IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – VI

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VI

Viviana avrebbe voluto passare con lui tutto il tempo che restava. Con lui solo, escludendo tutti gli altri. Il dolore, quel dolore, era una cosa intima, che apparteneva solo a loro due, e non poteva condividerlo con nessun altro.
Ma Fabrizio aveva bisogno degli altri. Era andato in pensione già da due anni, ma continuava a collaborare come consulente per lo studio che aveva contribuito lui stesso a creare. In realtà, si era scherzosamente lamentata lei nei primi tempi, lavorava quasi più adesso che quando non era in pensione. Lo chiamavano continuamente, sembrava che non potessero fare a meno di lui.
– Anch’io non posso fare a meno di te – gli diceva. Ma sapeva quanto amava quel lavoro, quanto amava stare in mezzo alle persone, e non era mai stata possessiva. Non avrebbe voluto diventarlo adesso.
Una sera le raccontò lo scherzo che avevano fatto ad un collega molto più giovane. Sua moglie aspettava un bambino, aveva appena fatto un’ecografia, e lui non aveva potuto accompagnarla all’ospedale, ma aspettava i risultati con ansia. Si erano messi d’accordo con il fratello di sua moglie, che gli aveva telefonato, fingendo di chiamarlo dall’ospedale, e gli aveva detto con aria candida che lei aspettava sei gemelli.
– Avresti dovuto vederlo – disse, scoppiando in una risata. – Era bianco come un lenzuolo, ha cominciato a balbettare, “ma io… ma noi… no-non ce lo possiamo permettere! S-sei? N-non è possibile! Alla fine ha visto noi tre che sghignazzavamo senza ritegno, e l’ha capito, e allora è diventato verde. Ha cominciato a dirgli di tutto per telefono: “Razza di stronzo incosciente, e imbecille anch’io che ti sto anche a sentire!” Alla fine però si è messo a ridere anche lui.
Persino Viviana sorrise.
Erano passati diversi giorni da quando era andata a parlare con il dottor Giuliani, e ancora non gli aveva riferito le parole del medico. Era sicura che lui la pensasse come lei, eppure… era un uomo, magari avrebbe pensato che sarebbe stato meglio per tutti, gli uomini hanno sempre strane idee su come si protegge una donna, hanno strane forme di orgoglio e di pudore e di coraggio. Ma lui la conosceva, doveva sapere che anche lei aveva coraggio, e ne avrebbe avuto di più se lui le fosse rimasto vicino. Aveva promesso di essere obiettiva, di non influenzarlo, di limitarsi a riferire quello che aveva detto il dottore. Non ne aveva la forza. Avevano cucinato insieme – lui cucinava molto meglio di lei, a parte quel paio di cose che sapeva fare, per il resto più che altro gli faceva i lavoretti noiosi ma necessari, tipo sbucciare le patate, tritare l’aglio, predisporre le pentole secondo le sue indicazioni. “Vieni che ti faccio un po’ da sguattera” gli diceva spesso, scherzando. Non glielo aveva più detto, in quei giorni. Non le sembrava neanche normale cucinare, aveva dovuto in qualche modo accettare di dover continuare a fare le cose quotidiane di sempre, aveva dovuto accettare che non solo lui doveva mangiare, ma anche lei, benché in un certo senso il pensiero la disgustasse. Dopo qualche giorno aveva ricominciato ad abituarcisi. Era come se dovesse imparare di nuovo, a mangiare, a parlare con lui, a rannicchiarsi contro di lui, la sera, a letto. Tutto.
Dopo lavarono i piatti, li asciugarono, riordinarono la cucina, sempre senza dire una parola, finché Fabrizio non fu più in grado di continuare a far finta che entrambi stessero pensando ad altro, e che non avessero niente da dire. La prese per mano, la portò in camera, si sedette sul bordo del letto accanto a lei, la costrinse a guardarlo negli occhi. Le mani di lei erano fredde, e lui le strinse tra le sue.
– Ascolta amore mio, che cosa vuoi che faccia? D’accordo, è impossibile comportarsi come se niente fosse, non è questo che ti chiedo. Ma che cosa vuoi che faccia? Un anno è breve, ma può essere anche molto lungo. Io… – D’improvviso le stava accarezzando le labbra, e non sapeva nemmeno che lo stava facendo. Lei si ritrasse d’impulso, e lui scosse la testa, dolcemente, continuando a guardarla. Poi l’abbracciò, lasciò che poggiasse la testa contro la sua spalla, e le accarezzò i capelli, a lungo, finché non sentì il suo corpo perdere quella rigidità che non le era mai appartenuta, e ammorbidirsi. Solo allora tornò a guardarla, e lesse nei suoi occhi che aveva capito.
Ancora, però, Viviana non riusciva a smettere di pensare a Marco, a quando lo aveva visto in ospedale, negli ultimi giorni della sua vita, intorno a sé solo malattia e sofferenza, le visite cadenzate dagli orari, nessuna possibilità di aprire la finestra, se mai avesse voluto farlo, o di decidere quando mangiare, quando dormire, con chi parlare… era questo che sarebbe successo a Fabrizio? Sentiva di non poterlo sopportare una seconda volta. Aveva capito, sì, per una volta più di quanto Fabrizio pensasse. Non poteva sopportare l’idea che lui volesse stringerla tra le braccia, accarezzarla, come aveva appena fatto, e si ritrovasse da solo in un letto di metallo bianco, con la consapevolezza che in quel letto sarebbe morto.
Non doveva piangere, non doveva piangere. Doveva trovare le parole, se fosse riuscita a parlargli forse non avrebbe pianto, sarebbe riuscita a essere obiettiva, sarebbe riuscita a convincersi che davvero potevano fare di più di quanto potesse fare lei.
– Riccardo dice che dovresti curarti in ospedale. Mi ha detto che te ne ha parlato, ma tu non hai voluto ascoltarlo. – Alla fine non aveva trovato le parole che cercava, e aveva scelto uno strano momento, mentre lui continuava a tenerla stretta, quasi che cercasse ancora di proteggerla, come probabilmente era. Ma non era mai stata brava a scegliere né le parole, né i momenti.
Fabrizio ebbe un sorriso strano, in parte ironico, in parte stanco e tirato.
– Probabilmente lo pensa davvero – disse. – Ma non mi sembra che ti abbia convinto, e non ha convinto neanche me.
Come aveva potuto anche solo lontanamente pensare che non se ne sarebbe accorto?
– Io… io non lo so. Forse ci sono delle cure che a casa non… Se c’è la possibilità che tu possa…
– Vi, tu mi conosci. Non voglio dirti che sia stato facile, ho passato qualche brutto momento, e probabilmente ce ne saranno altri. Ma non mi interessa vivere qualche mese di più, fosse un anno o magari due anni di più, lontano dalla mia casa, lontano da te, solo perché una macchina respira al posto mio, e mi fanno delle flebo per nutrirmi, e non so che altro. Forse più avanti, se il dolore diventasse davvero insopportabile, se dovesse diventare troppo pesante per te…
Adesso Viviana piangeva. Era atroce sentirlo parlare in quel tono quieto di cose a cui lei non riusciva neanche a pensare senza un moto di orrore. Ma suo malgrado, c’era anche sollievo in quelle lacrime. Lui ebbe un pensiero improvviso.
– A meno che poi questo non abbia delle conseguenze per te, che possano accusarti di qualcosa…
– Riccardo ha detto che è possibile. Non ne so niente di queste cose, forse se tu fossi… non fossi in grado di decidere, sarebbe diverso. Ma non è così, e se è solo per questo, non me ne importa niente. Difenderò la tua e la mia libertà di scelta, il tuo diritto di stare con me e il mio diritto di stare con te, qualunque cosa succeda.
Fabrizio annuì. Sapeva che niente l’avrebbe indotta a cambiare idea. La possibilità che ci fosse da affrontare una battaglia sembrava persino averle ridato forza. Era pur sempre la sua Viviana.
– Grazie – disse piano. E poi la baciò, con tenerezza infinita.
Dopo, andò a telefonare a Elisa, per invitarla a pranzo per domenica, con Andrea. Si sarebbe stupita, ma non troppo. Lui aveva molta considerazione per Andrea, e il fatto che rendesse Elisa così evidentemente felice non poteva che renderglielo più caro.
Quando tornò, Viviana lo aspettava. Questa volta, quando cominciò ad accarezzarla, non si ritrasse. Adesso aveva ritrovato i gesti e le parole giuste. Attirò il viso di lui contro il suo con una specie di slancio impetuoso. Lui sapeva che c’era anche angoscia, in quei gesti, ma l’unico modo che aveva, adesso, per placare quell’angoscia, era il calore della passione, che come un ferro incandescente avrebbe potuto fondere il corpo di lei nel suo, come era accaduto altre mille volte, come un dolce veleno che passasse dall’epidermide, scorresse nel sangue, ma portando, invece del suo potere malefico, una linfa vitale. Solo così lei avrebbe potuto sentire che lui le dava se stesso, senza nessun confine, con una volontà che annullava ogni altra, l’unica che gli importasse, per cui non aveva nient’altro da chiedere.
Gli piaceva, quel modo che aveva sempre avuto di nascondere la testa nel suo petto, mentre facevano l’amore. Ma adesso voleva guardarla. Non c’è niente di più intimo che guardare il viso di una donna nel momento in cui si lascia invadere, senza nessuna barriera, da un corpo che è nello stesso tempo estraneo e vicinissimo, il mistero che è lasciare che qualcuno possa impadronirsi di te penetrando in ciò che è più tuo, più personale al mondo, e provando piacere per questo. La libertà di assoggettarsi, un nodo più stretto di qualunque altro.
– Ti amo talmente tanto – le disse, dopo. Adesso lo sapeva che quel cerchio, il cerchio invisibile e invalicabile con cui lo aveva da tanto tempo legato a sé, non l’aveva costruito lei, ma se l’era creato da solo, e non lo avrebbe distrutto per nessuna ragione al mondo.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – V

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Ci sono infiniti modi di fare l’amore con una donna. La stessa donna. Non è una questione di posizioni, o di strane fantasie, anche se possono entrarci anche quelle. Cambiano ogni volta i ritmi, i gesti, le parole dette o non dette. Non potrà mai succedere esattamente la stessa cosa due volte. Quello che lei gli lasciava fare col suo corpo era stupendo. Amava vedere i piccoli brividi sulla sua pelle, le labbra schiuse, ogni movimento con cui sembrava voler aprire il suo corpo di più, abbandonarsi di più. Lui poteva cambiare il ritmo del suo respiro, poteva sciogliere il suo corpo in fuoco liquido, trasformare la sua voce in un gemito roco eppure stranamente musicale, che ogni volta lo faceva impazzire. Gli dava quel potere sul suo corpo, ma si appropriava dello stesso potere su quello di lui. Ogni volta credeva che non avrebbe potuto sentire niente di più grande o di più forte, e ogni volta quando entrava in lei era come se milioni di scintille lo riscaldassero e lo illuminassero, stelle cadenti, un pezzo di cielo precipitato sulla terra.
Non era facile fermare quella sua vita frenetica, quel suo tempo pieno di cose e di pensieri, sempre dietro a qualcosa che doveva fare, o alla paura di aver dimenticato qualcosa. I bambini da andare a prendere in piscina, una sentenza da scrivere per il giorno dopo, la cena da preparare. Non lasciava mai che la fretta le impedisse di prendersi per l’amore tutto il tempo che voleva, ma dopo, dopo era una fatica trattenerla dal fuggire, anche quando in realtà non era strettamente necessario.
Ma questo era uno di quei rari, deliziosi momenti in cui aveva deciso di prendere per sé – per loro – un tempo indefinito, ore di ozio che potevano passare parlando, andando al cinema, cucinando e cenando insieme, la sensazione che non ci fosse solo un pomeriggio e una sera, da trascorrere con lei, ma che stessero vivendo in uno spazio senza tempo, o con un tempo sospeso, e avrebbero potuto scegliere milioni di cose da fare, e farle tutte. Era bellissimo anche solo quello, immaginare quelle cose insieme, sceglierle, e poi non fare niente, semisdraiati sul divano, lui in pigiama e pantofole, e lei con una vestaglia che le aveva prestato lui, lui a chiedersi se avrebbe conservato sempre quella magia, anche se un giorno la clandestinità avesse lasciato il posto alla quotidianità, e lei a chiedersi per quale strano miracolo poteva impunemente parlare con lui di politica, di lavoro o di cibo, in modo così tranquillo e casalingo, quando un attimo prima lo stesso uomo era stato capace di emozionarla al punto da non sapere più niente di se stessa.
– Fabrizio mi ha chiesto se avremmo voglia di andare da loro domenica a pranzo. – Gli disse a un tratto.
– Con me? – si stupì Andrea. Conosceva Fabrizio e Viviana, li aveva già rivisti diverse volte, in quei due anni in cui in qualche modo la sua vita e quella di Elisa erano state comunque legate. Ma un pranzo aveva qualcosa di ufficiale.
Lei sorrise.
– Paura che il nostro smetta di essere un amore proibito e si normalizzi troppo? – Lo stuzzicò.
In qualche modo gli parve che lei avesse catturato i suoi pensieri. La magia avrebbe resistito alla certezza di ritrovarsi tutte le sere, alla consapevolezza di avere tutto il tempo, senza dover rubare quegli istanti dando loro l’intensità delle cose rare? Ma essere accettato così, con piena naturalezza, come un dato di fatto, gli dava un rimescolio nelle viscere che somigliava molto alla sensazione di calore del primo innamoramento. Forse, dopotutto, avrebbero potuto essere capaci anche di stare insieme per sempre senza normalizzarsi mai. E se c’era qualcuno che poteva, in questo senso, dargli qualche consiglio…
– Beh, è la prima volta. Sono un po’ emozionato. Non è proprio come essere presentato ai genitori della fidanzata, però… e Matteo?
Matteo era incredibile. Oh sì, lo sapeva che aveva capito tutto, anche se non aveva mai detto niente. Lo sapeva che aveva scelto di restare amico di Andrea nonostante. Aveva delle qualità straordinarie, che lei aveva in qualche modo reso invisibili, prendendole per scontate. Era un errore che aveva rischiato di fare anche con Andrea, quando lo aveva trasformato in una specie di eroe, dimenticando le sue qualità di uomo. Il tempo che era passato da allora era stato, per loro, una fortuna. Questo comunque non glielo aveva detto, a Matteo, non gli aveva detto che Fabrizio le aveva chiesto espressamente di venire con Andrea. Era fuori per lavoro, in Francia, solo per pochi giorni, ma chissà. Era quasi sicura che avesse un’altra. O lo sperava.

Qualche foto

Orario estivo come già accennavo, posto un po’ così, a brettio, come diciamo noi a Genova, non chiudo per ferie ma poco ci manca. Anche le foto sono in tema… (e poco impegnative) 😀  C’è solo un’alba, ma non vi dico qual è 🙂

#Quote challenge Day 3 – film

Per ovvie ragioni ho escluso tutti i film con Robin Williams 😀

Concludo quindi, con i miei tempi bradipeschi, questa carrellata di citazioni, ringraziando ancora una volta Mela, Cose da V e Romolo Giacani per questa oportunità di andarmi a rileggere libri, riguardare amate pellicole, riascoltare canzoni che adoro. Ma con questo, non smetterò certo di importunarvi con altre citazioni quando me ne salterà il ticchio 🙂

1. The Shawshank Redemption (Le Ali della Libertà), regia di Frank Darabont, attore: Morgan Freeman (Andy era interpretato da Tim Robbins)

Red (narrating)     I have no idea to this day what those two Italian ladies were singing about. Truth is, I don’t want to know. Some things are best left unsaid. I’d like to think they were singing about something so beautiful, it can’t be expressed in words, and makes your heart ache because of it. I tell you, those voices soared higher and farther than anybody in a gray place dares to dream. It was like some beautiful bird flapped into our drab little cage and made those walls dissolve away, and for the briefest of moments, every last man in Shawshank felt free.

[…]

Sometimes it makes me sad, though… Andy being gone. I have to remind myself that some birds aren’t meant to be caged. Their feathers are just too bright. And when they fly away, the part of you that knows it was a sin to lock them up DOES rejoice. But still, the place you live in is that much more drab and empty that they’re gone. I guess I just miss my friend.

Ancora oggi non so cosa dicessero quelle due donne che cantavano, e a dire la verità non lo voglio sapere. Ci sono cose che non devono essere spiegate. Mi piace pensare che l’argomento fosse una cosa così bella da non poter essere espressa con delle semplici parole. Quelle voci si libravano nell’aria ad un’altezza che nessuno di noi aveva mai osato sognare. Era come se un uccello meraviglioso fosse volato via dalla grande gabbia in cui eravamo, facendola dissolvere nell’aria, e per un brevissimo istante tutti gli uomini di Shawshank si sentirono liberi.

[…]

Certe volte però ero triste pensando che Andy se n’era andato. Ma alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia, questa è la verità. Sono nati liberi e liberi devono essere. E quando volano via ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe dovuto rinchiuderli. Anche se il posto in cui vivi diventa all’improvviso grigio e vuoto senza di loro.

/

 

2. Philadelphia, di Jonathan Demme, attori: Tom Hanks (credo per esclusione che la bibliotecaria fosse Glen Hartell ma non sono sicura)

Librarian:      This is the supplement. You’re right, there is a section on… HIV related discrimination.

Andrew:       Thank you.

Librarian:     We have a private research room available.

Andrew:      I’m fine, thanks

Librarian: Sir, wouldn’t you be more comfortable in a study room?

Andrew Beckett: No. Would it make you more comfortable?

/

Bibliotecaria: Signore? Questo è il supplemento. Ha ragione… C’è un capitolo sulla discriminazione nei casi di AIDS.

Andrew: Grazie, la ringrazio moltissimo.

Bibliotecaria [restando immobile al suo fianco, dopo qualche secondo]: Abbiamo a disposizione una stanza privata per le ricerche.

Andrew: Sto bene qui ,grazie.

Bibliotecaria: Non sarebbe più a suo agio in una stanza per le ricerche?

Andrew: No, forse lei sarebbe più a suo agio.

3. Much Ado About Nothing (Molto rumore per nulla), di Kenneth Branagh, attori: Emma Thompson e Denzel Washington

Don Pedro         In faith lady, you have a merry heart.
Beatrice:            Yea, my lord, I thank it, poor fool, keeps on the windy side of care.
[…]
Don Pedro       Your silence most offends me, and to be merry best becomes you, for out o’ question you were born in a merry hour.
Beatrice:              No, sure my lord, my mother cried. But then there was a star danced, and under that was I born
/
Don Pedro:          In fede mia signora, avete un cuore allegro
Beatrice:              Sì, mio signore, e lo ringrazio, quel mattacchione, di resistere a tutte le burrasche.
[…]
Don Pedro          Il vostro silenzio, mi offenderebbe. A voi si addice di più la letizia, non  v’è dubbio alcuno che siete nata in un’ora gioiosa.
Beatrice:             No. sicuro, mio signore, mia madre soffrì. Ma poi una stella comninciò a danzare, e sotto quella fui concepita.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – IV

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Elisa esaminò la coppia che aveva davanti. L’uomo non aveva un aspetto particolare. Era muscoloso, sotto gli abiti stazzonati ma evidentemente scelti con cura per venire in tribunale. Il viso però era magro, gli occhi scuri che si spostavano sugli oggetti della stanza, la fissavano un attimo, tornavano a fuggire in fretta. Neanche la donna aveva un aspetto particolare, anche se risultava dal fascicolo che avesse un esaurimento nervoso. Teneva quasi sempre la testa bassa, e non parlava molto. Ogni tanto guardava suo marito, ma Elisa non avrebbe saputo dire se approvava quello che diceva o no.
– Mia moglie sta solo passando un momento difficile – disse lui. – Il bambino ha diritto di crescere con noi, siamo noi i suoi genitori. Un figlio deve crescere con i suoi genitori. Non era la prima volta che Elisa vedeva quell’atteggiamento, anzi, succedeva spesso. Era normale, per un padre che rischiava di perdere suo figlio. Ma quella donna aveva cercato di soffocare suo figlio col cuscino. Era stato il marito a fermarla, e adesso rivoleva suo figlio. Il fascicolo diceva che aveva dei precedenti di alcolismo, ma sembrava (sembrava?) essersi rimesso in carreggiata.
Elisa trovava sempre molto difficile capire fino a dove poteva arrivare l’ingerenza di un estraneo, nel decidere se dei genitori erano o meno in grado di gestire il loro bambino. Ma quello le sembrava un caso lampante. Magari si poteva provare con un affido temporaneo, invece che un’adozione, in modo che la coppia non perdesse il diritto di vedere il figlio, e a condizione che la donna si sottoponesse a una terapia, e che il marito non avesse ricadute, c’era sempre la possibilità che presto o tardi potessero restituirglielo.
– Lei non ha diritto di togliere un figlio a sua madre. Se non ce lo lascia ci rivolgeremo ai giornali, e tutti sapranno che a una donna disperata, invece di darle aiuto le tolgono il bambino.
– Vede – cercò di spiegare lei pazientemente – noi dobbiamo pensare prima di tutto a suo figlio, perché è lui la persona più debole. Non credo che voi vogliate che a causa della sua malattia – si rivolse alla donna – suo figlio possa soffrire.
– Mia moglie non è malata! – gridò l’uomo. In un certo senso aveva ragione, non era una malattia riconosciuta, o meglio, c’era ancora molta confusione tra una momentanea depressione e una condizione patologica che poteva avere conseguenze tragiche per chi la subiva e per chi gli stava vicino. Elisa sapeva che i giornali, probabilmente, avrebbero ascoltato la storia dell’uomo, avrebbero accettato la sua versione, e avrebbero gridato allo scandalo, perché non si può togliere il figlio a una povera donna che già soffre. Lo sapeva perché le era già capitato di vedere articoli di quel genere. Non è molto facile accettare l’idea che qualcuno possa decidere che la tua disperazione, la tua angoscia, è così grave da non permetterti di curare tuo figlio. L’idea che a nessun figlio – specialmente a un bambino – si può chiedere di farsi carico di guarire una madre in preda agli incubi. Non era facile neanche per lei, neanche in questo caso, in cui quel figlio era quasi morto. Gli assistenti sociali, i giudici dei tribunali per i minorenni, venivano spesso additati come quelli “che portavano via i figli ai loro genitori”. Ma la realtà era ben diversa. C’erano situazioni che andavano avanti per anni, pezza dopo pezza, tra mille diversi tentativi, pur di non dichiarare lo stato di adottabilità di un bambino. C’erano, certo, assistenti sociali molto rigidi, che prendevano il loro lavoro troppo sul serio, o troppo poco. Così come c’erano giudici che in quanto tali erano presi da una sorta di delirio di onnipotenza, credevano davvero di poter avere in mano la vita e la morte delle persone, come il nano di De André. Ma erano pochissimi. Lei personalmente aveva sentito parlare, tra i colleghi e tra gli avvocati, di un paio di casi, ma non ne conosceva neanche uno.
– Senta, cercheremo di trovare una soluzione, ma voi dovete aiutarci. Noi non siamo qui per togliere i figli a nessuno, però voi dovete dimostrarci che state facendo tutto quello che potete perché quello che è successo non si ripeta mai più. Noi non possiamo far finta di niente, ma per voi è ancora meno possibile. Dovete fare i conti con la realtà, e cercare di cambiarla. Perché suo figlio stia bene, signora, bisogna che prima di tutto sia lei a stare meglio. Si faccia aiutare, lo faccia, per se stessa e per suo figlio. – La stava quasi supplicando, ma non poteva sapere se la donna l’avrebbe ascoltata, non poteva sapere se suo marito, che evidentemente aveva in mano le redini della sua vita, glielo avrebbe permesso. Fortunatamente non era una responsabilità solo sua, c’era tutto un procedimento che avrebbe richiesto la presenza di un pubblico ministero, un avvocato, e alla fine tre persone a decidere. Ma era così stanca… avrebbe voluto chiamare Andrea, per alleggerire un po’ quel peso che non smetteva mai, nemmeno dopo tanti anni, di portare sulle spalle ogni volta che vedeva il dolore altrui, ma sapeva che era in ospedale.
In quel momento, quasi a rispondere a quel suo muto desiderio di parlare con qualcuno, il telefono squillò, ma non era Andrea, era Fabrizio.

A very Merry Un-Birthday to You (to Us)

Non li hai compiuti, sessantacinque anni. Neanche sessantaquattro, del resto. Sono certa che apprezzeresti l’aspetto buffo e ironico di questo mio minuscolo regalo di non-compleanno; ma sentiresti anche profondamente l’amore che c’è dietro. E’ un regalo più per me che per te, lo so. Dicono però che in qualche modo, da qualche parte, tutto ricomincia sempre e io ho una minuscola apertura, più pertugio che finestra, da cui entra quella parte di speranza che s’intestardisce a non lasciarsi schiacciare dalla ragione. Come potrei fare scelte diverse, anche tornando indietro? Ma in un altro tempo, in un altro luogo…
Potrei anche odiarla, l’estate, per averti portato via con sé, ma dopotutto non è colpa sua se hai deciso di morire in questa stagione. E l’amerei comunque, perché in estate sei anche nato, un dono del ventuno di luglio. Luglio, dicono, è ricco di frutti e di succhi, gonfio di spighe piene, prodigo di miele e di resina, dorato di grano e blu di un mare che mostra i suoi abissi, eppure al tempo stesso, di fatto mantiene più densi ancora i suoi segreti, se non per chi li esplora con desiderio e stupore.
Forse è stato questo a darti quella combinazione rarissima, uno sguardo del colore dell’oceano e colmo della dolcezza infinita del miele, solitamente riservata a occhi più scuri; la generosa tenerezza della resina, lacrima d’albero, allegria e malinconia della giornate lunghe, che cominciano ad accorciarsi proprio quando inizia l’estate. E quella luce d’alba sulla Baia, ché tu sulla Baia non ci sei nato, ma si vede che l’avevi dentro già da prima, gocce ballerine sull’acqua al primo sole, e un ponte a unire tutti gli spigoli e le rotondità della vita.
L’estate è una contraddizione, la libertà del mare che contiene in sé tanto il richiamo quanto il timore di orizzonti lontani, l’avventura delle piccole vele che scompaiono allo sguardo, oltre quella linea dove il mondo sembra finire e non avere fine, inghiottire le cose e restituirle a suo piacimento. La verità della sabbia che brucia, la musica delle conchiglie, la pelle indifesa, l’anima interamente scoperta al sole, scottata e accarezzata, senza un solo punto d’ombra per sottrarsi all’imboscata delle finte realtà da divoratori di gossip e di scoop; ma anche senza spazio per nascondersi alla vita com’è; niente maglioni di lana e cappotti a coprire magagne, difetti e qualche capo d’abbigliamento passato di moda. Forse per questo con le tue risate ti sei così tanto esposto, e ci hai esposti a noi stessi, la ragione per cui ti abbiamo amato tanto (e forse la stessa per cui alcuni ancora oggi ti odiano, ma questo è inevitabile, no?).
Strano tempo, per me, in questi giorni. Dilatato. Sono contenta e irrequieta, la tranquillità e il silenzio di questa campagna lasciano tracce in me, ma resto in perenne attesa di qualcosa. Impegni per riempire le ore non mancano mai. Preparativi per le vacanze, lasciare bottiglie d’acqua nei vasi per le piante, ritirare i libri di scuola, cucinare, disabituare gli occhi alle colline per meglio prepararli a una settimana di spiaggia e pineta, lasciare però dentro lo sguardo un ricordo di vallate preappenniniche e di farfalle.
E nei momenti più strampalati, magari mentre sono in coda alla posta, le mie labbra chiedono qualcosa. Non sono inaridite dall’arsura o screpolate, credo sia solo il loro modo di ricordarmi che ho sete, una sete fertile. Chiedono qualcosa, e credo che sia poesia. Parole, in ogni caso. Da inserire in quegli interstizi da cui entrano le correnti più fredde e le più minacciose folate di aria fetida. Perché un mondo in cui Donald Trump può essere una risposta – qualunque sia la domanda – ha ancora bisogno di te (ed è chiaro che parlo di lui soltanto a titolo esemplificativo). Abbiamo bisogno di risate forti, arrabbiate, indignate, furiose, capaci di ridimensionare ciò che ha preso troppo spazio e di abbattere muri, sgretolare finte certezze che terrorizzano pretendendo di proteggere. Abbiamo bisogno di restituire alla paura il suo posto senza spingerla troppo in là dove non le compete. Abbiamo bisogno di ridere per bontà e per amore.

Buon non-compleanno Genio amatissimo, non a te, che comunque non ne avrai bisogno, ma a noi. Che il tuo esserci stato ci sia di buon auspicio.

 

Viaggio nel cuore dell’adozione. Fabio Selini racconta il suo ultimo libro “Io non so ballare il samba”

Oggi per la rubrica sull’adozione vi propongo questo che spero sia un doppio regalo per chi è interessato all’argomento: un libro da leggere (che ho già segnato nella mia wishlist) e un blog da seguire, Scrivendo digitale, scritto da una mamma adottiva e interamente dedicato a quell’argomento, molto approfondito e con tutta l’attenzione che ci si può aspettare da chi è personalmente coinvolto e ha voglia e curiosità di guardarsi in giro, condividere notizie, scambiare opinioni…

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“Io non so ballare il samba” è un libro che ti consiglio, che parla di adozione internazionale e delle grandi emozioni che prendono vita. L’incontro, i primi giorni insieme, i momenti più radiosi e…

Sorgente: Viaggio nel cuore dell’adozione. Fabio Selini racconta il suo ultimo libro “Io non so ballare il samba”

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – III

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Il dottor Enrico Giuliani era stato il medico di Viviana per vent’anni. Quando era andato in pensione, più o meno diciassette o diciotto anni prima, gli era subentrato il figlio, Riccardo. Lo ricordava poco più che ragazzo, adesso era stempiato, aveva la barba quasi completamente grigia, e una figlia fidanzata. Ma aveva la stessa dolcezza nello sguardo, la stessa pazienza nel dedicare tempo a tutti, anche alle vecchiette che andavano lì una volta la settimana solo per chiacchierare un po’ con qualcuno e intanto sentirsi rassicurare che gli acciacchi non avrebbero impedito loro di vivere un’altra settimana.
Quando Viviana entrò, lui si accorse subito che sapeva tutto.
– Alla fine te lo ha detto. – Non era una domanda.
– Alla fine? Da quanto tempo lo sai? – chiese lei.
Il dottor Giuliani avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole che gli erano sfuggite di bocca involontariamente, ma non poteva.
– In realtà non è tanto. Era un po’ che mi parlava di questo dolore al fianco, quasi scherzando, ma ho cominciato subito a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava perché non era da lui lamentarsi di mali inesistenti o di dolori senza importanza. Gli ho detto di fare degli esami, ma era già troppo tardi. L’ultimo è stato un paio di mesi fa, e mi ha confermato quello che temevo. – Nei suoi occhi c’era tutto il dolore per non essersi accorto prima di quello che stava succedendo, per non essere intervenuto in tempo. Ma come avrebbe potuto? Due mesi. Per tutto quel tempo era riuscito a nasconderlo persino a lei.
– Lui mi ha sempre detto che voleva che gli dicessi la verità, e lo sai che anche se avessi voluto nasconderglielo, lo avrebbe capito lo stesso.
Sì, lo sapeva. Lei, invece, non aveva capito, per due mesi gli aveva vissuto accanto come sempre, e lui si era tenuto dentro i risultati inappellabili di quegli esami, la certezza di dover morire, e non le aveva detto niente.
Era pallidissima, sembrava come svuotata di ogni linfa vitale. Certo lui, che l’aveva conosciuta in giorni terribili, non l’aveva mai vista così.
– Forse… forse avrebbe potuto aspettare ancora a dirtelo, lasciarti ancora qualche mese di serenità. – L’accusa era esplicita, e Viviana ebbe una reazione quasi feroce, in parte perché era un’accusa ingiusta, in parte perché doveva tirare fuori, in qualche modo, quella rabbia impotente che non sapeva da dove veniva.
– Lo conosci, sai che non l’ha fatto perché voleva la mia compassione. Io… C’era a malapena un’ombra nei suoi occhi, ma lo conosco da ventotto anni, Riccardo, come volevi che non me ne accorgessi? Ha fatto le analisi, si è tenuto dentro i suoi sospetti, la paura, l’angoscia che deve aver provato, e dopo ancora, per due mesi, io non so, in quei due mesi non so niente di come li ha vissuti, di quello che ha sentito. Non concepisco un documento che ti leghi anima e corpo a un’altra persona, come se potessi cederli a qualcuno, come se fosse una catena che non potrà mai essere sciolta, ma l’amore sì, l’ho amato nel bene e nel male, sono la sua compagna, deve significare qualcosa, questo. Ancora adesso mi guarda nello stesso modo, mi sorride nello stesso modo, e io non capisco, ha il coraggio di un leone, ma dove lo trova tutto quel coraggio?
La voce si era trasformata in una sorta di urlo appassionato, poi in un sussurro, poi si era alzata ancora e si era spenta quando lei non era più riuscita ad andare avanti, il corpo scosso dalla violenza di un dolore contro cui non poteva opporre nessuna volontà e nessuna forza.
– Cosa pensate di fare, adesso? – Le chiese, quando si fu infine calmata un po’.
– Fare? – Non capiva. Che cosa c’era che potesse fare?
– Dovrebbe curarsi in ospedale, lo sai. Ho cercato di dirglielo, ma non vuole ascoltarmi. Forse, se glielo dicessi tu…
Fu allora che Viviana cominciò a capire. Un uomo aggredito da un male incurabile non è più un uomo, è un malato, peggio, un malato senza speranza, un morto che cammina. Era a questo che Fabrizio si era ribellato, pretendendo contro ogni logica (o forse secondo la migliore logica possibile) di rivendicare la normalità della sua vita fino all’ultimo, perché era l’unico modo di non smettere di essere un uomo.
– Potrebbero fare qualcosa? – domandò, e d’improvviso l’antica luce di sfida si era riaccesa nei suoi occhi. Ma una flebile nota di speranza c’era ancora, e lo rattristò, perché sapeva bene che non potevano fare niente, se non prolungargli la vita il più possibile, in una “struttura adeguata”.
Scosse la testa.
– Vorrei dirti che c’è una possibilità, anche una su un milione, ma non posso mentire su questo. Però devi renderti conto che c’è anche il rischio che ti accusino di… di non aver fatto abbastanza, o magari anche peggio. Eutanasia, voglio dire.
– Se c’è una cura, mi dicano cosa devo fare, e lo farò, ma non a costo di impedirgli di vivere la vita che lui vuole, di togliergli la possibilità di decidere, o di allontanarlo dalla mia vita, a meno che non sia lui a chiedermelo. – Era evidente che non lo credeva probabile. – Gli parlerò, perché penso che sia giusto, gli dirò che secondo te sarebbe importante. Ma se lui… se lui dicesse di no, prometti di lasciarci in pace? Prometti di ricordarti che è ancora un… un uomo adulto, nel pieno delle sue facoltà? Sarebbe l’aiuto più grande che potresti darci.
Il conflitto delle ragioni della medicina, e della tranquillità della sua coscienza, con quelle dell’affetto che aveva per Viviana e Fabrizio durò poco. Sapeva che Viviana aveva ragione, sapeva come si sarebbe sentito lui, se qualcun altro si fosse impadronito della sua vita, arrogandosi il diritto di scegliere quello che poteva e non poteva fare. Annuì in silenzio. Lei ebbe un debole sorriso di ringraziamento, poi uscì senza voltarsi indietro.

Altra parte su cui ho più di un dubbio questa: se inserirla o meno, prima di tutto; e anche sul “come”, perché in realtà quando l’ho scritta sapevo poco o niente del fatto che spesso in realtà i malati cosiddetti “terminali” (che parola atroce) non vengono affatto tenuti in ospedale, e di come vengono curati e “sedati”. La sostanza cambierebbe anche abbastanza poco, per me, ma la forma… non ne sono sicura.

50. R.V.


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Cinquantesimo film. Accipicchia. Forse non avrei scelto proprio questo come cinquantesimo, non fosse stato per ragioni strettamente cronologiche.

Regia di Barry Sonnenfeld, la cui foto vedrete anche giganteggiare sul fianco del caravan nelle vesti di Irv il noleggiatore.

Che devo dirvi, so benissimo che la scena iniziale con la piccola Cassie bambina in adorazione del padre narra-storie e inventa-mostri è solo una scusa per dare modo a Robin Williams di fare la sua famosa imitazione di Sylvester “Sly” Stallone e di tirar fuori un altro paio di voci dal cappello, certo non gran cosa rispetto a quello che poteva fare ma pur sempre uno strappa-sorrisi. Carina comunque l’idea di presentare la bimba adorante solo per sottolineare un confronto a cui nessun genitore può sottrarsi, quello tra i bimbi adoranti e adorabili che ci ricordiamo con nostalgia (e dimenticando peraltro in larga parte gli aspetti negativi) quando ci troviamo di fronte adolescenti scostanti, riottosi e con cui non si riesce a comunicare.

Questa, in breve, è la situazione da cui parte Bob Munro, tra iper-lavoro e difficoltà a gestire l’irritabilità dei due giovani virgulti, sta rischiando di estraniarsi. Una vacanza alle Hawaii sembrerebbe l’occasione giusta per sistemare un po’ le cose, ma il presidente della società per cui lavora lo costringe ad annullare il viaggio per presenziare a una riunione di lavoro. Destinazione: Boulder, Colorado (vi suona un campanellino?). Allora Bob pensa bene di cercare di salvare il salvabile proponendo alla famiglia (senza spiegare le ragioni dell’improvviso cambiamento) un campeggio in caravan appunto tra le Rocky Mountain del Colorado… Ovviamente, nessuno di loro avendo alcuna esperienza di campeggio, l’impresa si rivelerà molto più ciclopica del previsto.

Ho qualche idea che questo sia uno di quei tre, quattro film che Robin ammetteva di aver fatto più che altro per bisogno di soldi. Qualche caduta di stile c’è e certo non deve aver accettato perché entusiasta della storia o della sceneggiatura. Però devo dire che mi sto divertendo da matti. Purtroppo non sono riuscita a vederlo tutto perché a un certo punto si incanta (quindi vi prego, non ditemi come va a finire 😀 ). Ero anche indecisa se farla, la recensione, ma tutto sommato mi pare di essermi fatta abbastanza l’idea. Demenziale, a tratti un po’ becero, richiede per poterselo godere al meglio di lasciar andare qualche freno, tornare un po’ bambini, levarsi per un momento di dosso qualunque patina di eleganza, finezza e classe possiate aver sviluppato nella ricerca di pellicole artistiche. Dopodiché, potrete spanciarvi dalle risate comodamente sulla poltrona, vergognandovi il giusto soltanto in un secondo momento. O anche no.

La metà di mille

Non so se è un detto comune a tutti, ma dalle mie parti per dire “siete davvero tanti” si dice “siete la metà di mille”. Ecco, adesso posso dirlo letteralmente, siete proprio, proprio tanti. La metà di 1000!
Che altro posso dire se non un grazie stragrande, date vita e senso al mio scrivere!
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