VI
Viviana avrebbe voluto passare con lui tutto il tempo che restava. Con lui solo, escludendo tutti gli altri. Il dolore, quel dolore, era una cosa intima, che apparteneva solo a loro due, e non poteva condividerlo con nessun altro.
Ma Fabrizio aveva bisogno degli altri. Era andato in pensione già da due anni, ma continuava a collaborare come consulente per lo studio che aveva contribuito lui stesso a creare. In realtà, si era scherzosamente lamentata lei nei primi tempi, lavorava quasi più adesso che quando non era in pensione. Lo chiamavano continuamente, sembrava che non potessero fare a meno di lui.
– Anch’io non posso fare a meno di te – gli diceva. Ma sapeva quanto amava quel lavoro, quanto amava stare in mezzo alle persone, e non era mai stata possessiva. Non avrebbe voluto diventarlo adesso.
Una sera le raccontò lo scherzo che avevano fatto ad un collega molto più giovane. Sua moglie aspettava un bambino, aveva appena fatto un’ecografia, e lui non aveva potuto accompagnarla all’ospedale, ma aspettava i risultati con ansia. Si erano messi d’accordo con il fratello di sua moglie, che gli aveva telefonato, fingendo di chiamarlo dall’ospedale, e gli aveva detto con aria candida che lei aspettava sei gemelli.
– Avresti dovuto vederlo – disse, scoppiando in una risata. – Era bianco come un lenzuolo, ha cominciato a balbettare, “ma io… ma noi… no-non ce lo possiamo permettere! S-sei? N-non è possibile! Alla fine ha visto noi tre che sghignazzavamo senza ritegno, e l’ha capito, e allora è diventato verde. Ha cominciato a dirgli di tutto per telefono: “Razza di stronzo incosciente, e imbecille anch’io che ti sto anche a sentire!” Alla fine però si è messo a ridere anche lui.
Persino Viviana sorrise.
Erano passati diversi giorni da quando era andata a parlare con il dottor Giuliani, e ancora non gli aveva riferito le parole del medico. Era sicura che lui la pensasse come lei, eppure… era un uomo, magari avrebbe pensato che sarebbe stato meglio per tutti, gli uomini hanno sempre strane idee su come si protegge una donna, hanno strane forme di orgoglio e di pudore e di coraggio. Ma lui la conosceva, doveva sapere che anche lei aveva coraggio, e ne avrebbe avuto di più se lui le fosse rimasto vicino. Aveva promesso di essere obiettiva, di non influenzarlo, di limitarsi a riferire quello che aveva detto il dottore. Non ne aveva la forza. Avevano cucinato insieme – lui cucinava molto meglio di lei, a parte quel paio di cose che sapeva fare, per il resto più che altro gli faceva i lavoretti noiosi ma necessari, tipo sbucciare le patate, tritare l’aglio, predisporre le pentole secondo le sue indicazioni. “Vieni che ti faccio un po’ da sguattera” gli diceva spesso, scherzando. Non glielo aveva più detto, in quei giorni. Non le sembrava neanche normale cucinare, aveva dovuto in qualche modo accettare di dover continuare a fare le cose quotidiane di sempre, aveva dovuto accettare che non solo lui doveva mangiare, ma anche lei, benché in un certo senso il pensiero la disgustasse. Dopo qualche giorno aveva ricominciato ad abituarcisi. Era come se dovesse imparare di nuovo, a mangiare, a parlare con lui, a rannicchiarsi contro di lui, la sera, a letto. Tutto.
Dopo lavarono i piatti, li asciugarono, riordinarono la cucina, sempre senza dire una parola, finché Fabrizio non fu più in grado di continuare a far finta che entrambi stessero pensando ad altro, e che non avessero niente da dire. La prese per mano, la portò in camera, si sedette sul bordo del letto accanto a lei, la costrinse a guardarlo negli occhi. Le mani di lei erano fredde, e lui le strinse tra le sue.
– Ascolta amore mio, che cosa vuoi che faccia? D’accordo, è impossibile comportarsi come se niente fosse, non è questo che ti chiedo. Ma che cosa vuoi che faccia? Un anno è breve, ma può essere anche molto lungo. Io… – D’improvviso le stava accarezzando le labbra, e non sapeva nemmeno che lo stava facendo. Lei si ritrasse d’impulso, e lui scosse la testa, dolcemente, continuando a guardarla. Poi l’abbracciò, lasciò che poggiasse la testa contro la sua spalla, e le accarezzò i capelli, a lungo, finché non sentì il suo corpo perdere quella rigidità che non le era mai appartenuta, e ammorbidirsi. Solo allora tornò a guardarla, e lesse nei suoi occhi che aveva capito.
Ancora, però, Viviana non riusciva a smettere di pensare a Marco, a quando lo aveva visto in ospedale, negli ultimi giorni della sua vita, intorno a sé solo malattia e sofferenza, le visite cadenzate dagli orari, nessuna possibilità di aprire la finestra, se mai avesse voluto farlo, o di decidere quando mangiare, quando dormire, con chi parlare… era questo che sarebbe successo a Fabrizio? Sentiva di non poterlo sopportare una seconda volta. Aveva capito, sì, per una volta più di quanto Fabrizio pensasse. Non poteva sopportare l’idea che lui volesse stringerla tra le braccia, accarezzarla, come aveva appena fatto, e si ritrovasse da solo in un letto di metallo bianco, con la consapevolezza che in quel letto sarebbe morto.
Non doveva piangere, non doveva piangere. Doveva trovare le parole, se fosse riuscita a parlargli forse non avrebbe pianto, sarebbe riuscita a essere obiettiva, sarebbe riuscita a convincersi che davvero potevano fare di più di quanto potesse fare lei.
– Riccardo dice che dovresti curarti in ospedale. Mi ha detto che te ne ha parlato, ma tu non hai voluto ascoltarlo. – Alla fine non aveva trovato le parole che cercava, e aveva scelto uno strano momento, mentre lui continuava a tenerla stretta, quasi che cercasse ancora di proteggerla, come probabilmente era. Ma non era mai stata brava a scegliere né le parole, né i momenti.
Fabrizio ebbe un sorriso strano, in parte ironico, in parte stanco e tirato.
– Probabilmente lo pensa davvero – disse. – Ma non mi sembra che ti abbia convinto, e non ha convinto neanche me.
Come aveva potuto anche solo lontanamente pensare che non se ne sarebbe accorto?
– Io… io non lo so. Forse ci sono delle cure che a casa non… Se c’è la possibilità che tu possa…
– Vi, tu mi conosci. Non voglio dirti che sia stato facile, ho passato qualche brutto momento, e probabilmente ce ne saranno altri. Ma non mi interessa vivere qualche mese di più, fosse un anno o magari due anni di più, lontano dalla mia casa, lontano da te, solo perché una macchina respira al posto mio, e mi fanno delle flebo per nutrirmi, e non so che altro. Forse più avanti, se il dolore diventasse davvero insopportabile, se dovesse diventare troppo pesante per te…
Adesso Viviana piangeva. Era atroce sentirlo parlare in quel tono quieto di cose a cui lei non riusciva neanche a pensare senza un moto di orrore. Ma suo malgrado, c’era anche sollievo in quelle lacrime. Lui ebbe un pensiero improvviso.
– A meno che poi questo non abbia delle conseguenze per te, che possano accusarti di qualcosa…
– Riccardo ha detto che è possibile. Non ne so niente di queste cose, forse se tu fossi… non fossi in grado di decidere, sarebbe diverso. Ma non è così, e se è solo per questo, non me ne importa niente. Difenderò la tua e la mia libertà di scelta, il tuo diritto di stare con me e il mio diritto di stare con te, qualunque cosa succeda.
Fabrizio annuì. Sapeva che niente l’avrebbe indotta a cambiare idea. La possibilità che ci fosse da affrontare una battaglia sembrava persino averle ridato forza. Era pur sempre la sua Viviana.
– Grazie – disse piano. E poi la baciò, con tenerezza infinita.
Dopo, andò a telefonare a Elisa, per invitarla a pranzo per domenica, con Andrea. Si sarebbe stupita, ma non troppo. Lui aveva molta considerazione per Andrea, e il fatto che rendesse Elisa così evidentemente felice non poteva che renderglielo più caro.
Quando tornò, Viviana lo aspettava. Questa volta, quando cominciò ad accarezzarla, non si ritrasse. Adesso aveva ritrovato i gesti e le parole giuste. Attirò il viso di lui contro il suo con una specie di slancio impetuoso. Lui sapeva che c’era anche angoscia, in quei gesti, ma l’unico modo che aveva, adesso, per placare quell’angoscia, era il calore della passione, che come un ferro incandescente avrebbe potuto fondere il corpo di lei nel suo, come era accaduto altre mille volte, come un dolce veleno che passasse dall’epidermide, scorresse nel sangue, ma portando, invece del suo potere malefico, una linfa vitale. Solo così lei avrebbe potuto sentire che lui le dava se stesso, senza nessun confine, con una volontà che annullava ogni altra, l’unica che gli importasse, per cui non aveva nient’altro da chiedere.
Gli piaceva, quel modo che aveva sempre avuto di nascondere la testa nel suo petto, mentre facevano l’amore. Ma adesso voleva guardarla. Non c’è niente di più intimo che guardare il viso di una donna nel momento in cui si lascia invadere, senza nessuna barriera, da un corpo che è nello stesso tempo estraneo e vicinissimo, il mistero che è lasciare che qualcuno possa impadronirsi di te penetrando in ciò che è più tuo, più personale al mondo, e provando piacere per questo. La libertà di assoggettarsi, un nodo più stretto di qualunque altro.
– Ti amo talmente tanto – le disse, dopo. Adesso lo sapeva che quel cerchio, il cerchio invisibile e invalicabile con cui lo aveva da tanto tempo legato a sé, non l’aveva costruito lei, ma se l’era creato da solo, e non lo avrebbe distrutto per nessuna ragione al mondo.