per seguire una rotta che non conosceva affatto, le sembrava di essere, invece, più forte che mai.

Il Bosco – Parte I – Capitolo I – V

VI (1963)

La strada si dipanava diritta come il filo di un gomitolo teso a indicare il cammino nel groviglio labirintico che partiva dal porto e giungeva chissà dove. Elisa camminava a fianco di sua madre, con Cristina dall’altro lato. Il vento appiccicava il vestito al corpo della mamma, i fiori gialli, piccoli e freschi, aderivano alle sue gambe, alla pancia che così, vista di profilo, prendeva una forma leggermente arrotondata che non aveva mai notato prima. Più tardi le sarebbe parso di aver intuito tutto, prima ancora che dal rigonfiamento del ventre, dai suoi occhi, da quello sguardo che già andava oltre loro due, verso qualcuno che si sarebbe appropriato di una fetta più larga del suo cuore. Ma fu Cristina a parlare per prima. A gridare, anzi: “Tu aspetti un bambino!”

Elisa si stupì. Cristina non gridava mai. “Io non voglio nessun altro bambino.” continuò la sorella, con un tono ancora più denso di rabbia, ancora meno riconoscibile.

“Beh, mi dispiace, signorina, ma che tu lo voglia o no, dovrai abituartici”, rispose sua madre, secca. Questo non la stupì, invece. Sua madre era sempre stata insofferente di fronte a qualunque espressione di rabbia, dolore o allegria che considerasse eccessivi, ed era allergica alle conversazioni importanti, nelle quali si sforzava inutilmente di rendere semplici le cose complicate e riusciva invece benissimo a rendere complicate quelle più semplici.

Elisa si disse che non le sarebbe dispiaciuto avere un fratellino. Però forse quello che provava era sbagliato, forse lei stessa era tutta sbagliata. Ancora adesso, a sprazzi, odiava Fabrizio. Lo odiava perché in fondo sarebbe stato naturale, quasi un suo dovere odiarlo, era la cosa giusta da fare. A volte lo aveva odiato ancora di più perché le era simpatico, gli aveva rivolto contro la rabbia di un affetto che non era riuscita a impedire e che non gli aveva mai perdonato.

E adesso … chi sarebbe stato esattamente quel bambino? Un fratellino avrebbe significato in un certo senso accettare che Fabrizio facesse parte della famiglia. E perché questo non le suscitava accessi di furia incontenibile? Perché non provava l’irrefrenabile impulso di picchiare tanto lui quanto sua madre, di far pagare a entrambi la confusione dei suoi sentimenti? Anche se non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura, in realtà sapeva di voler bene a Fabrizio molto più di quanto avrebbe dovuto. Questo voleva dire che stava cominciando anche lei ad abbandonare suo padre?

Elisa guardò sua sorella cercando di capire cosa ne pensava lei. Cristina era sempre stata così adattabile, sembrava che le andasse bene tutto, si preoccupava poco di quello che le succedeva intorno, come se nulla potesse toccarla, in fondo. Dopo lo sfogo di poco prima, il suo viso si era come richiuso, assumendo l’usuale espressione indecifrabile.

“A me piacciono i bambini”, si arrischiò a dire, con una certa cautela.

Cristina ebbe un’altra esplosione e questa volta non si contenne. “A me, a me, io, io”, gridò, con tutto il fiato che aveva in gola, così parve. “Ma di quello che provo io importa a qualcuno? Io sono solo la scema che fa sempre quello che le dicono, che si comporta come una signorina ammodo, che non crea mai problemi. Ma forse qualche problema ce l’ho anch’io, forse non mi piace essere perfetta, ci avete mai pensato? Forse in realtà sono cattiva, maleducata e incosciente e magari mi piace anche, essere così”.

“Ma cosa ti prende, Crissy?” Chiese Elisa, con una voce più dolce di quella che usava di solito parlando con la sorella.

“Cresce” disse asciutta Viviana. Aveva letto da qualche parte che i ragazzi, non avendo più riti di passaggio all’età adulta, vivevano negli anni dell’adolescenza una confusione ben maggiore di quella che avevano vissuto i loro genitori. Effettivamente a lei non sembrava di essere mai stata adolescente. Non aveva potuto permetterselo. C’era la guerra, allora, e poi l’immediato dopoguerra. Niente male come rito di passaggio all’età adulta.

Elisa intuì d’improvviso qualcosa che non aveva mai capito. Se era così difficile capire cosa passava nella sua testa, forse era perché Cristina stessa non lo sapeva.  Cristina era carina, era spiritosa, andava bene a scuola, piaceva alla gente e lei aveva sempre pensato che le piacesse essere così, che fosse quello che voleva anche lei. Invece forse la vera Cristina era nascosta da qualche parte, ma era troppo abituata a comportarsi come gli altri si aspettavano da lei – o come lei credeva che si aspettassero – per sapere come ritrovarla. Che cosa davvero le piaceva o non le piaceva, questo Elisa non avrebbe saputo dirlo. Pensò che forse, dopotutto, si somigliavano più di quanto le fosse mai sembrato. Si sentì solidale con lei, una sensazione quasi nuova, e la stupì che non fosse accaduto più spesso.  Le venne voglia di abbracciarla, forse non era il momento giusto ma lo fece lo stesso. La sentì ritrarsi un momento e poi, un po’ rigidamente, Cristina le posò la testa sulla spalla e scoppiò a piangere, e allora pianse un po’ anche lei, senza sapere se fosse perché si sentiva triste, o perché si sentiva felice.

IL BOSCO – Capitolo 1 – IV

IV

“Suonano, Elisa, puoi andare tu per favore?”

Elisa si alzò di malavoglia; stava leggendo Piccole Donne, sbuffando lo gettò sul letto, aperto così com’era, senza curarsi affatto che non si rovinasse, e andò verso la porta lentamente, a passi strascicati. Non era certo difficile immaginare chi potesse essere, e non migliorò il suo umore il fatto di averci azzeccato.  Fabrizio era là, davanti al cancelletto d’ingresso al giardino, aspettando nella pioggia. Doveva esserci un vero e proprio acquazzone là fuori, a giudicare dallo stato in cui era ridotto. I capelli gocciolanti, la camicia fradicia, larghe chiazze scure sui pantaloni dalle ginocchia in giù. Aveva un grosso sacchetto in una mano, un vaso di margherite nell’altra e in qualche modo, non era ben chiaro come, riusciva anche a tenere in equilibrio un ombrello aperto, peraltro del tutto inutile a quanto pareva. Elisa ebbe l’impulso di lasciarlo lì sotto l’acqua ancora un po’, lui e il suo sacco e le margherite e tutto quanto. D’altra parte non sarebbe servito comunque. La pioggia sembrava non sentirla neppure, non dava nessun segno d’impazienza o di disagio. Era perfettamente se stesso, come sempre. Lei premette il pulsante che apriva sia il cancelletto che il portone.

Fabrizio entrò in casa e posò uno dei sacchetti per chiudere l’ombrello, mentre l’acqua che grondava da ogni parte di lui e delle cose che aveva in mano formava una pozza sul pavimento. Ben ti sta, pensò lei. Lo guardò con intenzione, aspettando di vedere cosa avrebbe detto, come avrebbe giustificato la figura ridicola che stava facendo.

“Ho-ho”, disse lui, come un Babbo Natale in anticipo, l’allegria che gli danzava nello sguardo. “Ciao Elisa”, aggiunse, poi attaccò a cantare Singing in the Rain.

Elisa ricordò il moto di simpatia che aveva provato per lui fin dalle prime volte che veniva a cena ed ebbe la tentazione di scoppiare a ridere, ma la scacciò.

“Patetico”, borbottò invece, andando a cercare sua madre.

Lei stava finendo di prepararsi ed era più attraente che mai, i capelli biondi che quasi brillavano sotto i colpi di spazzola, gli occhi verdi luminosi, un abito color prugna che le aveva visto indossare molto raramente, benché sembrasse addirittura esaltare la sua femminilità, già di per sé piuttosto pronunciata. La sua bella madre. E la sua bella sorella. Mentre lei, lei era quella che purtroppo non aveva i capelli biondi, né gli occhi chiari, quella che purtroppo doveva portare gli occhiali, quella che si vestiva male e si pettinava peggio. La mamma, invece… alla sua età!  Un attimo dopo si trovò avvolta nella scia del profumo Dior preferito di sua madre. Aveva sempre amato quel profumo. Ma le venne da pensare a suo padre, al suo bilocale, alla cameretta arredata apposta per loro, che stava lì solo per aspettare le loro visite, e si sentì mordere il cuore da un istinto feroce.

“Di là c’è il tuo boyfriend”, annunciò.

Prima ancora che irritata, Viviana fu stupefatta dal tono aggressivo della sua voce. Naturalmente Elisa non era mai stata un modello di buone maniere come Cristina, ma l’aperta maleducazione era una cosa diversa. Non era contemplata in casa sua. Le diede uno dei suoi sguardi più temibili, uno di quelli che soffocavano sul nascere qualunque minima trasgressione. Questa volta non parve avere un grande effetto. Elisa rimase in silenzio, e continuava ad esservi un’aura ostile intorno a lei.

“Elisa?!” Disse Viviana. C’era nel suo tono un’aperta riprovazione e l’attesa esplicita di spiegazioni convincenti.

“Già. Sì. Scusa mamma”.

Fabrizio tirò fuori dal sacco due pacchetti piuttosto voluminosi e li porse a Cristina ed Elisa.

“Questi sono per voi”.

Cristina prese il pacco, ringraziò con un sorriso, ma sembrava un po’ a disagio. Elisa lo guardò senza prenderlo, ringraziò perché non poteva farne a meno, prese tutto il tempo che poteva per decidere se aprirlo o no.

“Non preoccupatevi, non costano abbastanza da poter comprare il vostro affetto”, disse Fabrizio, e nonostante il tono leggero, i suoi occhi erano molto seri.

“Fabrizio!”

“Vi, andiamo, diciamo le cose come stanno. La famiglia come loro l’hanno sempre conosciuta non c’è più. Al suo posto c’è qualcosa che probabilmente non sanno neanche come chiamare, e quanto a me, non mi conoscono quasi, sono solo un estraneo che viene troppo spesso a cena e che è in parte responsabile della confusione in cui si trovano. Se mi accusano solo di voler cercare di comprarmi il loro affetto, mi riterrò molto fortunato”.

Elisa pensò che la cosa più curiosa era che almeno a lei, l’idea che lui potesse cercare di fare qualcosa del genere non l’aveva neppure sfiorata. Ma il resto di quello che lui aveva detto era tutto vero.

Cristina aveva sorriso con aria più distesa e ora stava slacciando pazientemente il fiocco per aprire la confezione senza strappare la carta, che avrebbe conservato con cura per altre occasioni. Sicuramente l’avrebbe usata per fasciare un altro regalo o avrebbe ritagliato i gattini stampati per decorare qualcosa. Elisa pensò che quei gattini erano proprio melensi, ma sapeva che a Cristina sarebbero piaciuti. Guardò la sua carta aspettandosi che fosse uguale, ma suo malgrado incuriosita: era decorata con dei velieri, invece. Sembrava quasi che Fabrizio conoscesse i loro gusti e questo aumentò la sua irritazione, forse perché era difficile capire come facesse. La mamma aveva raramente indovinato un regalo per loro, per non parlare delle confezioni, e quanto a papà, lui non si era praticamente mai occupato dei regali, non lo considerava compito suo. Scrollò le spalle, dicendosi che la carta non significava niente.

Cristina nel frattempo era finalmente riuscita a districare tutti i nodi, a salvare la preziosa carta e a vedere cosa c’era dentro. Un puzzle. Sì, decisamente Cristina era un tipo da puzzle. Elisa pregò che Fabrizio avesse comprato un puzzle anche per lei, così avrebbe potuto dirgli di nuovo grazie, mostrandogli chiaramente con gli occhi la sua delusione, e poi chiuderlo in un armadio e non pensarci più. Ma aveva già capito che non sarebbe stato così. Strappò la carta, lo faceva sempre, ma questa volta se ne pentì subito, perché era così bella, e si sentì ancora più infuriata. Pattini. Come diavolo aveva fatto a… era una vita che li sognava. Guardò la faccia di sua madre e avrebbe quasi potuto perdonare Fabrizio, solo per l’espressione che le vide in volto. Cose da ragazzacci, le aveva sempre risposto quando aveva osato affrontare l’argomento. Glieli avrebbe lasciati usare, ora che a regalarglieli era stato Fabrizio? E lei avrebbe voluto usarli? Come si permetteva lui di entrare così nella loro testa? Forse aveva persino frugato tra le sue scarpe, per trovare i pattini della misura giusta. O aveva indovinato solo guardando i suoi piedi?

Le parve che tutto quello che si agitava nella sua mente si fosse come materializzato; paura, rabbia, tenerezza, confusione, amore, odio, tutti quei nomi astratti erano diventati concreti, si potevano vedere e toccare, avevano preso la forma esatta, il peso, la durezza del materiale di cui quei pattini erano fatti. Non avrebbe saputo dire se questo era un bene o un male.

“Beh, grazie”, disse, con lo sguardo fisso a terra. “Sono belli. Però no, non basteranno a comprare il mio affetto.” Adesso aveva alzato gli occhi e vi si leggeva una sicurezza ostentata, a mascherare la paura di non sapere lei stessa, per la prima volta in vita sua, cosa davvero pensava.

“Elisa, vergognati”, disse sua madre. E come tante altre volte era successo e sarebbe successo ancora, quel tono le fece dimenticare la vergogna che forse c’era, le fece sentire l’ira bruciarle lo stomaco e salirle fino al viso.

“No, no – disse Fabrizio, – non c’è niente di cui vergognarsi. Avete tutto il diritto di arrabbiarvi, di pensare di me tutto il male che volete, anche di urlarmelo in faccia se vi serve. Dopotutto un’amicizia si costruisce anche così, sempre se e quando vorrete provarci”.

Nessuna delle due rispose, ma in entrambe adesso si agitavano pensieri, incertezze, domande alle quali avevano creduto di aver già dato una risposta, ma era una risposta che adesso suonava falsa alle loro stesse orecchie.

Il Bosco – Capitolo 1, Parte III (segue).

Le parti precedenti, per chi fosse curioso, si trovano nella categoria “Romanzo”, che appare nel menu in cima alla home page del blog 🙂

Lele guardò l’orologio. Erano oltre tre ore che Fabrizio era chiuso nella sua stanza a lavorare, e non era emerso neanche per prendere un caffè. Non era una cosa normale per lui, d’altra parte in quel periodo non sembrava del tutto normale. Bussò e fece capolino nel vano della porta.
Fabrizio alzò gli occhi. Era sommerso dalle carte, ma sembrava avere perso negli ultimi tempi parte della rapidità di percezione e della capacità di tradurre velocemente un’idea in progetto, che lo rendevano un alleato prezioso per i casi difficili. Lele credeva di conoscerne il motivo.
“Vieni, vieni, entra”, disse Fabrizio. “Tanto al momento non riesco a trovare il bandolo della matassa… scendiamo al bar?”
“Sai”, disse d’impulso Lele, prima di riuscire a controllarsi, “stavo pensando…” una pausa impercettibile. “Sei sicuro di quello che fai?”
Fabrizio sorrise. Sapeva benissimo che l’amico non si stava riferendo al progetto.
“Sono … fammi pensare … venticinque anni, suppergiù, che ci conosciamo, se non mi sbaglio?”
“Non me lo ricordare”, sospirò Lele.
“Mi hai mai visto fare qualcosa di cui non fossi sicuro?”
“In effetti, no … ma ti ho visto spesso fare cose di cui avrei tanto voluto che fossi un po’ meno sicuro. Tu sai essere maledettamente testardo, quando pensi di aver ragione e il fatto che questo succeda malauguratamente spesso peggiora le cose. Non credi che ci sia un motivo se la maggior parte delle persone pensa e si comporta in un certo modo?”
“Certo, ma credo anche che possa esserci un motivo per pensare e comportarsi in un altro modo. Neppure io sono un essere del tutto irragionevole”.
“Ma qui c’è un matrimonio di mezzo, una donna sposata, dei figli. Non ci hai pensato?”, proruppe Lele, arrivando infine al punto.
“Credi davvero che non ci abbia pensato?”
“Insomma… tu capisci quello che voglio dire”, concluse Lele debolmente. Per uno capace di demolire da capo a fondo il progetto di un cliente o di un collega in cinque minuti e senza alcun rimorso, era quasi pateticamente in imbarazzo ogni volta che doveva rivolgere a chiunque qualcosa che somigliasse sia pur lontanamente a una critica personale, persino se si trattava di uno come Fabrizio, che non se la prendeva mai, qualunque cosa gli dicessero. Questo, anzi, gli rendeva le cose ancora più difficili.
“Non puoi chiedere a un uomo di vivere in ogni momento all’altezza degli ideali, almeno non se prima non scegli a quali ideali ti riferisci – obiettò Fabrizio. – La famiglia, la morale, la libertà, l’onestà… non so dirti quale viene prima e quale dopo, ma so una cosa, che qualche volta sono in conflitto tra loro, e allora solo tu puoi decidere quello che ti permette, più degli altri, di essere quello che vuoi essere”.
“E quindi cosa farete? Andrete a convivere? Sai quanto me che la legge sul divorzio non passerà mai. Nessuno vuole la patata bollente tra le mani e la Chiesa ha molta influenza.
“Ho smesso molto tempo fa di orientare il mio comportamento secondo il pensiero degli zelanti custodi dei valori cristiani. Il mio Dio non abita più là, a dire il vero non ce lo trovavo quasi mai neanche in passato, adesso ha cambiato definitivamente indirizzo”.
“Non dovresti prenderti gioco così della fede”. Nell’infervorarsi di Lele c’era convinzione, c’era affetto, ma c’erano anche molte altre cose. Di alcune, neppure lui si rendeva del tutto conto.
“Non lo faccio”, rispose Fabrizio. “La mia fede, credo, è profonda quanto quella di chiunque altro, solo che cerco e scopro Dio in luoghi diversi.”.
“Ma non sei da solo, c’è una società dietro di te, le idee sul bene e sul male sono state costruite nei secoli. Vuoi metterti contro tutto questo? Vuoi definire da te i confini della tua morale? Lo sai che cosa diranno di te, di lei, di tutti voi?”
“Non do gran peso alla reputazione, se anche ne avessi una, la perderei facilmente, distratto come sono”. Fabrizio aveva un tono leggero e sorrideva, ma i suoi occhi erano molto seri, adesso.
“Non sarai tu, poi, a pagare il prezzo più alto. State scegliendo anche per le due bambine. State decidendo anche per loro”.
“Ma dimmi, Lele, se io adesso lasciassi Viviana da sola, ad affrontare le conseguenze del suo peccato d’indipendenza, o magari a tornare all’ovile con la coda tra le gambe, a implorare che un marito che non vuole più la riprenda comunque con sé per salvare le apparenze, credi che il mio livello di moralità si alzerebbe? Qualunque cosa sceglieremo, non saranno comunque i bambini a scegliere, la responsabilità è comunque nostra. Tutti noi in fondo costruiamo la nostra morale, prendendo a prestito gli ideali che ci sembrano migliori un po’ dove si trovano, tutti arranchiamo cercando di districarci tra le contraddizioni dei principi in cui pensiamo di credere, ma non sappiamo nulla, abbiamo mangiato la mela un giorno, ma l’intera vita del mondo non è bastata a conoscere il bene e il male. E quanto al prezzo, c’è sempre un prezzo per ogni decisione che prendiamo, ma non sappiamo mai quanto dovremo pagare, o a chi. Forse possiamo solo decidere per che cosa, ed è la libertà più preziosa che abbiamo”.
“Il prezzo della libertà”. Lele sembrava quasi sardonico, adesso. “Non era a questa libertà che pensavo, vent’anni fa sulle montagne”.
“Io sì”, ribatté Fabrizio. “Non so scindere una libertà dall’altra. Se non puoi decidere chi vuoi essere, come puoi essere libero di decidere la società in cui vuoi vivere?”
“Ma se tu dovessi stancarti di lei…”, obiettò ancora Lele.
Fabrizio lo guardò, e Lele capì che l’eventualità non gli era neppure passata per la testa.
“E’ una decisione che devo prendere nel presente, Lele. Se sapessimo quello che succederà in futuro ci comporteremmo diversamente? E saremmo più felici? Quando facciamo una scelta, non consideriamo solo quello che potrebbe costarci, non credi?”.
Lele desistette. Non poteva dire di essere convinto, ma conosceva Fabrizio da una vita. Sapeva da tempo che quell’uomo flemmatico e sereno, che gli era caro quasi più di se stesso, aveva dentro di sé una tale forza da muovere le montagne. Si spaventò scoprendo che la sua mente era stata persino attraversata, seppur fugacemente, dall’idea che potesse forse, dopotutto, aver ragione lui.

Eroe a chi? (#laltro24maggio)

L’invito di gaberricci a parlare oggi, 24 maggio, di un altro Piave, che non sia quello del “capitolo finale del Risorgimento” e della “liberazione dallo straniero” mi ha coinvolto. Ormai, forse, che la prima guerra mondiale sia stata soprattutto un grande massacro credo sia abbastanza entrato nella coscienza comune, ma non si sa mai, e certa retorica resta dura a morire. Mi sono resa conto, del resto, che pur avendo sicuramente sentito molto sull’argomento, non sono in grado di citare un singolo libro, o film (certo, c’è La Grande guerra di Monicelli, ma un po’ di retorica sull’eroe patriota non manca neanche lì), o articolo sull’argomento. Ho trovato in rete queste testimonianze prima guerra mondiale che mi sono sembrate interessanti, per cui propongo queste. Raccontano la storia dalla parte dei contadini, i pochi che sono tornati e che hanno visto.

Poi mi è tornato in mente un racconto che avevo scritto tempo fa, non si riferisce alla prima guerra mondiale in particolare, anzi, in teoria è ambientato in un ipotetico futuro, ma parla di diserzione e della mia particolare idea di coraggio, che ha molto a che fare con la libertà ma molto poco con la patria.

5 ORE E 22 MINUTI

…Sì, perché lui i fichi li aveva sempre mangiati così, buccia e tutto, e questo Angela non riusciva a capirlo, lei che lavava e sbucciava sempre, minuziosa, seria… Il ricordo così teneramente assurdo dei fichi non era altro che una scusa per pensare a lei. Credeva di volerla dimenticare, ma voleva ricordare, invece. Ricordare com’era quando l’aveva conosciuta e aveva creduto all’inizio, come tutti gli amanti, che le concavità e le convessità dei loro corpi e dei loro caratteri s’incastonassero alla perfezione.

Dicono che quando stai per morire rivedi tutta la tua vita e lui certo stava per morire. Cinque ore e ventidue minuti. Che strano, sapere esattamente quando accadrà, e come.

Le scene però non seguivano un filo logico. Balzi in avanti, ritorni indietro, frammenti di tempi diversi si sovrapponevano e sgomitavano nella sua testa. L’idea dei fichi ne aveva portata un’altra. Così mangiava i fichi suo nonno contadino, direttamente dall’albero, portandoli in bocca interi. Abitava in campagna il nonno, e aveva nel campo due alberi di fico giganteschi, almeno ai suoi occhi di bambino. Da piccolo credeva che il giorno in cui fosse stato capace di arrampicarsi su uno di quei due alberi, avrebbe scalato il cielo. Invece, quando ci era riuscito aveva fatto solo una scorpacciata di fichi da star male.

Le sue amicizie di allora erano sopravvissute per tanti anni. Paolo il figlio del dottore, Luca il figlio della maestra, Hassan il figlio dell’ingegnere e lui, Stefano, il figlio di un contadino diventato albergatore quando il loro paesetto era stato toccato dalle dita magiche della fata del turismo.

Ciascuno era fatto a modo suo, ma nessuno si considerava o era considerato “diverso”, allora. Era diverso Hassan, coi suoi genitori venuti dalla Siria? Adesso doveva pensarci per forza, non poteva non chiederselo, perché quella domanda l’aveva portato lì dov’era, a quattro ore e diciassette minuti dalla morte.

Dentro la sua testa il suono di un pianoforte e le note di una canzone di Paul McCartney vecchia di quasi un secolo: Ebony and Ivory si chiamava, Ebano e Avorio, come i tasti del pianoforte e come i bianchi e i neri che avrebbero dovuto sentirsi fratelli. Canzone facile, ingenua. Mentre il piano suonava ancora, gli si insinuavano dentro i rumori atroci delle esplosioni, una due, tre, non ricordava più quante erano state. Ricordava l’impotenza dei governanti e la gente che voleva dare un nome al terrore, alleati nel cercare un “chi” e un “perché “  un modo in cui la notte fosse meno nera.

Una candela è insufficiente a rischiarare tutto quel buio, ma la gente si aggrappa a quello che ha.

Anche lui avrebbe voluto sapere “chi” e “perché”. Rivedeva gli articoli del giornale e le sue foto come eroe del giorno, perché aveva cercato di portare in salvo qualcuno, una goccia in quell’oceano di morti.

Le cose cambiano, e l’eroe era diventato merda da calpestare.
Si chiedeva “chi”, ma sapeva che non era stato Hassan. Hassan era morto per quell’esplosione. Non “nell’esplosione”. Dopo, quando la rabbia aveva armato tutti quelli che avevano perso la loro innocenza, che erano entrati in uno stato di coma e non riconoscevano più amici, vicini di casa, compagni di scuola dei figli, ma vedevano solo nemici. E uno di questi uomini non più innocenti, uno che lui conosceva, aveva sparato ad Hassan, e Hassan era morto.
Quando i governi della Lega d’Occidente avevano dichiarato guerra all’Alleanza Nordafricana erano stati in molti a esultare. Anche Angela. Ma lui no. Lui non aveva capito. Angela continuava a ricomparire nei fotogrammi della sua memoria, non come avrebbe voluto, ma come era stata quel giorno in cui le cose avevano cominciato a cambiare. Angela con gli occhi vacui, Angela con le labbra strette, Angela che sottolineava con la rigidità dei movimenti la differenza abissale con la grazia della ragazza che aveva creduto così simile a lui.

Il giorno delle esplosioni aveva creato una spaccatura nel tempo, un “prima” e un “dopo” non più conciliabili. Qualcuno era rimasto su una riva, altri sulla riva opposta, e nessun ponte a costituire un riavvicinamento possibile.
Angela che lo aveva chiamato codardo, vigliacco, che lo aveva accusato di abbandonare lei e tutte le persone che conoscevano, la loro terra… Mai l’aveva vista così sicura, così incrollabile, tanto da far vacillare anche lui. Chissà se avrebbe incontrato Dio, quella mattina. Gli sarebbe piaciuto chiederglielo, così, schietto, come a un vecchio amico: dimmi, Signore, ma secondo te non ho capito niente? Secondo te avevano ragione loro?
C’era andato, al fronte, ma solo per parlare con gli altri soldati, altri ragazzi come lui, di venticinque anni, diciott’anni, o anche meno. Come era naturale, molti avevano riso di lui, molti avevano scosso la testa, rassegnati all’inevitabile “sono d’accordo sai, so che hai ragione, ma le cose sono quelle che sono…”. Altri invece si erano uniti a lui e quando qualcuno, come era naturale, li aveva denunciati, erano diventati anche loro dei vigliacchi, dei mezzi uomini senza onore. Avrebbe avuto le loro vite sulla coscienza? Non era dunque possibile una scelta che non costasse il sangue di nessuno? Anche questo avrebbe voluto chiedere, a Dio.

Mancava poco ormai, tre ore e una manciata di minuti. Era notte, avrebbe potuto dormire, se voleva, non è che non ci sarebbe riuscito. Aveva paura, questo sì, ma non tanto da non poter dormire. Dopotutto, la sua morte aveva avuto il privilegio di scegliersela, di deciderla. Ma quelle tre ore erano importanti, il fico andava assaporato così, con la buccia e tutto.
Pensò che se sua madre fosse stata ancora viva avrebbe potuto scriverle una lettera. Era morta giovane, invece, di cancro. Una morte che non suscita odio o rabbia, se non contro l’ingiustizia della vita. Ma non puoi dichiarare guerra alla vita.

“Lettera di un condannato a morte…”.

Non riusciva a immaginare una lettera simile pubblicata nei libri di storia, “Lettere dei condannati a morte della diserzione”. Un giorno, forse…
Dopotutto, le cose cambiano.

Di terra, di vento o di fuoco / of earth, wind or fire

Se ne vada la tua vita, fratello,
non nel divino ma nell’umano,
non nelle stelle ma nelle tue mani.

Arriverà la notte e poi
sarai di terra, di vento o di fuoco.

Per questo lascia che tutte le tue porte
vibrino, a tutti i venti aperte.

e invita il viandante nel tuo orto:
dà al viandante il fiore della tua vita!

Non essere duro, parco né avaro:
sii un frutteto senza uncini né muraglie!

Bisogna esser dolci e concedersi a tutti,
per vivere non v’è altra maniera

d’essere dolci. darsi alla gente
come alla terra le fonti.

(Pablo Neruda, Il ritornello del turco, da “Crepuscolario”)

Volevo scrivere qualcosa, magari ispirato a questa poesia, ma alla fine ho pensato che non c’era dopotutto nulla da cambiare. Che tu hai preso la tua vita nelle tue mani e l’hai condotta tutta nell’umano, parlando anche delle stelle magari, ma solo per quello che significano qui, sulla terra. Nelle tue mani ci sono anche le mie, le nostre. E ora è arrivata la notte e forse tu sarai di terra, di vento o di fuoco, ma persino adesso, le tue porte continuano a vibrare a tutti i venti. Il tuo orto e il tuo frutteto non hanno mai avuto uncini o muraglie, e nessuno mai è stato dolce e si è concesso a tutti più di quanto abbia fatto tu. Questo è il tuo canto, uno dei tuoi infiniti canti possibili, per meglio dire, e io continuo a stupirmi, ma in fondo sempre meno, della forza e della durata e della ricchezza di tutte queste emozioni diverse con cui continui ad abitare la mia vita. E non c’è un tempo, un pensiero o un sogno, un’azione o un gesto qualunque in cui tu non sia in qualche modo presente. Non sono in grado di scrivere un libro o una canzone, o poesie memorabili, o di dirigere un film su di te o di creare un nuovo ibrido di rosa e darle il tuo nome, di scoprire una nuova stella e intitolarla a te. Altri potrebbero farlo e non sarebbe considerato sconveniente, mentre immagino che possa esserlo, e molto, questo mio vagare in apparenza inconcludente nelle tue cose. Ma vedo con molta chiarezza, adesso, che è ben lontano dall’essere inconcludente. Al contrario, è da lì che viene tutta la mia nuova determinazione, la voglia, l’energia, il coraggio, la serenità, e quel po’ di tranquilla accettazione di tutte le cose che verranno che riesco a trovarmi nel cuore. Quindi so che se per tutta la vita ispirerò a te i miei progetti, e continuerà ad aggrovigliarmisi lo stomaco per questo miscuglio di sentimenti che così tanto ti appartiene e così tanto ti si addice, sarà una vita ben spesa.

Orson    tutto quello che mi serve è un rapporto che abbia senso.

Mork     L’amore non ha senso. Per questo i terrestri lo trovano tanto meraviglioso.

Orson    C’è qualcosa di simile qui su Ork?

Mork      No. Succede che ti sensi tutto caldo e sudato. Non riesci a mangiare, non riesci a dormire, e ti senti continuamente stordito come se avessi le vertigini.

Orson     Suona come quella malattia che ti eri preso su Venere.

Mork      Già, la Vendetta dei Venusiani.

Orson    Noi Orkiani abbiamo preso la decisione giusta, rinunciando alle emozioni.

Mork     Non ne sono tanto sicuro, Orson. Sapete, potremmo avere rinunciato a troppo. Per quanto io sia più progredito di questi umani, qualche volta mi… mi sento così primitivo,

Orson     Ho paura di non capire.

Mork       Non capisco neanch’io, Orson, ma non ho paura.

(la traduzione è mia e non è quella ufficiale del telefilm doppiato)

I thought of writing something, inspired by this poem, perhaps, but in the end I’ve realized that there was nothing to change, after all. that you took your life in your hands and led it through all that is human. And if you spoke of stars, it was only for the meaning they have here, on Earth. In your hands you hold mine, ours. And now the night has come and perhaps you’ll be of earth, of wind or of fire, but even now, your doors still quiver under all winds. Your orchard and fruit garden never had hooks or walls, and nobody has ever been sweeter and has given himself to others more than you did. This is your song, or rather, one of your numberless, possible songs, and I’m still surprised, although less and less with time, by the strength and duration and richness of all these diverse emotions, with which you continue to inhabit my life. An there is no time, thought or dream, no action or gesture, whatever, in which you are not present somehow. I’m not able to write a book or a song for you, or unforgettable poems, nor can I direct a movie on your life, or create a new rose hybrid and give it your name, discover a new star and name it after you. Other people may do that, and it won’t be considered improper, whereas I take it this apparently inconclusive wandering of mine through your things might indeed be considered improper, and very much so. But I see very clearly now that it is not inconclusive at all. Quite the opposite, that’s where all comes from, my new determination and aim, energy, courage and serenity and any amount of calm acceptance of all things that may come, I can find in my heart. Therefore I know, if I take my inspiration from you for all my projects, throughout my life, and butterflies continue to fly in my stomach with all these mixed emotions that belong and become to you so much, then it will be a well-lived life.

Mork       Love doesn’t make sense. That’s why earthlings think it’s so wonderful.

Orson     Is there anything similar to it on Ork?

Mork       No. What happens is you get hot and sweaty. You can’t eat, you can’t sleep, and you feel dizzy all the time.

Orson      It sounds like that disease you got on Venus.

Mork        Yes, Venusian’s Revenge.

Orson       We Orkans made the right decision in giving up emotions.

Mork         I’m not so sure, Orson. You see, we may have given up too much. Even though I’m more advanced than these humans, sometimes I… I feel so primitive,

Orson       I’m afraid I don’t understand.

Mork        Neither do I, Orson, but I’m not afraid.