Perché scriviamo – Paco Ignacio Taibo

logo staffetta letteraria,

“Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure, allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare… Scriviamo spinti dalla vocazione per la volontà, la leggenda, l’utopia, l’umorismo nero, la satira, il melodramma involontario, il realismo accidentale. Scriviamo perché ci sembrerebbe di morire se non potessimo raccontare storie di fate e folletti, gli incubi dell’ultimo dittatore o la descrizione del campo da pallacanestro dopo la partita, e moriremmo davvero se smettessimo di farlo…Non chiediamo niente di più di quello che già possediamo: la facoltà di scrivere e di essere letti. E così raccontiamo con la stessa rabbia feroce e divertita di chi, solo dopo aver perso tante volte l’aereo, comincia a capire veramente il senso del viaggio.”

Sono parole di Paco Ignacio Taibo (da: Te li do io i Tropici, M. Tropea Editore), ma credo che valgano per chiunque scriva, anche solo per se stesso. Io almeno mi ci riconosco, e certo non saprei dirlo meglio.

Questo era uno dei miei primi post, che avevo usato ai tempi come presentazione e in un certo senso spiegazione del blog. Visto che rientra nei canoni della staffetta, ho pensato di inserire anche questo, ringraziando ancora una volta Nuvolesparsetraledita per l’iniziativa

Scriverti

Sono di nuovo qui a scriverti… vedi, ti scrivo quando sono felice, quando sono triste, quando ho paura, quasi che tu potessi ascoltarmi. Pensarti addolcisce ogni cosa, sai, un po’ come vedere i tuoi occhi posarsi su un piccolo dettaglio e dargli luce. Perché come riusciva, il tuo sguardo, a dare luce a qualsiasi nonnulla! Come mi serve, ora, evocarlo, così che la mia immaginazione possa fare la stessa magia, per scacciare le ombre.

In realtà è evidente che se scrivo qui, forse ho bisogno di qualcuno che possa davvero rispondermi. Ma è come quella storia della stella cadente. Io ho un desiderio e qualcosa succede. Magari non sei tu, sicuramente non sei tu, però qualcosa succede. E non funziona con qualsiasi desiderio, solo quelli veramente profondi, quelli che a volte neppure io so di avere, però sono lì, in un posto segreto, e quando succede qualcosa, allora li riconosco, so che erano lì anche da prima, e che erano davvero desideri importanti, essenziali, che mica sei il Genio per nulla, non ti si può interpellare per qualunque ghiribizzo.

Che poi se davvero tu mi sentissi, lo so che faresti “whew!” e distoglieresti un istante il viso, in imbarazzo, lusingato certo, ma con l’idea che si stia anche esagerando un po’, e certo ci rideresti anche su, perché dopotutto non ti sei mai preso tanto sul serio, a quanto sembra, però alla fine la tua risposta mi servirebbe comunque, perché tutto quello che dicevi mi è sempre servito.

Adesso, questo sogno… ricordo bene quando dicevi che a volte bisogna andarseli a cercare i guai, correre qualche rischio. E allora dici che adesso mi sto tirando indietro per non mettermi in gioco? dici che non sto mettendo in pratica quegli ideali di libertà e coraggio che hai rappresentato così tanto, per me, da sempre, e adesso, dicevo, adesso più che mai, e invece… Dici che non è bello, ora che ho infine l’occasione di realizzare quelle idee in cui credo, farmi prendere dal panico e smettere di giocare. lasciare il campo senza neanche provarci?

7. The Best of Times

Ormai la Recensione del Lunedì sta diventando quasi tradizionale, stile rubrica fissa.

E questo film…

Sì, lo so che adesso penserete che comunque tanto l’ho già detto che a me non può non piacere un film con Robin Williams, e quindi è un po’ inutile che vada avanti a ripetere che… però questo è un film normalmente del tutto al di fuori del mio genere. Una storia di football (argh!); una storia di riscatto da un fallimento sportivo di quindici anni prima (doppio argh!); una storia edificante di come con la volontà si possa arrivare a mete inaspettate e sconfiggere, come Davide, la squadra Golia preparata dieci volte meglio ecc. ecc. ecc. (triplo, quadruplo, quintuplo argh!).

E quindi forse vale la pena spiegare perché, nonostante tutto, il film mi sia piaciuto non poco (al di là della ragione prima, essenziale e comunque in sé sufficiente, of course). Anche perché è un altro di quelli meno noti, almeno fuori dall’America (a dire la verità questo forse in Italia non c’è neppure arrivato, così come Club Paradise e Seize the Day).
Allora, come per Club Paradise, che è dello stesso anno (1986), elencherò semplicemente alcuni dei punti chiave che ne fanno comunque, secondo me, un film riuscito, e che merita:

1) Ok, Jack ‘Butterfingers’ (“dita di burro”) Dundee non è adorabile come l’altro Jack, quello di Club Paradise, appunto. E’ perseguitato dal fatto di aver lasciato cadere la palla lanciatagli da Reno Hightower (Kurt Russell) quindici anni prima, cosa che non gli è mai stata perdonata non solo da Reno (che pure è in un certo senso suo amico), ma neanche da tutto il resto del buco d’inferno in cui vive (piccola città, bastardo posto…). Per giunta, ha l’aggravante di aver sposato la figlia di un banchiere (che gli dà lavoro soltanto per questo motivo e vorrebbe che la figlia divorziasse per poterlo licenziare). Il suocero, sommo della sfiga, è anche il proprietario della squadra che ha battuto la sua ai tempi, e che non avendo problemi di soldi, resta tuttora una squadra incommensurabilmente più forte. Jack è ossessionato dallo sport, ossessionato dal proprio fallimento, egocentrico e abbastanza ‘figlio di’ (full of shit, lo definisce l’amico Reno a un certo punto). Però… però è molto, molto umano. Robin Williams è come sempre bravissimo a mostrarci proprio questo. Il fatto che sono anche i difetti di qualcuno, spesso, a rendercelo simpatico. E il fatto che possiamo benissimo immedesimarci in quei momenti di stallo, quei punti della vita che si riescono mai a superare veramente, benché sembri di essere andati avanti. E che è soprattutto questo non riuscire ad andare oltre che a volte rovina la nostra vita e con questa, anche quella degli altri. E poi c’è la faccenda della maschera da tigre… ma vorrei che lo vedeste e quindi non dirò niente.

2) Io non capisco un’acca di football. Però ragazzi, gli ultimi dieci minuti del film sono al cardiopalma!

3) La scena di Jack che entra nei bagni delle donne e parla con sua moglie avendola riconosciuta dalle scarpe è buffa e tenera come soltanto RW avrebbe potuto renderla.

4) Lo sguardo di Jack quando chiede a Reno di lanciargli la palla vale da solo tutto il film. Del resto non lo dico certo solo io, che con un movimento di sopracciglia Robin Williams poteva percorrere un’intera gamma di emozioni.

5) L’introduzione narrativa è un pezzo di bravura.

6) Il film descrive così bene una vita quotidiana ‘normale’, che a volte avresti voglia di urlare, a volte ridi, a volte ti commuovi, sempre tutto sul filo di un umorismo non calcato ma costante, che ogni volta, sia pure magari per un pelo, salva la storia dai rischi ben noti di queste storie. E in certi momenti si ride di cuore, anche.

/

The genre this film belongs to is usually not my thing at all. A story about football (argh!); a story of redemption from a sports failure of fifteen years before (double argh!); an inspirational story (although in parody) of how with sheer willpower you can reach unexpected goals and beat, just as David, the Goliath team, ten times as well-prepared, and so on, and so on… (triple, quadruple, quintuple argh!).

So it may be worth explaining why despite all this, I liked the movie so much.

As I did for Club Paradise, which is of the same year (1986), I will just list a few key points that make it a well-made film that deserves to be seen:

1) Ok, Jack ‘Butterfingers’ Dundee is not so adorable as the Jack of Club Paradise.He’s still plagued, after fifteen years, by the fact that he dropped the ball thrown at him by Reno Hightower (Kurt Russell). This is something for which he’s never been forgiven: not by Reno (although he is his friend, in a way), and not by anyone else either, in the hellhole where he lives. On top of that, he has married the daughter of a banker (who has hired him only for that reason, and hopes that they divorce to then fire him). To make matters even worse, his father-in-law is also the owner of the team that beat his own at the time and that having no problems of money, is still incalculably stronger. Jack is obsessed with sports, obsessed with his own failure, self-centred and quite a son of a b. (full of shit, as Reno labels him at some point). And yet… and yet he’s so human. Robin Williams is great as always at showing us just that. The fact that what is endearing in others, it’s often their defects. And the fact that we can very well identify ourselves with those stalemates, those sticking points in life you never really overcome, although it seems as if you’ve gone forward. And it’s just this inability to go beyond that sometimes ruins our life and, consequently, the life of others as well. Then there is that tiger mask affair… but I’d like to see it, so I’ll tell you nothing of this.

2) I don’t understand a jot of football. But boy, the last ten minutes of the movie are heart pounding!

3) The scene when Jack goes into the ladies’ toilets and talks with his wife having recognized her by her shows is funny and tender as only RW could make it.

4) Jack’s look, when he asks Reno to throw him the ball is worth the film alone. After all, I’m not the only one to say that Robin Williams could bring out a whole range of emotions through nothing but a movement of his eyebrows.

5) The voiceover narration at the beginning is a bravura passage.

6) The film describes ‘normal’ everyday life so well you sometimes feel like screaming, sometimes you laugh, sometimes you’re moved, with a thread of humour that runs through everything, never overloaded but constant, which every time saves the story, though it may be by a hair’s breadth, from the well-known risks of these stories. And you have some hearty laughs too.

Sasso e libellula

Sono sasso di fiume, la pietra levigata sull’alveo
immobile, eppure forgiata dal passaggio
delle luci sulla superficie trasparente del mattino,
del riverbero frammentato in gocce,
del tempo, e dell’acqua, e di molto amore.

Tu sei il fiume, irruente, irriverente, irrispettoso;
seppur gentile a tratti, mi lambisci i fianchi
accarezzi le mie forme, arrotondi gli spigoli;
ma non hai argini, né limiti o confini,
solo tempo, acqua, e molto amore.

Alle prime piogge, libero da ostacoli,
il tuo cammino si fa corsa, vortice, sfida alla corrente
e il tuo canto scroscio, e poi grido e vita,
a immaginarti così, si allenta il male lancinante
della distanza, la morsa della tenaglia attorno al cuore.

Attraversami dunque, valica la durezza dei contorni
Mi farò libellula e sfiorandoti acquieterò l’impeto
che solleva e scuote e mescola le onde col fondale
Mi muoverò leggera, come la luce che t’increspa
e corruga appena la tua pelle in un sorriso

Ma non ascoltarmi più, ora, circondami in silenzio
ch’io possa smarrirmi nel tuo scorrermi dentro
Portami con te, ricoprimi come fai con le stelle
trasformami in luce d’acqua, senza più corpo o nome
che non sia quello che mi vorrai dare

Credi forse che potrei mai aver paura?
Sono sasso, e libellula, e donna
e ti amo.

I genitori non sono più quelli di una volta

45 anni, un figlio di 15, un bel sorriso e un divorzio alle spalle. Queste erano le cose che ti saltavano agli occhi quando pensavi a Eleonora. Si potrebbe aggiungere, per i curiosi, che era commessa ai Grandi Magazzini Coin e amava le troffie al pesto, ma erano dettagli inessenziali, pennellate di colore a completare il quadro, diciamo.
Suo figlio Maurizio ogni tanto la faceva ammattire, come quando era uscita la prima volta con Fulvio, l’uomo che per adesso era ancora nella sua vita.
– Dove vai? – Le aveva chiesto con aria indifferente, vedendola uscire in gonna e camicetta discretamente sfiziose, catenina al collo e una scia di profumo. Impiccione.
Fulvio aveva fatto un po’ di confusione con degli acquisti, lei gli aveva risolto qualche minuscolo inconveniente, davvero niente di che, ma c’era stato un incontro di sguardi solitamente sfuggenti. In quegli occhi di uomo senza particolari attrattive lei aveva visto qualcosa. E lui forse anche. Banale così, proprio, ma anche le cose banali qualche volta funzionano. C’era da sperare che quella fosse una di quelle volte.
– Chi è questo Fulvio, sei sicura che ti puoi fidare? – Ancora Maurizio. – Senti, portati il cellulare, e semmai mi chiami che ti vengo a prendere, ok?
– Ehi, ma chi è il genitore qui? Non pensi che alla mia verde età dovrei sapermela cavare?
Sguardo beffardo. O geloso.
Ma poi, il giorno che con Fulvio avevano festeggiato il primo mese insieme, era tornata a casa e l’aveva trovata invasa dai fiori.
– Cazzo – aveva detto, ormai non sentiva più il bisogno di trattenersi davanti a quel figlio disinibito.
– Ma… sono tutti di Fulvio?
– No – le aveva risposto lui, piccato. – Sono miei. Non posso farti gli auguri?
Ma certo che sì. Solo perché le aveva fatto scenate di gelosia fino a mezz’ora prima che uscisse, non significava che non potesse farle gli auguri. Così come il fatto che si fosse tatuato un drago sul braccio e indossasse un’aria perennemente strafottente come se avesse fatto parte da sempre dell’abbigliamento quotidiano, non significava che non avesse i suoi momenti di tenerezza. E il fatto che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che farsi vedere a leggere un libro, non significava che non stesse di notte con la lucina accesa sotto le lenzuola. Almeno, c’era da crederlo, perché tutti quei libri che avrebbero dovuto essere nuovi e mai toccati, presentavano sospetti segni d’uso.
Eleonora ripensava a queste cose mentre, a duecento metri da casa, aspirava voluttuosamente la seconda sigaretta della giornata. Mica fumava tanto, mai più di due. Ma se l’avesse vista Maurizio…
Finì di fumare che mancavano ancora cento, centocinquanta metri. Masticò perfino una caramella alla menta. Tutto inutile, lui aveva antenne da radar.
– Ah ma’, sei vecchia, guarda che fumare non è più di moda, non lo fa più nessuno. Che vuoi, ammazzarti prima del tempo?
Arroganza a nascondere un segreto terrore.
– Cosa dovrei fare, secondo te, farmi uno spinello? Magari sei capace pure di dirmi che fa meno male delle sigarette.
– Può darsi – improvvisamente serio. – Ci sono studi che lo dicono.
Un pensiero improvviso.
– Non è che te li fai anche tu, gli spinelli?
– Ma no ma’, uno solo l’anno scorso, sennò quelli poi mi prendevano per il culo per il resto della vita.
Lei fu tentata di dargli un ceffone, lo scrutò, aveva la faccia innocente, forse stava dicendo la verità. Speriamo. Gli lanciò uno sguardo pieno di rabbia affettuosa, lo stesso modo in cui lui la guardava quando lei fumava. Forse si capivano più di quello che credevano.
– Ehi campione, invece che fare le ramanzine a tua madre, vedi di metterti un po’ a posto quello schifo di stanza. Ah e poi guarda che domani sera sono fuori a cena.
– Di nuovo fuori a cena? Non ti sembra di esagerare? E a che ora torni?
– Questi sono fattacci miei ragazzino.
– Ah – grugnì lui. Una smorfia, esasperazione subito stemperata in un mezzo sorrisetto. – Proprio così – fece, alzando gli occhi al cielo. – I genitori non sono più quelli di una volta.

La vendetta appartiene a Dio

Ormai non sono che una cosa, condannato a restar qui immobile in eterno, senza un ponte a unirmi a nessun altro, ché almeno un ponte, anche tra due confini separati, anche con le guardie armate a controllare, anche con un pedaggio da pagare, resta sempre un passaggio, e da un ponte puoi sempre trovare il modo di andare dall’altra parte e abbracciare qualcuno. Un ponte è luogo di comunicazione, anche quando la comunicazione è fatta di lacrime e di sangue sparso e macerie. Da un ponte Anna mi corse incontro quel giorno, mi buttò le braccia al collo, ed io l’abbracciai. Ma non ho più ponti, adesso. La comunicazione è rotta. Il segnale, quando pure arriva, è così disturbato da essere indecifrabile. O inascoltabile. Assordante.
Ero diverso, allora, ma lei aveva già capito in che cosa mi sarei trasformato, conosceva il selvaggio sotto il manto di cristianesimo, quello che la minaccia dell’inferno aveva trasformato in un topo rintanato, quello che prendeva su di sé il compito di Dio, si credeva Dio, eppure era terrorizzato da se stesso.
Anna aveva strani occhi allungati, e quando ascoltava, quando chiedeva, quando pensava, i suoi occhi si riducevano a due fessure, le sopracciglia si arcuavano e sulla bocca le si disegnava uno strano sorriso, metà scettico, metà trasognato. Il sorriso di una donna che sapeva che le utopie non si realizzano mai, ma non sapeva smettere di crederci.
Non so come, ma so che quel giorno, il giorno in cui l’abbracciai – e sentivo la forza delle sue braccia sulla mia schiena, e fortemente volevo quell’abbraccio – quel giorno il ponte cominciò a sbriciolarsi. Perché già pensavo di tradirla, e già quel tradimento mi aveva fiaccato le ossa, e quell’abbraccio che volevo, non lo avrei mai più saputo dare.
Ma non era solo questo. Era che Anna veniva dall’altra parte del ponte. Non avevo mai pensato a questo, prima. Era la persona che conoscevo meglio al mondo, sapevo il suo colore preferito, i libri che leggeva, conoscevo le sue migliori amiche, sapevo in che negozio comprava i suoi vestiti. E mai, fino a quel giorno, avevo pensato che lei veniva dall’altra parte del ponte. Era una donna, ed io ero un uomo. Non aveva mai avuto importanza da quale parte venivamo.
Io odio il vento. Il vento ti si insinua dentro, ti penetra, ti invade la pelle e le ossa. Il vento è una brutta bestia nera che se ne frega dei ponti e dei confini. E’ il vento nella tua testa che ti fa perdere il controllo, che ti terrorizza fino a che non senti altro nel cervello che un buco nero e il sibilo della burrasca.
Fu il vento a uccidere Anna. Io non avrei mai potuto farlo. Ho sempre avuto controllo del mio corpo, è vero, del mio corpo e di tutto ciò che mi apparteneva, la casa, la terra, i soldi. Ma Anna non mi apparteneva, e il vento fece la mia vendetta, perché non potevo perdonarle di essersi lasciata tradire, e non potevo perdonarle, più di ogni altra cosa, di aver passato quel ponte, mostrandomi, per la prima volta, che eravamo su due sponde diverse. Mi ha fatto conoscere la paura. La colpa. Lei veniva dall’altra parte del ponte. Mi avrebbe chiesto di rinunciare a me stesso, alla mia terra, ai confini, al controllo sul mio corpo, persino a Gesù Cristo, in cambio di un ponte. E sapevo che lo avrei fatto, questa era la mia colpa. Per questo l’ho tradita. Per questo ho lasciato che il vento la uccidesse.
Odio il vento. Il vento compie vendette che non gli appartengono. La vendetta appartiene solo a Dio.

Nuvole barocche

NUVOLE BAROCCHE
FABRIZIO DE ANDRÉ
Poi un’altra giornata di luce
poi un altro di questi tramonti
e portali colonne fontane.
Tu mi hai insegnato a vivere
insegnami a partir.
Ma il cielo è tutto rosso
di nuvole barocche
sul fiume che si sciacqua
sotto l’ultimo sole.
E mentre soffio a soffio
le spinge lo scirocco
sussurra un altro invito
che dice di restare.
Poi carezze lusinghe abbandoni
poi quegli occhi di verde dolcezza
mille e una di queste promesse.
Tu mi hai insegnato il sogno
io voglio la realtà.
E mentre soffio a soffio
le spinge lo scirocco
sussurra un altro invito
che dice devi amare
che dice devi amare.

Il tramonto sul mare ieri era luce, passione, fiamma, coraggio, timore, ombra, parole, silenzi, oro, rosso, blu, poesia, vita, sale, dolcezza, barche, vento, acqua, memoria.

Non ho potuto fotografarlo e questo mi dispiace, ma ce l’ho dentro come un racconto. Spero solo di riuscire a scriverlo. Il vento non era scirocco, era tramontana, ma il senso è quello, l’emozione è quella, mi appartiene, sotto la pelle.

Girando per la città…

Canto di settembre

logo staffetta letteraria,

Il mio contributo alla staffetta narrativa di Nuvolesparsetraledita, che ringrazio per un’iniziativa davvero molto bella.

/

La mia stanza è una tazza colma di parole
accalcate come foglie agli angoli dei muri
che s’accapigliano, sospinte dal vento di settembre
e riempiono la mia gerla di grano fino all’orlo,
mi stringono d’assedio il petto, quasi avessi
altre fortezze a difesa di quel ch’è tuo da tempo,
mi si fermano in gola e fanno il cuore gonfio
prosciugandomi le labbra, morse dall’arsura
di aver tanto da dire e non sapere quando, e come.
Il mio tè delle cinque è rallentamento del dolore
perché la nebbia che cela il mare alla vela in secca sullo scoglio
puoi vederla come la crudeltà impalpabile dell’ombra
o la bruma silenziosa e lieve che sfuma i contorni delle onde
e ammorbidisce il loro frangersi sulle murate a dritta,
àncora a una felicità densa di segreti sottintesi.
E questo amore così puntuale, come le prime rondini
è il dono di un tempo gentile di vendemmia,
del giardino addolcito dalle chiacchiere del vento,
di questo brivido lento che si disvela nel mio autunno antico;
così freme il ciclamino alla pena dolce che lo sfiora,
fiorisce tremulo, alla musica delle tue mani
che conoscono la rotta, sanno le manovre del timone e i nodi,
le correnti e le stelle, muovendosi tra terra e cielo;
e mi faccio anch’io vela, perché a cullarmi sia il tuo mare.