UN LEONE A COLAZIONE – Intorno all’adozione / ADOPTION IS NOT JUST AN OPTION – 2

pc5rrebni

Chi ha letto la scorsa puntata di Un leone a colazione, ricorderà che abbiamo lasciato il nostro re e la nostra regina senza figli a pensare al loro desiderio di avere un bambino, come aveva loro suggerito la vecchia, saggia signora del bosco.

Il re e la regina pensarono a lungo, discussero tra loro. “Io vorrei che nostro figlio ricevesse l’educazione di un principe o di una principessa” diceva il re, “e che un giorno diventasse re o regina al nostro posto, quando saremo vecchi e stanchi. Sarà sangue del mio sangue, gli insegnerò tutto quello che so e così lascerò qualcosa di me nel mondo quando dovrò andarmene”. La regina diceva “Io me lo immagino già, un bel fagottino da coccolare e abbracciare e riempire di baci e carezze”. “Sicuramente sarà bellissimo”, diceva il re, “magari avrà i tuoi occhi”. “Oh”. Rispondeva la regina. “A me piacerebbe che avesse i tuoi”.

A loro piaceva molto fare questi discorsi, immaginare come sarebbe stato il loro bambino, come sarebbe cresciuto, il suo futuro, le qualità e i difetti che avrebbe preso dal papà e dalla mamma. Si divertivano a pensare a chi avrebbe assomigliato di più e al nome che gli avrebbero dato.

Ma quando tornarono dalla vecchia signora e le raccontarono i loro discorsi, lei li guardò un po’ pensierosa e poi disse:

“Manca qualcosa, non credete?”

Il re e la regina si guardarono perplessi.

La vecchia signora sorrise con indulgenza. Ne aveva visti tanti come loro. Erano pieni di buone intenzioni, potevano sicuramente essere dei bravi genitori ma…

“Beh, mi avete raccontato i vostri desideri, come voi lo immaginate, come vorreste che crescesse. Ma che mi dite dei suoi desideri, di come lui o lei potrebbe immaginare i suoi genitori, di come lui o lei vorrebbe crescere? Perché un figlio dovrebbe volere voi come papà e mamma? E se scegliesse per sé un futuro del tutto diverso da quello che voi immaginate? E se non avesse i vostri occhi e non vi somigliasse per niente?”.

Il re e la regina a questo punto si sentirono un po’ smarriti. Chiesero ancora un po’ di tempo per pensarci e la vecchia signora sorrise benevola. “Naturalmente”, disse. “Tutto il tempo che vi serve. La fretta non è mai una buona consigliera, ma in queste cose, meno che mai. Quando vorrete tornare, io sarò qui ad aspettarvi”.

E così si salutarono, per il momento…

Chi volesse leggere la prima puntata la trova qui

L’ultimo Abele

Amo prima di tutto i colori di questo romanzo di Avvocatolo. I colori nominati con precisione, persino col codice, quasi a dire che non è vero che non ci sono parole esatte per descrivere. Qualunque cosa, visibile o invisibile, ha un nome e sta a noi trovarlo. Non sempre ci riusciamo, ma quel nome, da qualche parte, esiste.

Così capisci che anche la numerazione dei capitoli non è solo un vezzo, né è strampalata come sembra, ma ha un suo senso legato strettamente al “niente è come sembra” e forse anche “niente è come dovrebbe essere”.

Niente, neanche la lingua, che è ricca e densa come un vino rosso di quelli corposi, inusuale, una lingua di immagini, di metafore insolite, spesso poetica, talvolta ridondante (ma quasi mai in senso negativo, piuttosto come un modo, anche qui, di farci toccare con mano la ricerca dell’espressione migliore, la più precisa, la più perfetta). Una lingua malleabile, colta dove è giusto, popolare dove serve, maneggiata sempre con competenza e capacità di scelta tra vari riferimenti, siano letterari, siano tratti dai più moderni mezzi di comunicazione o semplicemente dal mondo e dalla realtà circostante, ascoltata e “riscritta”, resa quasi più vera del vero, nel momento stesso in cui apparentemente la si esagera.

Ci sono parole che si sciolgono in bocca come un cioccolatino. Un cioccolatino e basta, oppure un cioccolatino che poi ha dentro una crema al liquore, densa, gustosa, dolce e con un retrogusto leggermente amaro. Altre parole sono morbide e calde come un maglione di pura lana, magari alpaca tinta écru, o grigio siliceo, o bianco papiro. E altre ancora poi sono ruvide come carta vetrata oppure allegre, un bel rosso fuoco, o un giallo dalia.

E’ un romanzo che va letto con attenzione, secondo me, anche se viene voglia di divorarlo e potrebbe anche andar bene per un primo assaggio, ma poi a tornarci sopra si scoprono  nuovi nessi, piccole frasi apparentemente innocue e in realtà preziose, uno spirito di osservazione molto acuto a volte mostrato senza veli, altre seminascosto dietro uno spirito (apparentemente?) goliardico. Non che non ci sia anche della goliardia vera. E’ un libro divertentissimo, in certi punti. In altri fa sorridere. Ma dietro il sorriso c’è quasi sempre dell’altro. Alla fine non sono riuscita a mollarlo, le ultime 100 pagine le ho lette d’un fiato. E lo consiglio perché è diverso da tutto quello che ho letto finora ma al tempo stesso parla di emozioni in cui possiamo senza difficoltà riconoscerci.

Il Bosco – Parte II – Capitolo 2 – Continua

immagine_bosco

Il Natale quell’anno Andrea lo trascorse da solo, in un carcere militare. Custodia preventiva. Sapeva benissimo che il suo gesto avrebbe avuto un costo, e forse credeva anche di essere preparato a pagarlo, ma non lo era veramente, non avrebbe potuto esserlo. Nei mesi durissimi che seguirono dovette imparare, perdere gli ultimi scampoli di sbruffoneria da adolescente. Il ragazzo che si curava poco delle conseguenze stava diventando un adulto che consapevolmente le affrontava, passo dopo passo, stringendo i denti.
La vergogna dei suoi genitori, la compassione dei vicini per la famiglia rovinata da quel figlio degenere, il processo, la condanna, l’accusa che tentava di presentarlo come un mezzo uomo senza onore, un mollusco viscido e vile che, se non corretto in tempo, avrebbe potuto, per mancanza di scrupoli morali, essere capace di qualunque nefandezza. Tutto questo aveva creduto di averlo messo in conto, ma viverlo davvero era stato molto diverso, una serie di colpi allo stomaco che lo avevano fatto vacillare più di una volta.
Gli avevano dato la condizionale, e per il momento di carcere aveva fatto “solo” tre mesi. Ma i giudici erano stati chiari, la condanna non cancellava l’obbligo della leva, e se lui si fosse rifiutato ancora, avrebbe subito una pena più pesante, e questa volta non sospesa.
Eppure non rimpiangeva affatto di aver intrapreso, magari d’impulso e non troppo razionalmente, quel percorso di cui adesso non vedeva neanche più la fine. E comunque ormai doveva andare avanti. Gli era pur sempre necessario essere in mezzo alle cose, vivere fino in fondo qualunque scelta decidesse di fare.
Una delle cose che gli avevano dato più forza era stato il sostegno degli amici, anche di Matteo. Soprattutto di Matteo. Che non condivideva né la sua scelta di principio, né l’ostinazione di non voler cedere, ma era stato pronto a testimoniare – e in un tribunale militare, nonostante il sacro terrore che aveva dei tribunali in genere! – indignato profondamente per il ritratto di Andrea che avevano dipinto, così distante dalla realtà. Tutti sarebbero stati più che disposti a testimoniare. Andrea aveva rifiutato di coinvolgerli, ma la loro lealtà lo aveva commosso e inorgoglito a tal punto da rendergli molto meno difficile, da quel momento, continuare per la sua strada.
Quando uscì, a marzo inoltrato, era appena un po’ più magro – non che fosse mai stato sovrappeso – e aveva, nessuno avrebbe saputo dire dove, o come, qualche segno, non troppo marcato, ma comunque percettibile, che lo rendeva diverso da quello che era prima. La sua stessa irrequietezza, quella che forse l’aveva condotto fin lì, si era molto attenuata, quasi che non avesse più ragion d’essere, ora che era arrivato là dove doveva, e soprattutto voleva essere.
Tutti, nel gruppo, lo accolsero con un rispetto nuovo, tutti esprimevano nei suoi confronti, ognuno a modo suo, qualcosa che andava al di là dell’affetto di sempre. Persino Lorenzo, si capiva che gli costava, ma suo malgrado provava una sorta di riluttante ammirazione. Aveva fatto qualcosa, dopotutto, oltre a giocare alla lotta dalla poltrona della sua casa borghese. Marco esprimeva il suo stato d’animo con un fuoco d’artificio di scherzi e battute che, lungi dal ridimensionarlo, mettevano affettuosamente in luce le sue migliori qualità; in Matteo il desiderio di prenderlo a schiaffi, che lo coglieva di tanto in tanto, sembrava molto meno presente del solito; e quanto a Elisa… sì, il suo sguardo se l’era immaginato, ci leggeva, solo con più forza che negli altri, quelle stesse cose che lo avevano aiutato a tenere la testa alta, anche quando più forte era stata la tentazione di piegarla. Si sentiva più che mai, finalmente, forte della certezza di aver fatto la cosa giusta.
Alcune conseguenze, tuttavia, non se l’era neppure immaginate. Problemi che non avevano nulla a che vedere con tribunali, processi, testimonianze e conflitti familiari, ma con l’impossibilità di sottrarsi mai del tutto alla violenza del mondo.

Matteo non si era accorto che stavano arrivando. Come al solito. Vedeva sempre le cose un momento troppo tardi, imparava sempre dopo tutti gli altri, camminava sempre un passo indietro.
Tutta l’amarezza di una vita in ritardo gli arrivò addosso come un’ondata in quella frazione di secondo in cui si trovò nell’impossibilità di svicolare, eludere, cambiare strada pur di non essere coinvolto in uno scontro.
Matteo odiava gli scontri.
E quell’amarezza si riversò contro gli altri, Marco, Filippo, Lorenzo, Andrea. Andrea. Possibile che neanche lui li avesse visti? Non poteva crederlo. Tanto quanto lui era sempre in ritardo, Andrea era sempre un po’ più avanti, si accorgeva delle cose senza avere bisogno di pensarle, metterle a fuoco, elaborare strategie. Le interconnessioni, i nessi gli saltavano agli occhi senza che li cercasse. Eppure non aveva fatto niente per evitarli.
Non ci si poteva sbagliare, stavano venendo verso di loro. Giacconi di pelle, pantaloni neri, occhiali neri, capelli tagliati cortissimi e la faccia di chi non è lì per sbaglio, di chi non è mai distratto, non lascia mai niente al caso. Quanti erano? Cinque, sei? Loro erano solo in quattro e la preparazione atletica non era proprio il loro forte. Mentre “quelli” si facevano un vanto di essere degli arditi, gente d’azione, dove per azione si intendeva la preparazione costante alla battaglia di piazza, alla guerriglia urbana, allo scontro frontale e aperto con gli odiati bolscevichi.
“Ehi, ecco un po’ di feccia comunista” cominciò uno. Da una parte la feccia comunista. Dall’altra la gente da fogna. Senza sfumature, senza nessuna voglia di distinguere, di capire. Quello che aveva parlato sembrava piuttosto male in arnese, notò Matteo. Il naso pareva gli fosse stato deformato da un pugno, aveva una cicatrice sul collo e un’altra sull’attaccatura della mano. Chissà perché lui aveva sempre avuto l’idea che le avanguardie della destra, quelle che si dedicavano anima e corpo all’azione e al reclutamento, fossero in prevalenza gente dell’alta società, quelli che pensavano di avere diritto a mantenere privilegi secolari che gli venivano non dalla fatica, ma dal diritto di casta. Quelli però sembravano quasi tutti gente da case popolari, a parte forse uno o due che stavano davanti agli altri e davano il passo alla combriccola.
Quali erano più pericolosi? Non avrebbe saputo dirlo.
“Un bel gruppetto di amici dei gialli e dei negri, quelli che odiano l’Europa e i bianchi e vogliono mettere tutto il mondo in mano al baffone russo e a un branco di selvaggi che fino a ieri non sapevano neanche cos’era un fucile”.
“Meno male che siete arrivati voi a insegnarglielo” – commentò Andrea, sarcastico.
“Shh. – sibilò Matteo tra i denti. – Devi proprio provocarli?”
Era spaventato, e non solo a causa dei fascisti. Lo sguardo di Andrea era improvvisamente cambiato, aveva preso un’espressione che gli aveva visto solo un paio di volte, ma gli erano bastate per capire che in quell’umore era pericoloso. Era uno dei più convinti sostenitori della non-violenza che avesse mai conosciuto, eppure non lo aveva mai visto scappare e sapeva ferire parecchio con le parole. Che cosa pensava di fare? Quelli erano già decisi a fare a botte in ogni caso, ma se li sfidava…
“Era ora. Avevo proprio voglia di divertirmi un po’ – ridacchiò uno dei ‘loro’.
“Sì, non c’è niente di meglio che dare una lezioncina a questa canea rossa – incalzò un altro. – Questi… – sputò per terra – questi pacifisti vigliacchi, gente che si metterebbe la bandiera sotto i piedi, gente senza onore e senza valori. Gente senza fegato che rifiuta il servizio militare. Si meritano solo che qualcuno violenti le loro donne, ammazzi i loro padri e l’esercito non muova un dito per difenderli, tanto se li facessero fuori tutti non perderemmo granché. Così imparerebbero a rispettare i nostri soldati”. Quello che aveva parlato adesso era un biondino smilzo dagli occhi chiari e dalla parlantina più sciolta degli altri, era di quelli che usavano parole come patria, eroi, soldati, per armare di spranghe chiunque fosse abbastanza furioso e abbastanza confuso da seguirli, nella speranza di trovare uno sfogo alla frustrazione.
No, non erano lì per caso. Matteo improvvisamente capì. Erano venuti a cercarli apposta. Cercavano proprio Andrea, sapevano chi era e cosa aveva fatto, anche se loro ovviamente il carcere militare non lo avevano mai neanche visto da fuori. Neanche lui del resto, ma lui non avrebbe mai potuto mettere in dubbio il coraggio che c’era voluto, ad Andrea, per entrarci. Anche se all’inizio gli aveva dato del matto e dello stupido, segretamente glielo aveva anche invidiato, quel coraggio. Di certo, qualunque cosa si potesse pensare di Andrea, non era un vigliacco. Avrebbe voluto, dovuto difenderlo da gente che non era degna neanche di allacciargli le scarpe. Eppure, ancora una volta, si sentiva miseramente inadeguato a reagire. Non era in grado di difendere se stesso, tanto meno qualcun altro.
“Tutti voi rossi siete solo dei gran vigliacchi – disse quello con le cicatrici. – Capaci solo di nascondervi dietro i cespugli e strisciare, ma quando c’è da combattere a viso aperto scappate, come i vostri vietcong, come il vostro Che Guevara, che ha fatto la fine che si meritava, quella che farete anche voi.”
“Voi sognate la vita eroica, lui quella vita l’ha vissuta. – La voce di Andrea era perfettamente tranquilla, anche se lo sguardo la smentiva. Matteo ebbe per un istante la netta percezione del significato del termine calma mortale. – E’ molto più facile essere gli Eletti per nascita, che inseguire la giustizia e meritarsi il rispetto degli uguali – proseguì l’amico, sempre con quel sorriso beffardo negli occhi. – E sicuramente è più comodo cercare gloria affrontando un gruppetto di ragazzi disarmati che un esercito. Non potete amarlo perché lui è stato tutto quello che voi in fondo vorreste essere, senza esserne capaci”.
Un attimo dopo Matteo si trovò nella mischia. Cioè nella mischia non rende esattamente l’idea, perché implica un dare e un ricevere. Lui riceveva soltanto. Per un attimo non capì più niente, avrebbe voluto tirare pugni e calci dove capitava, senza neanche curarsi se avrebbe colpito i suoi amici o gli altri, li confondeva tutti e li odiava tutti. Ma naturalmente non fece niente del genere. Sentì la voce di Andrea, e quella non avrebbe potuto confonderla.
“Te li tengo buoni io, cerca di sgusciar via.” – Un sussurro complice, poi lo vide rigettarsi nella zuffa. Non se lo fece dire due volte, naturalmente. Lui lì non c’entrava. Se lo ripeté spesso in quei giorni. E spesso si ripeté che era molto grato ad Andrea di essere venuto in suo aiuto. Ma una vocina subdola continuava a insinuare un’altra verità: non credeva davvero fino in fondo a nessuna delle due cose.

LUNEDI’ FILM – 20. Aladdin

Aladdin

Magia.
Magia pura.
Magia infinita.
Non c’è parola che esprima meglio di questa tutto quello che questo film racchiude in sé.
Man mano che ci si addentra nel mondo cinematografico di Robin Williams, non si può fare a meno di rendersi conto che l’aspetto visivo deve aver avuto un ruolo non indifferente nelle sue scelte. Anche i lavori più criticati o di minor successo spesso colpiscono per la bellezza o la particolarità delle immagini (pensate per esempio a Popeye, che del resto era di Altman, al Barone di Munchausen di Gilliam, a Toys di Levinson e, più di tutti, Al di là dei sogni di Vincent Ward). Penso che abbia a che fare con il mantenere in sé una parte bambina, perché il nostro sguardo sappia ancora lasciarsi incantare da ciò su cui si posa.
Aladdin è sicuramente una gioia per gli occhi e tanto, tanto altro. Le canzoni, fantastiche (Friend Like Me mi fa pensare che RW avrebbe potuto benissimo fare anche il cantante, per dire). Il cattivo Jafar e il suo irascibile pappagallo Iago. Una bella storia, ironia, cura dei dettagli. E poi… poi pensate a un personaggio nato quasi interamente da una delle menti più creative che siano esistite allo scopo principalmente di regalare stupore e meraviglia, un personaggio in cui finalmente, di nuovo, Robin Williams ha potuto riversare tutta la sua comicità più spregiudicata e immaginifica, senza doversi frenare (tanto poi, il materiale inutilizzato mica sarebbe mai stato buttato via… sarebbe servito semplicemente ad altro) e quindi al suo meglio.
Insomma, pensate al Genio. Il personaggio con cui forse è stato identificato più di tutti, da quel momento. Fin troppo. Al punto che oggi nemmeno io riesco a guardare la scena in cui il Genio esprime il desiderio di essere libero (“la libertà… è un mestieraccio, sai, quello del genio. Fenomenali poteri cosmici… e minuscolo spazio vitale… Ma oh, essere libero… essere padrone di me stesso. Questa sarebbe una cosa più preziosa di tutte le magie, di tutti i tesori di tutto il mondo”) senza ridere e piangere e commuovermi, anche per l’addio a RW (Genie, you are free), pur restando fermamente dell’idea che lui sia stato libero e padrone di sé stesso per quasi tutta se non tutta la sua vita.
Buon incanto, cari amici!

Magic.
Pure magic.
Endless magic.
There is no other word to better convey all that this movie enshrines.
As we explore the cinematographic world of Robin Williams, we cannot help realizing that the visual aspect must have had a far-from-negligible role in his choices. Even the most criticised or less successful works often stand out due to the beauty or peculiarity of the set design (think of Popeye, which was directed by Altman, in fact, of Gilliam’s Baron Munchhausen, or of Levinson’s Toys, and most of all, Vincent Ward’s What Dreams May Come). I think this may have something to do with keeping a child part inside, so that our sight can still take delight in everything it sets on.
Aladdin surely is a joy to behold and much, much more than that. The songs, amazing (Friends Like Me makes me think RW could have been a singer, say, had he just so decided). The wicked Jafar and his cranky parrot Iago. A nice plot, irony, care for details. And then… then just think of a character that was almost entirely born of one of the most creative minds that existed mainly for the purpose of bringing us wonder and amazement, a character into which Robin Williams was able again, at last, to pour all his most unbridled imaginative humour, without being forced to hold back (indeed, the unused material would not have been thrown away, that’s for sure… it would be just used for something else) and therefore at his best.
In short, think of the Genie, the character with whom, perhaps, he has been identified most, even too much maybe. To the point that now even I cannot watch the scene in which the Genie expresses his wish to be free (“Freedom… it’s part of the whole genie gig. Phenomenal cosmic powers… itty-bitty living space… But oh, to be free… to be my own master. Such a thing would be greater than all the magic and all the treasures in all the world”) without laughing and crying and feeling moved, also because of the goodbye to RW (Genie, you are free), although I remain firmly convinced that he was free and his own master during all, or almost all of his life.
Let you be charmed, my dear friends!

La lettrice della domenica – Timbuctu e Eccessi di culture

Inizio questa prima puntata della rubrica “La lettrice della domenica” con due libri che ho letto (e recensito su Anobii) diversi anni fa, entrambi secondo me ancora molto attuali, anche se può essere triste pensare a come certi viaggi diventino nel tempo sempre più difficili se non impossibili. Aime è un viaggiatore, prima ancora che un insegnante, e questo secondo me si sente molto in come scrive (molto bene, tra l’altro, trovo) e in come parla alle conferenze, facendo sempre molto riferimento a cose viste e toccate con mano. Le recensioni sono quelle scritte a suo tempo, senza modifiche, intendo in effetti approfittare in parte della rubrica per ripercorrere la mia “storia di lettrice”, anche se non mancheranno le recensioni di libri letti più di recente o addirittura che sto leggendo in questo momento. Alla prossima!

Timbuctu, Marco Aime, Bollati Boringhieri, 2008

Dalla quarta di copertina: “Vista di qua, da questa piazza sabbiosa che confonde l’immensità del Sahara con la più antica moschea d’Africa, la sabbia anarchica delle dune con la terra impastata e lavorata dagli uomini, anche l’Europa appare diversa“.
Timbuctu è una leggenda. Come spesso accade con le leggende, il contatto con la realtà può lasciare un senso di delusione profonda. Eppure basterebbe guardare con altri occhi, lasciare il tempo alla realtà di incantarti a sua volta, di entrarti nel cuore…

Eccessi di culture, Marco Aime, Einaudi, 2004  

08

A me questo libro è piaciuto tanto. Magari non sono del tutto imparziale, perché ho avuto la fortuna di presentarlo e di conoscere l’autore… comunque io l’ho trovato utile per vedere l’idea dell’accoglienza da un punto diverso dal solito, non solo come valorizzazione delle differenze ma anche come ricerca di quello che unisce, in più ironico e spiritoso. Quando l’ho letto, sommersa dai proclami sulla “nostra identità” è stata come una boccata d’ossigeno. Le identità non sono pietre. Almeno, non dovrebbero esserlo. E forse questo libro aiuta a ritrasformare la pietra in una cosa viva, mutevole e non “ingabbiante”.

Quel Natale in cui si ruppero la lavatrice e la pompa dell’acqua…

Credo che il Natale di quest’anno sarà ricordato così in casa nostra. Sapete quegli episodi che dopo un po’ creano una specie di mito fondativo familiare, una diga temporale, uno spartiacque tra il prima e il dopo.

No, forse no. Però forse tra un mese saremo comunque in grado di riderci sopra. Sono quelle scene che in un film ci farebbero sganasciare. Quando le vivi però… ma poi dai, quando passa un po’ di tempo, puoi farcela.

Dunque, 16 o 17 dicembre, terzo bucato della giornata, vado per prendere la roba da stendere pensando che la lavatrice abbia finito. Strano però. come mai tutta quell’acqua ancora da scaricare? Forse qualcuno deve aver messo la macchina in pausa magari per accendere qualche altro elettrodomestico (perché sapete che adesso i contatori sono molto sensibili, se avete il ferro da stiro o il forno e la lavatrice accesi insieme se la prendono, ci rimangono male, si impermalosiscono ed entrano in sciopero lasciandovi al buio totale).

E invece no. Schiacciando l’interruttore di accensione non accade niente. Tutto fermo, nessuna lucina, nessun segno di vita. Forse l’interruttore si è guastato, pensiamo speranzosi. Ma non è così. Il tecnico chiamato arriva con encomiabile velocità ma ci fa un preventivo poco encomiabile e molto stellare. Ci spiega che si è rotta la scheda però secondo lui vale comunque la pena di tenere la lavatrice che è ancora in ottime condizioni e bla e bla e bla ci facciamo convincere. Peccato che la scheda nuova arriverà l’11 di gennaio.

7

Passato il primo momento di disperazione, cerchiamo di organizzarci. Qualcosa dalla mamma, qualcosa in lavanderia, ma diversi panni bisogna lavarseli in casa, old-style. Con annesso sgocciolio, perché quello che si lava a mano sgocciola. Sempre. E poi sarebbe ancora niente, ma segue una settimana di pioggia quasi ininterrotta, impossibile stendere fuori (l’unica  volta che i temerari ci hanno provato è venuto giù uno scroscio da paura) e con l’umido la maggior parte della roba prende un odorino tipo cantina sotterranea tenuta chiusa per una decina d’anni.

Ok, possiamo ancora farcela. Aspettavamo i miei per il 24 sera. Certo, avremo qualche problemino ma dài, vabbè, si fa, mica ci formalizziamo.

Il 23 pomeriggio, allora, ci si ferma la pompa che porta l’acqua in cucina (perché l’abbiamo spostata da dove era in origine e non essendoci la pendenza abbiamo dovuto risolvere con questo sistema). Mezza casa allagata, impossibile usare il lavandino della cucina. in qualche modo ne usciamo vivi, asciughiamo i pavimenti, riusciamo comunque a cucinare in qualche modo (Babbo Natale solo sa come), però all’idea di lavare i piatti in bagno per 15 persone, ci arrendiamo.

1246b

Dovremo andare a casa di mia mamma, finendo di cucinare da lei, e meno male che la maggior parte dei piatti eravamo riusciti comunque a prepararli e comunque non siamo tipi da venti portate. Un po’ di antipasti, un po’ di dolci e vai così.

chefdonald

Alla fine è stata una bellissima serata comunque. E sempre di più mi convinco che siamo veramente pieni di risorse, magari le difficoltà ci destabilizzano temporaneamente, ma siamo più forti noi! 😀

20140917_lupooo3

UN LEONE A COLAZIONE – Intorno all’adozione / ADOPTION IS NOT JUST AN OPTION

pc5rrebni

C’erano una volta un re e una regina che non riuscivano ad avere figli…

Ci avete fatto caso a quante storie iniziano in questo modo? Spesso, poi, entra in gioco qualche vecchia strega o fata che aiuta i due disperati, e allora proseguiamo così.

Passarono gli anni e il re e la regina erano sempre più tristi perché questo bambino non si decideva ad arrivare. Un giorno la regina ebbe un’idea: andare a consultare una vecchia signora molto saggia che abitava ai margini del bosco. Il re fu d’accordo, ma tutti e due pensavano che l’anziana nonnina avrebbe dato loro qualche filtro magico, qualche bevanda miracolosa, un misterioso elisir di erbe fatate che avrebbe infine fatto in modo che l’erede tanto atteso nascesse.

Ma invece la vecchietta li stupì e un po’ li deluse, anche.

“Purtroppo io non ho erbe e filtri e incantesimi che possano realizzare velocemente il vostro desiderio. Esiste una strada, ma è molto lunga e faticosa, questo devo dirvelo. E prima di tutto devo farvi una domanda molto importante, ma non rispondetemi subito, pensateci bene. Perché volete un bambino e quanto impegno siete disposti a mettere per averlo”?

Il re e la regina rimasero sconcertati, che domanda era quella? Volevano un bambino, punto a basta, e avrebbero fatto qualunque cosa per averlo. Però ascoltarono il consiglio della vecchia signora e per il momento si accomiatarono da lei, promettendo di pensarci su e di tornare quando si sentivano pronti a rispondere…

Primo mercoledì della rubrica UN LEONE A COLAZIONE, dedicata non solo alla nostra storia di genitori adottati/adottivi, ma all’adozione in genere. Perché “Un leone a colazione”? Prima di tutto, l’ho detto, perché fa rima con adozione. Poi perché rende un po’ l’idea di qualcosa di inaspettato, sorprendente, che può persino fare un po’ paura. E l’adozione a volte è così, garantito al limone 😀

Qui vi metto anche il link a un bel blog (in inglese) di una mamma adottiva che cerca tra l’altro di sfatare alcuni luoghi comuni relativi all’adozione: Wonderment

Qui sotto invece un paio di immagini di una bella storia in cui l’adozione c’entra moltissimo 🙂

/

Once upon a time there were a king and a queen who couldn’t have children…

Have you ever noticed how many tales begin this way? Then, an old witch or fairy often comes into play to help the despairing couple, so let’s go on like this:

Many years went by, and the king and his queen were ever so sad, because it seemed this kid was not meant to be. One day, the queen had an idea: they would consult with the very wise old lady who lived on the edge of the forest. The king agreed on this, but they both thought the aged granny would give them some magic potion, miraculous drink or witchcraft herbal elixir that would at last ensure the birth of the long-waited-for heir.

The little old woman surprised them though, and disappointed them a little bit too.

“Unfortunately, I’ve got no herbs and potions and enchantments capable of quickly fulfilling your wish. There is a way, but it’s very long and tiresome, you’ve got to know this. And first of all, I’ve got a very important question to ask you, but don’t answer me now, think it over. Why do you want a child and how far are you willing to go to have one”?

The king and the queen were baffled. What kind of question was this? They wanted a child, that was it, and they would do anything to have one. However, they listened to the old lady’s advice and bid farewell to her for the moment, with the promise that they would come back when they were ready to answer…

This is the first Wednesday of the column ADOPTION IS NOT JUST AN OPTION, about our story of adopted/adoptive parents and about adoption in general.

Here is a link to a nice blog of an adoptive mum, which tries, among other things, to debunk some common myths about adoption: Wonderment

The shots below are taken from a beautiful story, and adoption has a lot to do with it 🙂

p1030588898èhqdefault

Le novità del blog

Vi racconto cosa ho elucubrato in questi giorni di riordino (?) di idee, le novità che il blog vivrà già da questa settimana (anzi, ha già iniziato in effetti).

Dicono che ci vuole proprio qualche rubrica fissa, e allora proviamoci, dài, volere è potere e anche un po’ volare. Quindi ho pensato questo: il lunedì resta il giorno della recensione dedicata a Robin Williams: cinema, spettacoli ecc. Se mi viene in mente un titolo più originale di lunedì film ve lo dico… (si accettano suggerimenti); il martedì e il venerdì posterò il mio romanzo a puntate Il Bosco; il mercoledì vi parlerò di adozione. Ho pensato di intitolare la categoria Un leone a colazione, non perché abbia attinenza ma solo per la rima, ditemi se vi piace. Il sabato infine potrei dedicarlo ai blog che seguo, parlando di tutti, un po’ alla volta, per esempio raccontando perché mi piacciono e ribloggando qualche post ecc.

Come vi dicevo, non posso fare una rubrica fissa per poesie e racconti perché sono necessariamente (per me) caratterizzati da una certa imprevedibilità, scelgono loro il momento di venir fuori.

Quanto ai libri, potrei mantenere una buona, ariosa irregolarità nelle citazioni, che dipendono molto da quando e cosa leggo, e aggiungere poi una rubrica tipo “La lettrice della domenica” per le recensioni.

Resta il giovedì, ma qualcosa inventerò. tra l’altro ci sono sempre miti e fiabe a cui pensare. Basta che non diventi troppo ordinato, che senza un po’ di bizzarria la vita manca di sale e probabilmente anche i blog 😀

 

Il Bosco – Parte II Capitolo 2 – continua

immagine_bosco

Trovate qui tutte le precedenti “puntate” del romanzo. D’ora in poi posterò le varie puntate il  martedì e il venerdì.

Viviana non aveva mai dato troppa importanza all’apparenza delle persone, non notava certo i vestiti e le acconciature con l’ostinata pignoleria di alcune delle sue amiche. Naturalmente si era accorta che quei ragazzi che Elisa aveva appena conosciuto avevano i capelli un po’ più lunghi dei suoi compagni di classe, e questo, senza sapere perché, le aveva procurato una punta di irritazione. Ma coi mesi i loro capelli erano ancora cresciuti, e non era più possibile ignorare gli allarmi lanciati dai giornali contro quei ribelli zazzeruti che andavano in giro spaccando vetrine, si inebetivano con quella musica straniera dal ritmo indiavolato che chiamavano beat, o con le insulse canzonette yè-yè e non erano più in grado di pensare, rifiutavano la famiglia, la società, il lavoro e si mettevano a fare gli hippy. C’erano di mezzo anche delle droghe, aveva letto.
Proibire la infastidiva, e qualcosa in quei ragazzi le piaceva, ma non sapeva come comportarsi.
Quel giorno era successo qualcosa – o meglio era successo il giorno prima, ma lei lo aveva saputo solo quella mattina – che l’aveva spaventata ancora di più. Quali sarebbero state le loro reazioni? Che cosa sarebbe accaduto adesso?
Era il pomeriggio del 10 ottobre. Elisa stava uscendo con la sua compagnia – ormai era un’abitudine consolidata, anche se quella non era una giornata come le altre. La fermò, incurante delle sue occhiate all’orologio e della sua evidente ansia di scappare.
“Senti ma questi ragazzi… Spiegami un po’ di che cosa parlate e perché non possono vestirsi e pettinarsi come le persone civili”.
“Cioè?” domando Elisa, sbalordita. Lei proprio non aveva mai fatto caso che il loro aspetto avesse qualcosa di insolito.
“Cioè perché devono andare in giro con quei capelli ridicoli, lunghi fino al collo, e perché devono andare all’università e a scuola coi jeans e le ragazze addirittura con le gonne sopra al ginocchio. Non mi sembra affatto un abbigliamento adeguato”.
Elisa la guardò con tanto d’occhi. Ma da quando sua madre era così snob, da quando proprio lei, di tutte le persone, era diventata così conformista?
“Non saprei… io… non gliel’ho mai chiesto – quasi balbettava per lo stupore. – ma è così importante?”
“Non voglio che tu ti metta con quella strana gente che vive ai margini, chissà come… io…”
“Ai margini? Mamma, non sono hippy, anche se tante idee degli hippy non sono affatto sbagliate, come la non-violenza, la voglia di pace o la paura di questo eccesso di consumismo. Ma voglio dire, insomma, vanno tutti a scuola, all’università, mica sono degli spostati. Che cosa ti prende?”
Viviana si aggrappò a quell’accenno agli hippy, per dare una forma e un nome ai suoi timori.
“Credo che siate terribilmente confusi. Ascoltate le canzoni americane e quando parlate infarcite i vostri discorsi di parole americane ma poi gridate ‘no America’ e ‘l’impero è finito’ e cose del genere. L’America la odiate o l’amate? Io ho paura che se date ragione agli hippy su certe cose poi finirete per diventare come loro.”
Elisa represse la tentazione di ridere, ci pensò su un momento.
“Sì, credo che davvero siamo confusi. Ma penso che sia un bene, sai. L’America è grande, è fatta di tante cose. L’America è Bob Marley e Kennedy e Martin Luther King e Che Guevara, però è fatta anche della gente che manda dei ragazzi a morire in Vietnam. L’America è libera o vorrebbe esserlo, e riconosce il diritto di cercare la felicità, ma per la libertà degli Americani di essere come vogliono loro fanno anche le guerre e tolgono la libertà agli altri. Come si concilia l’idea di uguaglianza con il modo in cui trattano gli indiani e le persone di colore? Siamo confusi perché questo è un mondo confuso. Noi prendiamo quello che ci piace e contestiamo quello che non ci piace. Vogliamo che il mondo sia diverso da com’è adesso, però non abbiamo un’idea precisa di come vogliamo che diventi. Così ognuno può dire la sua, costruire un pezzo della tela. Alla fine magari verrà una cosa strana, una specie di patchwork, ma così sarà anche più colorato e più allegro, non credi?”
Colorato, allegro. Era questo che loro credevano, ma i colori e l’allegria stavano già cominciando a scomparire anche dai loro orizzonti. Era già successo, appena quattro anni prima, quando la ventata di speranza dell’America kennediana era stata spazzata via a Dallas, con tre colpi di pistola. Viviana aveva a malapena sentito parlare di Che Guevara, ma aveva in qualche modo intuito che incarnava il simbolo dei loro sogni, proprio come era accaduto, per la sua generazione, con John Kennedy.
“Ernesto Che Guevara è morto” disse, e non seppe mai perché le parole le fossero uscite così, proprio in quel momento e con quel tono freddo, neutro, che non rispecchiava affatto il suo stato d’animo. Aveva sentito la notizia alla radio quella mattina, un comunicato glaciale. Il guerrigliero Ernesto Guevara, soprannominato il Che, era stato ucciso in un’imboscata in Bolivia. Non l’aveva lasciata indifferente, perché Guevara era una figura con cui si doveva fare i conti in qualche modo, fosse pure per detestarlo e magari per ucciderlo.
Che Guevara è morto. Che Guevara è morto. Quelle parole risuonarono come un’eco infinita nella mente di Elisa, prima che si rendesse conto di quello che significavano. E del resto avrebbe riudito il suono di quelle parole ancora molte volte nei giorni a venire. Con rabbia, con dolore, con scherno o soddisfazione, mai con indifferenza. Ma neanche sua madre era indifferente, questo lo capì da subito, forse proprio dal modo in cui lo aveva detto, dalla stessa inespressività della sua voce.
Ecco cos’era, pensò, e con sgomento si accorse che nel dolore si insinuava un inopinato brivido di trionfo, che le fece scoprire qualcosa di se stessa, qualcosa di non interamente gradevole. Scoprì che le dava una specie di piacere vedere che per una volta, poteva succedere anche a sua madre di non avere una decisione pronta per tutto, di non saper bene che pesci pigliare.
“Che Guevara è morto – ripeté, inebetita da tutte quelle emozioni che le erano rovinate addosso, e dalla stessa lucidità con cui per un momento si era guardata dentro. – Che Guevara è morto. – Ancora una volta. Ripetere per esorcizzare, non per convincersi. Scosse la testa. – Che Guevara non morirà mai”.
La lasciò così, non convinta ma incapace di trovare altre parole per fermarla.
“Che Guevara è morto” fu la prima cosa che disse, appena vide Monica, Andrea, Matteo e Filippo che l’aspettavano davanti al Balilla, da sempre il loro caffè-gelateria d’elezione.
“Sì” fu la laconica risposta di Filippo.
“Assassinato come un cane”, aggiunse Andrea, che aveva la faccia di chi ha perso un amico.
“Ma dicono che è morto combattendo, in un’imboscata”.
Andrea scosse la testa.
“Le ultime notizie sono diverse. L’hanno catturato e poi gli hanno sparato. Solo col tradimento avrebbero potuto ucciderlo, il tradimento e la vergogna dell’assassinio di un prigioniero disarmato”.
“Ma non ho mai capito – obiettò Matteo – perché tu, un sostenitore della non-violenza, avessi tanta passione per un guerrigliero, uno che sapeva essere anche molto spietato e non perdonava certo ai suoi nemici”.
“Non sono i suoi metodi a renderlo così amato, ma i suoi ideali. Puoi non approvare il modo in cui lo faceva, ma non puoi non ammirare la sua lotta alle ingiustizie. Ha messo la sua vita in gioco per gli altri, altri di cui in fondo avrebbe anche potuto non importargli niente. Chi erano per lui? Ma invece gli importava, gli importava di tutti come se davvero tutti fossero suoi fratelli, come se davvero per ogni uomo trattato ingiustamente una parte della sua stessa dignità andasse perduta. Come se in ogni essere umano fosse capace di vedere un pezzo di sé, e più di tutti nei deboli, in quelli che erano stati sottomessi per secoli a ogni forma di potere, politico o economico che fosse. Poi nei miti uno ci legge quello che vuole. Ti diranno anche che era un violento, un bandito, un assassino, e magari è anche una parte della verità. Ma io preferisco quella parte di verità in cui posso rispecchiarmi”.
Ognuno aveva un suo Ernesto, un suo Che, un suo Guevara, che li divideva e li univa, perché per tutti era un mito ma per ognuno un mito diverso.
Così una settimana dopo si ritrovarono tutti, temporaneamente uniti e solidali, alle manifestazioni che anche a Genova avevano voluto ricordare il Che. Fu la prima manifestazione a cui Elisa avesse mai partecipato.

Diversi giorni dopo, tra mille altre cose e discorsi, Elisa trovò anche il modo di chiederlo davvero ad Andrea, perché si pettinavano e si vestivano così. Ma la sua risposta le fece sentire una tale vicinanza con loro e una tale lontananza da sua madre, che certo se lei lo avesse saputo non avrebbe mai sollevato l’argomento.
“Ho cominciato un po’ per caso, perché avevo visto dei ragazzi coi capelli sul collo e mi piaceva – spiegò con semplicità. Poi sorrise. – Un po’ anche per far dispetto a mia madre che mi diceva sempre ‘quand’è che vai dal parrucchiere’ appena superavano il centimetro di lunghezza. Non è che avessi pensato a niente di politico, però quando ho visto come alcuni mi guardavano mi ha dato parecchio fastidio. E’ una società libera, ci dicono, però poi ti giudicano da come ti vesti e dai capelli. Fanno le retate contro gli sporchi zazzeruti di Piazza Tommaseo e la gente applaude, perché quello che conta è essere ordinati e bene integrati. E condannano persino Don Milani, da morto, perché aveva difeso i ragazzi che non accettano il servizio militare perché non vogliono imparare a fare i soldati. Ma uccidere non è peccato? O quando uccidi milioni di persone diventa meno grave? Già è una fatica costante combattere coi condizionamenti di chi ti dice che cosa devi desiderare e di cosa hai bisogno e ti fa lavorare per comprarti cose che non avevi mai saputo di volere. La verità è che tutto è politico, tutto quello che fai, che tu lo voglia o no, e persino quando non te ne accorgi. E se porti i capelli così significa che sei contro la guerra in Vietnam e tutte le altre guerre, contro le dittature, i colonialismi, il perbenismo e la polizia che spara sulla folla. E poi il Che… Insomma, è stato quasi senza accorgermene, ma li ho lasciati crescere un po’ di più e poi ancora un po’ di più, e così adesso sono un capellone…” Sorrise di nuovo, si toccò la testa con il gesto giocoso di un seduttore per scherzo.
Elisa fu costretta a trovare qualcosa da poter guardare, per non restare lì a fissarlo come un’ebete. E non trovò niente di meglio che alzare gli occhi a guardare la strada di San Vincenzo che dolcemente s’incollinava nell’ultimo tratto, tra le sue case-presepe e i negozi che sfavillavano.

Era quasi Natale. Gocce di luce, una pioggia dorata e intermittente precipitava dai tetti dei palazzi, dalle statue e dalle fontane in allegra confusione, insieme ai fiori d’oro, agli alberi di Natale d’oro, tutto un mondo ai confini in cui l’oro segnava, come nelle antiche leggende, il limite oltre il quale la notte finisce, il paese dove il sole non tramonta mai, un’isola Eea gentile, senza la crudeltà degli antichi riti del Sole.
E sarebbe stato quel mondo ai confini che Elisa, anche se ancora non lo sapeva, avrebbe continuato a conservare negli anni, riflesso nello sguardo color cobalto di un ragazzo scarruffato, sfrontato e innocente.