IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VII – III

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III

Forse era proprio perché tutto era stato così perfetto, che Elisa, una volta fuori dall’incantesimo dello sguardo e del sorriso di Andrea, cominciò a domandarsi se quella perfezione avrebbe mai potuto durare, se non stava mettendo tutto a rischio per qualcosa che poi chissà come sarebbe andato. Non che avesse propriamente dei dubbi su quello che provava per lui, questo no. Il suo amore per lui era l’unica salda certezza in quella cosa confusa che la sua vita stava diventando, però… Però non aveva più l’età dei “per sempre”. Non aveva più quell’assoluta sicurezza dell’eternità, dell’infinito.
Mentre ripercorreva all’indietro la stessa strada che aveva fatto qualche ora prima, non faceva che chiedersi se non sarebbe stato meglio lasciare tutto com’era, tenersi dentro il ricordo di quel giorno come qualcosa di irripetibile, non vedere più Andrea, e lasciare che quella perfezione rimanesse intatta, senza essere scalfita dai rubinetti che perdono, da un disaccordo su un particolare di importanza secondaria, da una sera storta o da qualcosa detto a voce troppo alta.
Il sole non si vedeva già più, anche se c’era luce, ancora, una luce smorta, un azzurro scolorito. Aveva lasciato Andrea solo da pochi minuti e già le mancava da toglierle il respiro, eppure non era difficile, in quell’aria sbiadita, pensare di poterne anche fare a meno, che bastasse il ricordo, che non le sarebbe tornata la voglia di essere ancora felice, o che quella voglia sarebbe stata addomesticabile, e comunque le sarebbe bastato, per rivivere la felicità, anche solo ricordare.

Luca sembrava particolarmente affettuoso, quella sera, volle essere salutato con il bacino e l’abbraccio e tutti i crismi, una cosa che rifiutava le volte in cui voleva sentirsi “grande”.
Roby le raccontò, indignato, che gli era stato dato un brutto voto di italiano perché aveva fatto delle domande che al professore non erano piaciute.
– Cosa gli hai chiesto?
– Ma niente, delle cose su una poesia che ci ha fatto leggere, a me non piaceva e gliel’ho detto, cercavo di capire che cosa c’era di tanto interessante, e continuavo a fargli domande, allora lui si è arrabbiato e mi ha messo un due. Tanto lo so che poi se vado bene nel tema me lo toglie. – Si strinse nelle spalle. Era proprio da lui, voleva andare sempre a fondo delle cose, ma gli insegnanti dicevano che era un po’ saccente, forse perché i suoi dodici anni non gli avevano ancora insegnato il confine della strafottenza. Sua madre lo chiamava un “bastian contrario”, perché non se ne stava mai di quello che gli si diceva.
Elisa guardò i suoi due ragazzi, il ribelle, generoso, estroverso Roby e il suo tenero, dolce Luca, che a volte sembrava perdersi in strani pensieri, e i cui lunghi silenzi erano interrotti da idee inaspettate. Una volta, da piccolo, dopo aver tirato sassi in mare per un po’, se ne era uscito con una domanda del tipo: “ma se colpisco un pesce sulla testa, gli fa male?”
Da quel momento, le sue rare domande erano diventate la leggenda della famiglia. Buffe, curiose, ma in qualche modo riflettevano una sua visione della realtà che sembrava non partire mai dal punto di vista più comune.
Quella volta le aveva anche chiesto se i pesci si innamorano, adesso che le veniva in mente. Doveva aver dato una di quelle risposte vaghe e un po’ sciocche che gli adulti danno quando una domanda li spiazza, qualcosa come “probabilmente sì, visto che fanno i figli”, e allora Roby, quello che voleva capire bene, le aveva chiesto che cosa voleva dire innamorarsi, come si faceva a capirlo, e se era vero che per fare dei figli bisognava amarsi per forza, e se l’amore durava per sempre, e un sacco di altre domande a cui non aveva certo risposto in modo né esaustivo né convincente.
Adesso il suo senso di colpa le faceva vedere negli occhi di Roby e di Luca uno sguardo di rimprovero che probabilmente era del tutto immaginario. Come avrebbero reagito se improvvisamente li avesse messi di fronte a una verità a cui non era stata capace di prepararli? Andrea la faceva stare bene, ma avrebbe fatto stare bene anche loro? Aveva diritto di stare bene, o avrebbe significato non prendersi la responsabilità legata alla famiglia? Perché se un giorno aveva scelto male, o comunque se le cose non erano andate come aveva sperato, restava il fatto che le sue decisioni avevano coinvolto altri, e soprattutto i suoi due bambini, che aveva il dovere di proteggere. Ma proteggerli… da che cosa? le avrebbe chiesto Roby. La paura che aveva per loro forse non era che il riflesso della paura che aveva per se stessa, per quella cosa travolgente a cui era lei, prima di tutto, a non essere preparata. Non avrebbe potuto proteggerli dal dolore per sempre. Se avesse rinunciato, rassegnandosi a trascinare quel rapporto stanco e senza amore, forse avrebbero imparato a fuggire dalle emozioni troppo intense e troppo pericolose. Era questo che voleva per loro? Era questo, proteggerli dalla sofferenza?
Sentiva ancora la passione con cui Andrea l’aveva esplorata, il modo in cui era andato alla scoperta del suo corpo, con dolcezza e prepotenza, senza lasciarle altra scelta che abbandonarsi nel modo più totale, senza prepararla a quello che sarebbe venuto dopo, a quell’infinita voglia che aveva di lui, che sembrava non lasciare spazio quasi a niente altro. Non poteva lasciare che lui entrasse nella sua vita in quel modo. Avrebbe avuto sempre più bisogno di lui, ogni giorno un po’ di più, fino a che, prima che lei se ne accorgesse, lui avrebbe cancellato tutto il resto, la passione avrebbe divorato tutto quello che aveva avuto importanza per lei fino a quel momento, l’avrebbe portata a tradire la sua famiglia, il suo lavoro, i suoi ideali, le sue certezze.
Sì, questo era la passione, diceva una voce dentro di lei, e credeva che fosse la voce della ragione. Qualcosa che ti acceca, un fuoco che brucia tutto intorno a sé, e una volta spenta la fiamma, non ti resterà niente. Era la voce delle persone sagge, quelle che non si lasciano mai trascinare da un’emozione troppo forte, quelle che non vogliono lasciarsi ferire, che non vogliono mettere il caos nella loro vita, che non vogliono sorprese né rischi. Elisa scambiò quella voce per la voce della ragione, e confuse la forza, l’intensità, il calore di quello che aveva vissuto con il mostro divoratore della sua fantasia.
Per questo telefonò ad Andrea, per dirgli che era meglio non vedersi più, per spegnere quel fuoco prima che fosse troppo tardi.
Quando sentì la sua voce esitò, la sua voce così calda e viva, con cui dolcemente la prendeva in giro, con cui aveva gridato il suo nome, solo ieri, e adesso stava pensando di non sentirla mai più. Ma “mai” è un concetto sfuggente, e Elisa aveva pensato solo che avrebbe preferito non vederlo “per qualche tempo”.
Non voleva pensare a quello che avrebbe significato per lui, dopo tutto il tempo in cui le era stato vicino in silenzio e l’aveva amata senza che lei potesse dargli in cambio niente. Aveva rifiutato allora di vedere quello che significavano i suoi sguardi e i suoi gesti, aveva rifiutato di capire quello che non voleva capire, di vedere quello che non voleva vedere, e adesso stava facendo la stessa cosa. Non perché non le importasse, al contrario, perché non voleva che quella decisione, che era convinta di prendere per amore dei figli, vacillasse sotto il peso del suo dolore, quando avrebbe dato giorni di vita per non vederlo soffrire.

44. One Hour Photo

Come accennavo le volte scorse, il 2002 è un ottimo anno per Robin, professionalmente parlando, tre ruoli, tutti da protagonista, e uno spettacolo che personalmente adoro (come tutti quelli in cui recita in teatro e tutte le sue cose “dal vivo” in generale). Tuttavia, non è un buon momento della sua vita personale.
I tre film sono tutti considerevolmente inquietanti. Death to Smoochy è, credo di poter dire senza tema di smentite, il meno bello, ma il personaggio del conduttore di programmi per bambini avido, ossessivo e un po’ paranoico non è meno sinistro degli altri. Insomnia secondo me rasenta il capolavoro. One Hour Photo forse no, ma ha ricevuto ottime critiche e una discreta accoglienza di pubblico, nonostante fosse evidentemente rivolto – come gli altri due del resto – a un target del tutto diverso rispetto al pubblico che abitualmente seguiva Robin anche nei suoi più arditi cambi di rotta.
Qui confesserò che non sono andata a vedere né InsomniaOne Hour Photo al momento dell’uscita (Death to Smoochy è passato talmente in sordina che non sapevo esistesse, e quando l’ho scoperto, non ero neanche certa fosse mai uscita una versione italiana, che invece in realtà c’è). Di entrambi avevo sentito parlare molto bene, e mi ripromettevo comunque di guardarli, ma ho rinviato per molto tempo. Dopo la sua morte credevo non ci sarei più riuscita eppure al tempo stesso sapevo che lo avrei fatto, anche prima di cimentarmi con quest’opera ciclopica che è il commento a tutto il suo lavoro, cinematografico, teatrale e televisivo.
In One Hour Photo, dunque (regia di Mark Romanek), Robin interpreta Sy Parrish, tecnico addetto allo sviluppo di foto in un negozio di stampa rapida. Un semplice impiegato, mite, simpatico, timido e poco appariscente ma dalla vita apparentemente normale, pur se un po’ solitaria. E come osservava Ebert, sembrava nato dietro il banco di un negozio. Proprio come sembrava un bambino nel corpo di un uomo in Jack, uno psicanalista in Will Hunting, un DJ in Good Morning Vietnam, un professore in Dead Poets Society e persino una donna in Mrs. Doubtfire. In altre parole, sembrava nato per fare qualunque cosa facesse. In One Hour Photo c’è una battuta a un certo punto, che il personaggio pronuncia e che suona pressappoco come “La gente crede che l’arte di stampare belle foto in un’ora possa essere padroneggiata da qualunque idiota, solo seguendo un seminario di un paio di giorni e mezzo”. In effetti lui si era preparato per il film appunto frequentando un laboratorio di fotografia per due giorni e mezzo.
Forse era questo che Henry Winkler intendeva quando diceva che Robin interpretava tutti i suoi ruoli con grande empatia. Lui “era”, tutti quei personaggi. Diventavano, anzi, persone, con un’esistenza propria, un proprio modo di pensare. Che non era il suo, eppure lui prestava loro, ogni volta, piccoli frammenti di sé.
C’è, dunque, questo Robin Williams capace di dar vita e anima a uomini solitari, tetri, problematici, non era la prima volta ed era ciò che tanto stupiva Ebert, tra gli altri, ogni volta che recensiva un film nel quale usciva fuori questo aspetto – magari accanto ad altri più solari. Ma non è questo il caso. Si dice che quando il film venne rappresentato per la prima volta al Sundance Film Festival, Robin sentì casualmente qualcuno del pubblico osservare che per i primi quindici minuti, non si era reso conto di chi fosse l’attore che impersonava Sy, e che questo lo rese particolarmente orgoglioso. Certo qui di quel lato solare, luminoso, di quella scintilla che così spesso gli accendeva lo sguardo, diffondendo sorrisi senza nessuno sforzo e, come aveva detto Julia Roberts una volta, facendo sentire chi lo circondava come se ci fosse più ossigeno nella stanza, non c’è proprio nulla. Solo quello spazio tra Sy e la vita, così ben rappresentato dalla distanza quasi innaturale che separa il banco delle foto dal resto del grande magazzino in cui è situato, e dalle luci gelide che segnano la sua solitudine e quella casa a cui rientra malvolentieri ogni sera.
Sy, si capisce quasi subito, non ha in realtà una vita sociale o affettiva, e ha sviluppato un attaccamento morboso per certi clienti in particolare, una famiglia che lui crede completamente felice, senza sbavature, e con cui sogna di fare amicizia, senza riuscirci. Nina, Will e il figlio Jake. Solo Jake riesce a leggere dentro la tristezza del suo sguardo. La sua vita è il lavoro, del quale ha un orgoglio fuori misura e fuori luogo (le scene della camera oscura a me sono piaciute moltissimo, tra l’altro). E quando viene licenziato, e quasi contemporaneamente scopre che Will tradisce Nina, sia la sua vita “reale”, sia quella immaginaria vanno in pezzi e la sua mente pure…

Temporali, coriandoli e altro

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Foto presa da qui

Ti stavo scrivendo una cosina allegra e tenera, poi sono arrivati i temporali e il vento e hanno un po’ scombussolato le cose. Niente case distrutte o tetti scoperchiati, solo un po’ d’acqua nei capelli, e che vuoi che sia, fa bene alle foglie e forse anche alla tristezza. Del resto mi sa che tra un po’ pioverà di nuovo, io ho steso i panni, dovrò ritirarli di corsa, ma almeno nel frattempo avranno preso un po’ di sole e d’aria e penso che anche l’allegria e la tenerezza potranno far di nuovo capolino.

Gli  uccelli del giardino ieri tacevano ma già oggi, persino qui in città, tra i rami dei due alberi che abbiamo davanti a casa, hanno ripreso a zigare… no aspetta, quelli sono i conigli, però questi anche fanno zi-zi. Che verso è? Forse si dice che trillano, o chioccolano, come i fringuelli, i canarini o i pettirossi (sono andata a cercarmeli, i nomi dei versi), ma non mi convincono, non mi sembrano suoni abbastanza onomatopeici. Insomma, comunque cantano, chiacchiericciano, rumoreggiano, spettegolano. Nonostante questo cielo così nero che però in questo momento sembra aprirsi, a tratti.

Ieri mentre pioveva ho iniziato a rivedere e raccontare il film di oggi, bello tosto anche questo, c’è stato un momento che devi aver deciso di dare sfogo tutto in una volta a quel famoso lato “oscuro” su cui tanti giornalisti si sono deliziati a soffermarsi in seguito alla tua morte, scoprendo improvvisamente – oh, gawrsh! – che neanche tu ridevi sempre, che avevi le tue giornate nere (really?) e che, udite udite, eri persino arrabbiato, qualche volta. E questo in certe occasioni si vedeva. Ma perché avrebbe dovuto essere strano? Direi semmai il contrario: se la tua vita fosse stata un continuo susseguirsi di battute, risate e allegria, forse non sarebbe stata più sopportabile, ma decisamente di meno. E poi via, ma ti hanno mai davvero guardatoascoltato? Voglio dire, prima.

E mentre scrivevo, sono successe un po’ di cose, e ormai lo sai che a raccontarle a te mi riesce un po’ più facile, come quando da bambina scrivevo sui quaderni e iniziavo con Caro Diario. Per pensare che ci fosse davvero qualcuno a cui potevo dire tutto, assolutamente tutto, come a me stessa, e che però mi facesse sentire meno sola. Vedi che anche in questo, un po’ ti assomiglio? La strada è diversa, ma serve a raggiungere la stessa meta.

Non è importante parlare degli eventi, quelli, chi li deve sapere li sa. Ma voglio raccontarti delle lacrime, della paura, dei cedimenti, della rabbia e della forza, del freddo che ti può gelare da dentro senza essere giustificato dalla temperatura esterna, e del calore di un pensiero che ti coglie all’improvviso. Di parole che non sono le mie ma mi assomigliano più di tutte le altre, così  che posso adoperarle per guardarmi il cuore e scoprirlo diverso ogni volta ma con un nucleo che non cambia mai. A te queste cose posso dirle più a fondo ancora di quanto possa fare qui, le conosci e comunque non potrebbero farti male.

Dopo ho continuato ancora un po’ a scrivere del film e di te ma mi sono accorta che stavo esprimendo anche altro, emozioni che c’entrano con te sicuramente (e come potrebbe essere altrimenti?) ma si rimescolano, si confondono con parti di me e non solo di me. Sai, è che tutti noi siamo fatti di tante sfumature, ma addentrandomi nella tua storia mi pare proprio di vedere che tu ne avessi un numero impressionante. Ognuno poteva di fatto vedere in te quello che voleva, senza dover inventare nulla, perché comunque, qualunque aspetto potesse scegliere, tu dentro ce l’avevi. Più o meno pronunciato, più o meno intenso, ma c’era tutto. Tutto quello che uno può immaginare di essere, o di voler essere, o di non voler essere. Mi pare di procedere in una foresta di rovi, mi si graffiano le gambe e le braccia, vado avanti a fatica, devo sfrondare, devo farmi male, più mi inoltro, più la bellezza dei colori mi attira, e più la durezza delle spine mi respinge, a volte devo tornare indietro di qualche passo, per riprendere poi il cammino da un altro punto; altre volte tagliare rami che altrimenti mi impeirebbero di passare. Credo che la direzione sia quella giusta e la destinazione sia quella che dev’essere, ma non sempre ne ho la certezza e a volte mi sembra di arrancare un po’ a caso.

Ho la vaga idea di dover far cadere certi veli, certe costruzioni che si sono sovrapposte alla realtà, per poterti vedere bene e profondamente e riuscire davvero a trovarti, a sentirti, magari anche con l’aiuto della tua arte, che era parte della tua vita, non c’è dubbio, ma andando al di là e non cercando a tutti i costi di adattare i tuoi ruoli – quando non addirittura delle frasi prese fuori contesto qui e là – a un’immagine preconfezionata, e tuttavia tenendone conto quando è il caso. Dopotutto, noi “fotografiamo i momenti felici della nostra vita. Nessuno fotografa le cose che vuole dimenticare”. Ma non è vero neanche questo. Nelle foto di famiglia, forse. Ma quando fabbrichiamo la nostra idea delle altre persone, le etichettiamo, le incaselliamo come ci fa comodo, fotografiamo solo il loro profilo migliore o solo quello peggiore, a seconda della posizione da cui i nostri occhi guardano. Io voglio ritrarti nella tua interezza, tutto il tuo caleidoscopio di colori, il tuo essere poliedrico e mutevole come ogni essere umano che sia veramente in cerca di se stesso. Forse solo un po’ di più, quel tanto che basta per fare delle etichette coriandoli e gettarle nel vento nei giorni in cui fuori c’è il temporale.

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Foto dal web

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 22. Confesso che ho vissuto

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Le persone che seguono i miei vagabondaggi in questo blog da un po’ di tempo sanno che Neruda è uno dei miei punti di riferimento letterari… anche il titolo del blog del resto è dovuto a lui 🙂

Lo considero un genio, nella mia ormai antica recensione su Anobii aggiungevo: un genio, ma anche umanissimo, che non è scontato.  Questo libro, secondo me stupendo, raccoglie in parte le sue memorie, forse sarebbe meglio definirle tracce della sua vita. Non è una vera autobiografia come siamo abituati a conoscerle. Ma preferisco lasciare direttamente la parola a lui (e scusate per la foto sfocata, può essere che la cambi se riesco a scattarne una migliore ma non credo stasera).

Queste memorie o ricordi sono intermittenti e a tratti si smarriscono perché così appunto è la vita. L’intermittenza del sonno ci permette di sostenere i giorni di lavoro. Molti dei miei ricordi sono svaniti ad evocarli, son divenuti polvere come un cristallo irrimediabilmente ferito.

Le memorie del memorialista non sono le memorie del poeta. Quegli è vissuto forse meno, ma ha fotografato molto di più e ci diverte con la precisione dei particolari. Questi ci consegna una galleria di fantasmi scossi dal fuoco e dall’ombra della sua epoca.

Forse non vissi in me stesso; forse vissi la vita degli altri.

Da quanto ho lasciato scritto in queste pagine sempre si staccheranno – come negli albereti d’autunno e come al tempo delle vigne – le foglie gialle che vanno a morire e le uve che rivivranno nel vino che è sacro.

La mia vita è una vita fatta di tutte le vite: le vite del poeta.

(Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, Oscar Mondadori 1976, traduzione di Giulio Stocchi e Savino D’Amico)

 

SABATOBLOGGER 22. I blog che seguo

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Carolinsigna è una coach e si occupa prevalentemente di migliorare la vita lavorativa di chi ha qualche difficoltà in questo campo (perché deve trovare la sua strada, o non ama il suo lavoro, ecc.). Nel suo blog si pone molte domande e propone riflessioni anche su altri temi, comunque, quelli che potremmo quasi definire “universali”: per esempio trovo questa definizione dell’amore semplice e fresca, e tutto sommato dice molto, se non tutto. Anche Genitori – fare o esserlo? affronta dubbi che credo tutti abbiamo prima o poi avuto, come genitori o come figli. Infine questi pensieri sul tempo, che anch’io ho avuto ogni tanto. E’ come se vedessimo sempre il passato con gli occhi della nostalgia e non come realmente era…

Come non detto è il blog di Leo Ortolani, beh, conosciutissimo, il creatore di Rat-Man e di recensioni cinematografico-umoristiche a fumetti (CineMAH) oggi raccolte in un volume intitolato “Il buio in sala”. Quindi dedico queste righe prevalentemente agli appassionati del genere, come si suol dire. Scelgo un post a caso, quello su Star Wars VII – Mi risveglio a forza. Per il resto sbizzarritevi. Tenendo conto che uno che scrive, a mo’ di presentazione, “Ho sempre desiderato aprire un blog. Finalmente l’ho aperto, ma dentro era vuoto” sicuramente può riservare piacevoli sorprese.

Anothersea Giusy Montalbano, una piccola “figlia del mare” (di un “alro mare”, però un po’ lo sono anch’io) il posto del cuore chi non ha sentito il cuore muoversi, prendere un po’ la posizione che più gli piace a seconda dei momenti, il cuore è un muscolo irrequieto, non sta fermo dove noi – e la scienza – vorremmo che stesse. Ma forse in realtà non lo vogliamo davvero, ci piace così, un animaletto vivace e irrequieto, capriccioso alle volte, ma che ci costringe a stare, anche noi, in continuo movimento. Attesa, perché ci sono presenze importanti per la nostra conoscenza di noi stessi; A volte non abito qui perchè capita anche a me di sentirmi come in un ramo, perduta in un ricordo, o magari di vagare in esilio, comunque altrove.

Stileminimo La stanza è un racconto, diviso in sei parti (il link è alla prima, consiglio caldamente di leggerle tutte), di rinascita, un racconto che tratta di come affrontare il proprio passato, per quanto doloroso, permetta di superare una situazione di non-vita, uccidere i propri fantasmi e tornare a una realtà rinnovata, più prorpriamente “nostra”, in cui possiamo di nuovo scegliere, sentire, forse anche volare. E’ uno dei pochi racconti lunghi perché quelli di Stileminimo sono di solito più propriamente pensieri, spunti di riflessione, brevi note da cui talvolta traspare, per piccole scintille, qualche cosa dell’autrice del blog, che di sé per il resto dice molto poco, lasciando parlare, appunto, i suoi appunti come questo sulla tensione tra la ricerca di un impossibile ideale e il rischio di accontentarsi, o questo, brevissimo e incisivo, sul niente che talvolta (o spesso) si nasconde dietro il rigido e ostinato attaccamento a qualcosa (le tradizioni, in questo caso, ma potrebbe valere anche per altro) che in realtà poi magari nemmeno si conosce bene.

Inciampi Se non avessi deciso di seguirlo tempo fa leggendo i suoi post, lo avrei comunque deciso leggendo la sua presentazione. Già uno che  “quando non inciampa in giro sta appollaiato (o accorvaiato) sul trespolo della vita”. Non puoi non seguirlo. O meglio, veramente se sta accorvaiato non hai neanche bisogno di muoverti per becc… ehm, per trovarlo. Curioso come una scimmia, appassionato di musica, ama il mare e poi… “è  alla perenne ricerca di una qualsiasi certezza, ma sa benissimo che le certezze non esistono infatti spesso si chiede perchè la stia cercando, ma non si è ancora risposto.” insomma, mi piace. Ho scelto Basta poco perché anch’io amo la “gentilezza a casaccio e gli atti di bellezza privi di senso” (citazione, apprendo googlando, pare della scrittrice californiana Anne Herbert. Sempre pensato che la California…).

La strada per i fontanili (Monika Santi) non dice di sé, le sue poesie raccontano di alberi, uccelli, di erba e ranuncoli e merli e salici, magari, qualche volta, anche della voglia di scappare che prende, e di volar via col nibbio, per poi comunque tornare, almeno temporaneamente. Secondo post che ho scelto, Accenna, brevi righe per un acquazzone che forse non ci sarà. Infine, Vecchio, grande albero: qui l’albero diventa confidente, tesse rapporti con la terra e il cielo, si pone domande e fa, insomma, quello a cui è costretto a rinunciare chi è impegnato nei “quotidiani fatterelli”, ma dato che tutto questo serve a costruire, è una fortuna che accanto a “chi opera” ci sia anche “chi medita”, sia pure in questo caso “solo” un vecchio, grande albero.

Talenti Sprecati (Squarty) Insieme al sito I love Zombie si occupano… beh, di zombie. Di non-morti e di horror in genere. Mondo quanto mai lontano dal mio, direte, e non potrò darvi torto, a volte succede anche di seguire un blog perché il blogger in questione ha cominciato a seguirti per primo e così, magari uno va a dare un’occhiata, scopre qualcosa di completamente diverso e che può essere proprio per questo interessante. Come del resto potrebbe essere interessante scoprire i lati positivi di un’apocalisse zombie, tanto per vedere il bicchiere mezzo pieno, come suol dirsi, in qualsiasi situazione. Così chi ha voglia di “rivolgere un globo oculare privilegiato verso la cultura non morta” potrà trovare cadav… ehm pane per i suoi denti. Ci sono anche i vampiri in metropolitana, anche se poi… ma non aggiungo altro, e diffidate sempre di una amica del cuore, anche. Sangue e ironia, bella coppia, dopotutto 🙂

Mr. Library Dude è il blog di un bibliotecario che lavora presso una biblioteca universitaria del Wisconsin. Come ci sarò mai capitata, nel suo blog? Non me lo ricordo proprio, ma a volte le vie della provvidenza e delle biblioteche sono misteriose. Se volete sapere qualcosa di più del suo lavoro potete andare sul suo about. Il titolo del blog (che più o meno significa “il tizio della biblioteca”) deriva dal soprannome che gli è rimasto “appiccicato” da una volta in cui venne così apostrofato da uno studente che non ricordava il suo cognome. E anche se oggi il termine dude ha qualche connotato negativo, continua a piacergli. E anche a me (di fatto si chiama Joe Hardenbrook, se a qualcuno interessasse). che dire… magari potete prendere qualche spunto (devo dire, piacevolissimo) se doveste presentare il vostro lavoro – di bibliotecario, appunto – (e capita che io sappia che ce n’è qualcuno tra i miei affezionati lettori) a degli scatenati quindicenni di una scuola superiore a scopo di orientamento professionale. Oppure, che so, consigliare a un candidato alla presidenza (americana o italiana o di altro luogo, poco importa, anche la presidenza di una giunta comunale va bene) i libri per bambini da leggere. Perché, che c’è di strano? Non vi è mai capitato di pensare che il candidato X o la candidata Y farebbero bene a leggere, ad esempio, il libro di…. boh… a leggere, comunque…? Ora potete anche dar loro utili e sicuramente apprezzati consigli 🙂 Nel frattempo, io me li sono appuntati, stanno benissimo anche nella mia wishlist personale! Anzi, a dire il vero potrei ribloggarlo e credo che lo farò! ❤ Quasi dimenticavo ma forse è ovvio: il blog è in inglese!

Una stanza tutta per sé (Evalith Adamas) Bellissimo blog questo, di un’appassionata di arte, storia e letteratura (e si vede, eccome). Un blog dove l’amore per le lettere, la scrittura, si respire in ogni parola, in ogni post. Splendido Inno alla gioia della scrittura questo di Wislawa Szymborska (certo che un nome più facile, pure lei… ogni volta devo copiaincollarlo per essere sicura di non sbagliare qualche consonante!). Poi potrete addentrarvi  nei boschi narrativi per scoprire Melville, o il buon reverendo Dodgson, alias Lewis Carroll, e sentire l’affascinante racconto di come sono nate alcune delle storie più famose di tutti i tempi. O trovare direttamente le prole del mio amato Ovidio, di John Keats, Oriana Fallaci… Ci sono però anche le donne più malvagie della storia, gli amori degli dèi, le grandi storie d’amore, una miniera d’oro vera e propria. Tra gli scritti personali dell’autrice del blog ho scelto L’abisso di Lilith, una lettura di questa affascinante figura leggendaria alla quale, qualcuno forse lo ricorda, avevo dedicato anch’io un post diverso tempo fa, proprio perché è un personaggio sfaccettato, con molte sfumature e che si presta a diverse interpretazioni.

Il Sorriso Quotidiano Il “progetto sorriso” di questo blog mi piace molto, lo trovo una ventata d’aria fresca, l’idea di celebrare, una volta ogni tanto (o magari spesso) le cose che fanno sorridere, ché di lamentarci avremo sicuramente ragione, ma siamo poi sicuri che ci faccia stare meglio? E allora via alle buone notizie che non compaiono sui giornali, alle informazion i che danno “gioia, conforto e risate”. Perché davvero ne abbiamo bisogno, e tanto di più quanto le notizie “ufficiali” sono spesso desolanti. Ridere è ribellarsi, è non lasciarsi spegnere. I due blogger sono Marco e Marjorie, laureato in biotecnologie industriali e sognatore incallito lui (ma le due cose sono compatibili? 🙂 ). Studentessa di GRU lei (e visto che non si tratta di edilizia, sospetto si tratti del personaggio di Cattivissimo meI; o forse quello di Kung-Fu Panda), oltre che cantante sotto la doccia e lettrice disperata (sempre meglio che casalinga, dico io). Certo, da gennaio i sorrisi latitano, speriamo  Scelgo questo dove si parla di libri, questo perché raccoglie diverse belle notizie in un solo post e questo perché è (per ora) l’ultimo ma spero che non resti tale!

Book of Words seejy, ossia: Jie Yi See. Non chiedetemi quale sia il nome e quale il cognome… Tutto quello che so è che è un’appassionata di libri e di caffè. Il suo blog tratta di books, reviews and all things worth reading.  Anche qui, ho quache difficoltà a ricordare come diamine ci sia finita, anche se, trattandosi di un blog che parla di libri, appunto, il mistero non è poi così fitto, forse tramite il Nerdy Book Club. Comunque. Blog di libri, si diceva. E qui, per esempio, ne trovate cinque che l’autrice non butterebbe mai via. Questa, invece, è una mappa su cui è “inciampata” per caso (il post fa parte della categoria stumbled upon) ma che forse è un oggetto che non dovrebbe mancare nella casa di un topo di biblioteca o bookworm. Ultima, questa recensione, si tratta di un fantasy ma sospetto sia il tipo di fantasy che piace a me – forse. E poi pare che ne sia stato tratto ( o sia in corso di lavorazione) un film di Tim Burton che dovrebbe uscire a dicembre. E a me i film di Tim Burton piacciono quasi sempre.

Isabella Scotti (Tachimio) A parte quello che dice di sé (poco) nella presentazione, Isabella la conosco come una persona molto dolce e gentile, attenta lettrice degli altri blog, oltre a gestire il suo. Ama l’arte e scrivere poesie, alcune le ha raccolte in un libro. Io però prediligo proprio gli articoli dedicati all’arte, naturalmente in senso lato, a partire dal cinema, specialmente poi quando si unisce alla pittura, come nel film La donna d’oro, che devo assolutamente vedere, anche solo per il fatto che c’è Helen Mirren, senza dire che parla di un quadro di Klimt che amo molto e della sua storia, travagliata a causa del nazismo. Bello anche questo sulla storia del mare e di chi lo attraversava ai tempi in cui era un’impresa, ma molti vi si cimentavano, per amore o per forza. Infine, il pià recente e neppure ancora completato, che parla di danza, trovate al link la prima parte, immagino che a breve sarà pubblicata la seconda, vale la pena di aspettare perché Isabella raccoglie sempre, da libri o siti, storie di grande fascino e le riporta con cura.

Diego56 (Appunti, semplicemente appunti) La lama tagliente sono riflessioni sul contrasto che ci governa, dentro noi stessi e rispetto agli altri, differenziarci per trovare la nostra identità, e attraverso la differenza cogliere anche la somiglianza. Mi hanno colpito anche questi brevi pensieri sul rapporto tra vita “reale” e ricordi, con i quali riscriviamo la nostra vita, concedendoci talvolta una certa libertà, rispetto alla stesura originale, ossia agli eventi come effettivamente si sono svolti. infine ho scelto questo invito, che condivido pienamente, a cogliere maggiormente la gentilezza, l’umanità nel tono di Gesù, “declinato al sorriso e non al cupo rimprovero.” Insomma, meno rigidità, meno atteggiamenti punitivi nell’interpretazione delle regole farebbero bene a tutti.

Il pentolino per il Mate (Badev) Un altro blog non più aggiornato da tempo, che mi piacerebbe invece fosse ripreso. Basti dire che nell’ultimo post dello scorso dicembre, Il balzo del capriolo, si cita Saramago. E vedete che bello, questo articolo dolente e poetico sul dialogo con una città “con tutto il mondo dentro”, dialogo interrotto da un evento tragico col quale non si sa bene come fare i conti, nel quale l’aspetto drammatico dell’evento in sé si accompagna al “dopo”, alla difficoltà di viverlo, di riprendere il filo di quel dialogo interrotto in una città che si sente un po’ meno “nostra”. Infine, così, quasi a caso, vi lascio questo post sulle Fiabe italiane perché quando si parla di fiabe e di Calvino mi sento sempre un po’ coinvolta ed è anche un post sul diventare grandi, sul coraggio e altre cose. Io vi consiglio, come sempre, di bighellonare un po’ per tutto il blog, anche senza meta, che è quasi sempre il modo migliore di viaggiare, anche tra le parole..

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VII – II (segue)

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Andrea accompagnò Elisa nel piccolo giro turistico di routine, che non richiese più di tre o quattro minuti. Era un appartamentino piuttosto piccolo, ma la personalità di Andrea era presente dovunque: ricordi di viaggio, libri, spezie dai nomi misteriosi, e alle pareti fotografie ingrandite di Genova accanto a quelle di posti più esotici, come il Nicaragua, la Cina, la Malesia e la Tanzania.
– Sei stato anche in Tanzania!
Andrea ebbe uno dei suoi frequenti sorrisi autoironici, che Elisa conosceva così bene.
– A sedici anni avevo in camera un poster di Che Guevara e sentivo le canzoni di Joan Baez, convinto che bastasse quello per essere diversi. A diciannove anni sono andato a Cuba. A venti, l’anno in cui ci siamo conosciuti, venivo da tre mesi di volontariato in un ospedale della Tanzania. E lì ho imparato che cosa vuol dire essere diversi. Sono diversi quelli che si fermano in quei posti, mettono su famiglia, abbandonano le nostre strutture e i nostri ospedali di cui ci lamentiamo tanto, e se ne restano lì a curare la gente in una baracca. Imparano la loro lingua, raccolgono le loro leggende, comunicano con loro, diventano parte di loro. Io non ne sono stato capace. Tra l’altro, mi sembrava che ci fosse tanto da fare anche qui. Sembra bello a dirlo così, lasciarsi tutto dietro le spalle e partire, ma è una vita di desolazione e di solitudine, senza la tua famiglia a sostenerti, senza sapere se il bambino che hai visitato oggi domani sarà ancora vivo, senza neanche sapere se tu sarai ancora vivo. Ho visto tanta fame e tanta disperazione come non credevo nemmeno che esistesse. Credo che nessuno di noi possa veramente capire quello che significa, se non c’è stato.
“La nostra partecipazione al destino degli altri spesso si ferma dietro una soglia e forse neanche noi sappiamo dove è esattamente quella soglia. E’ più facile immaginare che un mendicante abbia una storia da raccontare, piuttosto che sedersi con lui e ascoltarla. E’ facile amare la libertà degli zingari, fino a quando il fascino di una vita nomade resta comunque confinato nelle pagine di un libro e non interferisce con il nostro bisogno di sentirci stanziali anche quando ci muoviamo.
“A quarant’anni devi fare i conti con la morte, e con la tua fallibilità. A vent’anni siamo tutti invincibili, ma si impara che il mondo procede indipendentemente da te, a meno che tu non sia Che Guevara, o il Papa o il presidente degli Stati Uniti. E forse persino così…”
Elisa lo guardava. Conosceva tanto poco di lui, in tutto quel tempo in cui erano stati insieme gli aveva raccontato tanto di sé e anche lui aveva raccontato tanto, eppure c’erano ancora così tante cose da sapere, così tante cose da fare insieme, così tanti posti da vedere. Il pensiero la spaventò, perché significava qualcosa a cui non voleva ancora pensare, significava dare alla loro storia un tempo, un tempo lungo, farla smettere di essere una storia, farla uscire da quel senso di sospeso, di provvisorio, di presente. Farla diventare una parte del futuro.
Lui vide quello sguardo e fraintese, pensò che fosse perché dava troppa importanza a quella sua solidarietà lontana ed effimera. Accennò un gesto per sfuggire a quell’ammirazione che non voleva, ma cambiò idea e lasciò il gesto a metà. Sì che la voleva. Non si prendeva mai troppo sul serio, ed aveva verso quelle sue arruffate iniziative un atteggiamento quasi irridente. Però aveva tenuto la fotografia, ed era affezionato più di quanto volesse ammettere a quel ragazzino velleitario e un po’ folle, e dopotutto forse ne era anche un po’ orgoglioso.
Elisa proseguì nel suo giro esplorativo, cercando di avvicinarsi a lui guardando e toccando le sue cose. Accarezzava le copertine dei libri, scorrendo i titoli. Classici come Omero e Ovidio e i tragediografi greci, Dante, Shakespeare, Ariosto. Moltissima letteratura inglese, dal Settecento ai contemporanei, tutto Swift, e Sterne, e poi Dickens, Oscar Wilde, tanti, troppi per guardarli tutti. … E naturalmente tutto Chatwin – di Chatwin le aveva parlato, e più di una volta – e molti altri libri di geografia e di viaggi. Molti sudamericani, anche: Borges, Amado, Garcìa Marquez, Isabel Allende, Sepùlveda. I libri di “Che” Guevara, le poesie di Neruda. Qualche libro comico, diverse raccolte di fumetti. Là c’era tutto lui, senza gerarchie o ordini di importanza, con leggerezza e forse inconsapevole ironia, senza nessun timore che i mostri sacri della letteratura potessero aversene a male per certi accostamenti irrispettosi.
Poi la musica. Dischi di musicisti che in molti casi lei aveva a malapena sentito nominare. Jazz e blues, soprattutto, ma anche Sting, Joe Cocker, Tom Jones, e tra gli italiani, più o meno tutto il repertorio dei cantautori da Paoli e Tenco a Vecchioni, Branduardi, Rino Gaetano, Fossati. Elisa si aggrappò a quei nomi che le erano noti, ma era evidente che lui aveva gusti piuttosto particolari. Lei che si basava su Sanremo per stabilire se comprare un disco o no si sentiva un po’ in soggezione di fronte a B.B. King, George Benson o Otis Redding, tanto per citarne qualcuno dei meno oscuri. Senza parlare di tutti i dischi che si era comprato in Inghilterra, e che forse in Italia non erano nemmeno usciti.
Su un altro piccolo scaffale c’erano due maschere africane, oggetti di artigianato indiano, un vaso cinese – anche il divano del soggiorno era foderato con una stupenda stoffa cinese – e un vaso giallo con dentro dei fiori di stoffa rossa.
– Quello è un regalo di Monica – disse lui, vedendo che lo guardava. Lo aveva immaginato, non era un oggetto molto maschile, e comunque non le sembrava accordarsi con quello che le altre cose rivelavano di lui.
– Come sta Monica? – Gli chiese.
– Bene. E’ tornata in America, si è risposata e sembra che questa volta stia andando meglio. Facendo i debiti scongiuri – aggiunse con un sorriso. Monica l’irrequieta, che a trent’anni aveva già divorziato, con un bambino piccolo e una voglia di indipendenza e di fuga che l’aveva portata in giro per tutta l’America. Un nomadismo simile a quello del fratello, ma senza un punto fermo a cui tornare. Adesso, forse, sembrava aver trovato il suo punto fermo.
Elisa restò lì, senza sapere cos’altro dire. Anzi, avrebbe saputo cosa dire, ma non trovava il coraggio. Senza neanche rendersene conto, continuava a guardarlo, fino a che, ancora un po’ incredulo, Andrea non poté fare a meno però di chiedersi se…
– Ma tu…
E’ una legge di natura. Neanche l’uomo più sicuro di sé riuscirà mai a mantenere un maturo, dignitoso distacco di fronte a una donna in quel nebbioso passaggio da quando comincia a pensare che forse non le è indifferente, al che cosa fare dopo. Per questo tutto quello che le disse furono quelle due parole: “ma tu…” e poi la baciò, così avrebbe preso il toro per le corna, per così dire, e in qualche modo avrebbe risolto il problema.
Lei pensò che era la prima volta che sentiva il sapore della sua bocca. In quell’unico bacio di tanti anni prima, l’emozione era stata troppa e le cose erano andate troppo in fretta per accorgersi di una cosa come quella. Ma questa volta, tutto sommato se lo aspettava. Tutto quello che era successo da quando era arrivata lì, tutte le parole che si erano detti, tutti i silenzi, e gli sguardi e ogni loro movimento era stato soltanto una preparazione, un prendere tempo.
E adesso, finalmente, sentiva il sapore della sua bocca.
– Sei bella come il giorno in cui ti ho baciata per la prima volta – disse Andrea.
– Non so se devo prenderlo come un complimento. Non è che fossimo granché quel giorno – disse lei, fingendosi dubbiosa. Ma i suoi occhi ridevano.
Lui la baciò un’altra volta.
– Mi hai fatto aspettare un po’ di tempo, ma ne è valsa la pena – disse poi. Lei afferrò un cuscino e glielo tirò. Lui lo scansò e glielo rilanciò. Era talmente felice che si sarebbe messo a ballare sul tetto del Grattacielo della Sip, eppure non era ancora del tutto sicuro che quello che stava vivendo fosse reale. La baciò ancora molte volte, ogni volta con più passione, e ad ogni bacio lo sentiva più tangibile, una forza viva, palpabile e concreta che prendeva il posto dell’inaccessibilità del sogno. Ad ogni bacio la felicità lo assaliva, prepotente, bruciante, inarrestabile. Senza tregua, senza respiro, come quella sete che non si era ancora spenta, e forse non si sarebbe spenta mai, neppure adesso che lei lo amava.
Che cosa meravigliosa, pensò lei, che il mio corpo sia capace di rendere un uomo così felice, e di farmi sentire così felice. Come se fosse lui a dar forma a questo corpo sconosciuto, che va per conto suo eppure è il mio corpo, più mio di quanto lo sia mai stato prima. Anche la voce sfuggiva al suo controllo, sembrava venire da una parte di sé così profonda, che non aveva mai saputo che ci fosse. Senza difese, libera. Chiuse gli occhi un momento, perché quello che le stava scuotendo il corpo e l’anima, era troppo intenso per poterlo guardare. Ma era anche troppo intenso per tenere gli occhi chiusi. Non aveva paura, non più.
Andrea aveva gli occhi avvolti in una specie di nebbia che lo teneva ai confini di un sogno, ma sapeva che era bellissima, molto più bella di quando la credeva irraggiungibile, ed era proprio perché quello che sentiva era così profondamente fisico, e sensuale, e reale, che la trovava così bella. Neanche nelle sue più sfrenate fantasie aveva mai pensato che potesse essere un’esperienza così totale, come se avesse vissuto tutto quello che c’era da vivere, salvo a desiderare di riviverlo ancora, e ancora, e ancora….

Quando infine, dopo molto, molto tempo Elisa guardò l’orologio si accorse che erano passate quasi due ore.
– Sai che la media nazionale del tempo per il sesso è di tre minuti, compresi i preliminari? – gli disse ridendo.
– Alla faccia degli amanti latini! – rispose Andrea, scoppiando a ridere anche lui. – Ma se la media è di tre minuti, e c’è qualcuno che ci mette due ore come noi, vuol dire che ci sono anche quelli che ci stanno tre secondi… un bel record, ma non sanno cosa si perdono!
Ridere di niente, giocare, scherzare, parlare di sciocchezze, e quella sorta di stordimento, come se avessero bevuto troppo, in un certo senso era tutto così nuovo per Elisa, era un tipo di amore che non conosceva. Conosceva la tenerezza, la dolce abitudine, l’affetto. La passione era ancora qualcosa di misterioso, e di non troppo rassicurante.
– Adesso devo proprio andare – disse dopo un po’, e non solo perché a casa l’aspettavano. Le emozioni la sovrastavano, la confondevano, un senso di tremenda spossatezza sostituiva in certi momenti la forza che aveva sentito in sé e la bellezza di quella giornata perfetta.

Nodi

 

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Foto presa da qui

Non saprei quali oggetti portare con me,
forse i nodi, quei pochi che ho imparato,
i più facili da fare, difficili da sciogliere
un sorriso scolpito dal lento incedere
delle rughe e dai margini del tempo, dolcezza
marchiata sul cuore a lettere di fuoco
Ci sono parole che non so dirti, pensieri schivi,
che volteggiano come aquiloni senza filo
il canto della mia pelle, la goccia
sulla ragnatela illuminata dal sole
se l’immagino scendermi addosso come
la carezza di un’increspatura
nell’aria tranquilla di una domenica mattina,
cose che non conosco, di cui non saprò nulla,
eppure le porterei con me, per stringere
ancora i nodi irrisolti, per incamminarsi
un’altra volta scalzi sulla lama del rasoio,
sul taglio delle pietre, spezzandosi i talloni
o saldamente stare, pazienti come scogli
permettendo che sfoghi il mare la sua rabbia.
Non so, e mi uccide non sapere;
sono barca alla deriva, disancorata,
mi sento piccola davanti a tutti i porti
che hai toccato, piccola, se penso
alle tue mani come vele, io, via navigabile
dalla tua isola alle stelle, la dalia rossa
che non hai colto e si è nutrita dei tuoi passi,
della tua terra, e tu hai contato i miei petali
uno a uno come parole, come semi,
come frammenti di un racconto pescato
con la canna al fiume e ributtato in acqua
mille volte, perché crescesse ancora, fino
a farsi tronco e albero e foresta,
sì che scorra la resina tra le strettoie
dei miei rami e non si pieghi il gambo al giorno
e al fuoco, né alla notte e al vento, ma a te solo,
a te, la pagina densa del libro che non ho letto
e mai finirò di toccare con dita impazienti,
all’infinito, negli interstizi tra il prima e il dopo.
Nulla possono i corvi contro i miei occhi colmi
dell’inizio e della fine delle storie, e non c’è
da pentirsi di alcun peccato, altro che
di troppo amore, troppo, senza ritegno,
senza buona misura o ragionevolezza, o almeno
l’intento di redimere le anime perdute:
ma qui nessuno si è perduto, e comunque
mi basterebbero, se volessi essere salvata,
le tue ali, il tuo dolore e l’immagine
della tua faccia che mi guarda, prima che
sia memoria quel poco che ho capito.
Occorre essere perfetti per questa missione
di decidere chi deve espiare cosa, e quando
mentre io amo l’imperfezione troppo,
per potermene liberare facilmente,
amo quei tuoi passi di farfalla e quelli stanchi
il respiro sommesso di chi non ha altra pretesa
che vivere per sé e per quel ritorno
a un’isola, che non è Itaca per tutti,
ché ognuno ha il suo ritorno, la sua patria,
gli amori di un tempo e quelli nuovi,
che attraversano lo spazio e il tempo
senza curarsi di quanti universi
ci siano da passare, quante veglie,
sul limitare del cielo e della sera.
Vorrei esserti anche madre, per amarti
senza che tu faccia nulla, solo
perché esisti, ed esserti anche figlia,
per chiederti ragione di ogni gesto,
sorella forse, per ridere insieme, ma di nascosto
dopo che si sono spente le luci dei teatri.
Amarti, comunque, di tutti i nodi
il più semplice da stringere, ma per scioglierlo
non basterebbero tutte le vite trascorse
dai giorni in cui muoveva i primi passi il mondo.
Vorrei cullarti, la tua testa sul mio petto
e sentirti gridare il mio nome come
la mezzanotte dei gatti, come fosse amore,
il vizio di darsi e prendersi con troppa innocenza
toccami, bruciami, sentimi solo con le mani,
a illuminare la mia pelle di desideri indiscreti,
le tue mani, conchiglie, uccelli di mare, navi di passaggio,
il capriccio del volo, la voce del viaggio e del ritorno.
Fai del mio corpo indifeso la tua casa,
percorri la mia schiena come una strada aperta
le braccia luogo d’incontro, argine al dolore
le spalle un punto d’appoggio, l’arrotondamento
delle geometrie, i miei fianchi un granaio,
una lunga estate, il riso e il suono del mio
ventre dove hai sciolto già la neve e tra le gambe
ho un lago vulcanico, l’origine del mondo, e ti offro
il momentaneo silenzio, prima che ti risuoni dentro
l’eco di ogni uomo che sappia cercare
il paradiso da rovescio, nel posto sbagliato;
riprendi fiato, solo per perderlo ancora, spezzarlo
ancora, cerca nella mia bocca il miele e guardami,
guardami dentro, guarda la mia ombra scucita
e sia la tua lingua il filo che rimargina i lembi.
Danza sulla mia rosa nuda, lascia solchi di meraviglia
a inumidirmi gli occhi e il cuore e tutto il resto
Senti la carne che si fa pensieri, o era forse
Il contrario, adesso non ricordo;
ruberemo alla notte il suo mestiere, fino a mettere
la volta del cielo sottosopra e tutto sarà un gioco,
facciamo che tu avevi soltanto finto di morire
dietro di noi c’è ancora il mare
– ed è ancora giorno.

UN LEONE A COLAZIONE 23. Dialoghi

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Qualche giorno fa, in seguito a una visita per certi aspetti “difficile” (anche se fatta per supporto, e da parte di due persone eccezionali da tanti punti di vista), abbiamo avuto, col mio “piccolo”, uno dei nostri non rari dialoghi intensi, che si è svolto più o meno così:

Figlio: Pensavo che sarebbe stato più difficile, pensavo di non riuscire a guardarle negli occhi.

Mamma: Qualche volta è proprio così, ci si fa prendere dall’ansia, poi ti accorgi che le cose non sono così difficili come pensavi

Figlio: E tu di che cosa hai paura?

Mamma (qui non ci sono cavoli, bisogna rispondere sinceramente): Di perdere le persone che amo

Figlio: Beh, quello tutti (e che ti credevi?)

Mamma (tentando di riprendere terreno e con la mezza idea di essere andata anche un po’ troppo in là con le cose serie): anche di piccole cose, dici? Ho paura dei calabroni, dei fulmini.

Figlio: Ma mi prendi in giro? (ossia: sto parlando di VERE paure io, mica quella roba lì)

Mamma (annaspando): Boh, ho paura delle decisioni importanti, quelle in cui devi prenderti grandi responsabilità. (cioè no scusate ma io sto parlando con un ragazzino di tredici anni. Il quale mi guarda con aria comprensiva e annuisce. Pochi giorni più tardi, in una scena di Karate Kid in cui si parla di passato e del fatto che è impossibile cambiarlo, e sulla fatica che ci vuole a volte per rialzarci quando la vita ci butta giù, guarda fisso il personaggio fisso e commenta: come ti capisco…)

Questi dialoghi sono una delle cose più belle e spossanti della vita familiare. Non sai mai bene cosa è giusto dire e come. Ma dopotutto, sono sempre stata convinta, tra le poche quasi certezze che ho, che l’importante, in questi casi, sia comunque che il dialogo ci sia. Più importante persino che fare attenzione a quello che si dice 🙂