A little spark of madness / Una scintilla di follia

Finalmente ho scoperto da dove proviene questa citazione che già amavo tanto e adesso anche di più. Riesci sempre a sorprendermi e sei ancora sempre l’unico che sa farmi ridere e piangere nello stesso momento.

You young people don’t remember the old times. I remember World War III, all forty-five seconds of it. […] You see what I mean, you’ve got to be crazy. It’s too late to be sane. Too late.  You’ve got to go full tilt bozo. You’re only given a little spark of madness, Keep some madness in you, yes, just a little touch of it. Just enough so you don’t become stupid. if you lose that, you’re nothing. Don’t. From me to you, don’t ever lose that, ‘cause it keeps you alive. That’s my only law. Crazy. Because there’s no way any government in the world can handle madness, Because you’ve got to fly above it all. Remember angels, they have wings ‘cause they take themselves lightly*. You know, there was an old crazy dude who used to live a long time ago, his name was Lord Buckley**. And he said, a long time ago, he said, ‘People: they’re kinda like flowers, and it’s been a privilege walking in your garden.’. My love goes with you.

 

Voi giovani non ricordate i vecchi tempi. Io mi ricordo della Terza Guerra Mondiale. Tutti i quarantacinque secondi. […] Capite cosa voglio dire, dovete essere folli, è troppo tardi per essere sani, troppo tardi. Dovete saper andare completamente, energicamente via di testa. Vi è data solo una scintilla di follia, conservatene un po’ dentro di voi, appena appena, quel tanto di pazzia che serve a non diventare stupidi. Se perdete quella scintilla, non siete nulla. Non fatelo, detto tra noi, non la perdete mai, perché vi tiene in vita. E la mia unica legge. Pazzi. Perché nessun governo è in grado di gestire la pazzia. Perché dovete volare al di sopra di tutto. Pensate agli angeli, loro hanno le ali perché si prendono alla leggera*. C’era un vecchio matto che viveva tanto, tanto tempo fa, si chiamava Lord Buckley**. E lui diceva, un sacco di tempo fa, diceva ‘le persone sono un po’ come i fiori, ed è stato un privilegio camminare nel vostro giardino’. Vi voglio bene. [certo, l’originale ‘il mio amore viene via con voi/vi accompagna’ è più bello].

* è una citazione da Chesterton

** in realtà un comico noto negli anni ’40 e ‘50

Il tutto è tratto da Reality What a Concept, o meglio, prevalentemente da Live at the Roxy, che era una delle tappe della stessa tournee, con qualche piccola aggiunta dal disco in mio possesso, registrato al ‘Copacabana‘ di New York e al ‘Boarding House’ di San Francisco. 

#Cinema anni ’20: Cinderella Cinders (e di come per la prima volta io abbia sentito parlare di una grande attrice comica del cinema muto)

Davvero una faccia incredibile, come recita lo slogan promozionale. Alice Howell è stata paragonata nientemeno che a Charlie Chaplin e io ignoravo beatamente la sua esistenza. E’ stato soprattutto un sollievo vedere una donna a cui non veniva neanche in mente di aggrapparsi a tendaggi e ringhiere e men che meno di svenire. Non dirò che ho riso (sapete quanto sia difficile in proposito e ridere con un film muto sarebbe quasi inconcepibile per me) ma questa signora mi è decisamente simpatica e mi è venuta voglia di saperne di più. L’accompagnamento musicale l’ho trovato fantastico. Molto jazz, ecco, mi viene da definirlo un piccolo film jazz (solo 23 minuti),

Fino al mare

Quest’inquietudine non si placa, so che ha a che fare con te perché mi tremano le labbra, ma non so in che modo c’entri; ascolto ma non sento quello che mi chiedi, resta qualcosa in sospeso al di sopra della vita, scrivo, mi immergo nelle cose ma c’è questa distanza come di chi fa non tanto per fare ma per osservare ciò che ha fatto. Finisco una poesia e l’inquietudine non si quieta, non si quieta, è un dolore dolce ma talvolta lacerante questa ricerca infinita, Non c’è forse poi questo gran spazio tra l’immaginazione e la realtà, ma c’è uno spazio immenso tra i desideri e la vita. E’ anche uno spazio di libertà, quello in cui il vento muove gli aquiloni, altrimenti non sarebbero che inutili pezzi di carta colorati, e non i sogni leggeri che cambiano il cielo. Ti sembra allora che la poesia valga qualunque pena, che il prezzo non sia mai troppo alto, anche se quello è poi lo spazio da cui si intrufola l’idea della nostra insignificanza, dell’insoddisfazione perenne, l’insensato correre dietro alle cose come Bianconigli solo perché sappiamo che nulla sarà mai abbastanza. Che ci vorrebbe l’eterno, l’infinito, siamo zeppi di “intanto”, di “frattempi” e dio se certe domande fanno male e non basta averle in comune per liberarsi dello struggimento. Non è forse per questo che parliamo con i morti e facciamo bungee jumping, lanciandoci da un grattacielo o da una parola? Continua a bussare, tu non smettere, fino a che si sbricioli anche l’ultimo muro. La parola Sconfinato è la più vicina a libero, sono sicura che lo pensi anche tu.

Fino al mare

Il mio cuore è un gatto che sonnecchia al porto,
tra le immobili navi e le reti e d’improvviso
con balzo felino scatta, come avesse visto
qualcosa che nessun altro vede:
un’acciuga, un tramonto, un amante distratto.
Il mio cuore invecchia piano,
ma ad ogni amore ha un anno in meno,
ad ogni memoria cammina con passo più svelto
è un gatto tranquillo, il mio cuore
ma talvolta con mossa inattesa
lo vedi correre verso il mare o in cerca
di un luogo che solo lui conosce,
un’inquietudine d’altrove,
un arcano cercarti in insoliti indizi
un ponte tra le mie labbra e il tuo silenzio.
Farei naufragio, se tu fossi un’isola.
Dove sei mio mare, mia nave, mio capitano?
Dove può raggiungerti la mia bocca tremante
d’infinite cose rimaste sulla soglia?
Adesso è notte, il mio gatto dorme,
lui non ha paura delle stelle, ha fatto tana
nell’incavo più scuro di una strada deserta.
Domani correrà ancora, ti amerà
come si ama chi ci nutre, il tronco
a cui ci aggrappiamo per salvarci,
la musica di ogni isola su cui sfiniti approdiamo,
o le tue orme sulla sabbia, fino al mare.

#Cinema anni ’20: Ernst Lubitsch – Anna Boleyn

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Proseguendo nel mio fantastico viaggio nei film del 1920 mi sono imbattuta in Lubitsch, e precisamente in Anna Boleyn. Avendo molto amato Ninotchka sono stata doppiamente incuriosita e infatti non sono rimasta delusa. E’ davvero bello, con una storia che si segue benissimo (anche per me che sono partita con un notevole pregiudizio nei confronti del muto, proprio perché senza le parole la mia capacità di comprensione si riduce drasticamente) ed è anche appassionante. Gli ingredienti del resto c’erano già tutti nella vera storia, per quanto esagerata dai nemici del casato dei Tudor: amori clandestini, un re che si liberava delle sue mogli con considerevole leggerezza, una figlia resa illegittima dall’annullamento del matrimonio tra Henry VIII e Anna, motivato anche con accuse di stregoneria (non riportate nel film). Vale anche la pena ricordare che quella figlia, dopo varie vicissitudini, sarebbe diventata una delle più grandi regine della storia, in qualche modo vendicando la madre (anche di questo non si parla nel film, che finisce con la condanna di Anna Bolena). Pare, ma ancora una volta Lubitsch sorvola, che una delle ragioni per cui il matrimonio finì per guastarsi nella realtà fosse l’eccessiva intelligenza e l’acume politico di Anna, doti che evidentemente trasmise alla figlia (per quanto anche Enrico pare fosse molto accorto politicamente, e non semplicemente un satiro avvinazzato e dedito alle gozzoviglie come spesso viene dipinto – anche in questo caso). Qui Pola Negri nel ruolo di Anna riesce a dare l’idea di una donna combattuta tra l’amore romantico, forse un’infatuazione in realtà, per il bel Henry Norris e la lusinghiera corte del Re, la possibilità di essere regina d’Inghilterra. Assume però poi il ruolo di regina, moglie e madre con una certa compostezza (per i canoni dell’epoca, e probabilmente le espressioni più eccessive erano necessarie proprio per compensare l’assenza del parlato, facendo comprendere in altro modo le emozioni provate dai protagonisti). Naturalmente, ogni tanto si appende a qualche ringhiera o a qualche tenda, ma questo per i ruoli femminili dell’epoca era inevitabile come gli svenimenti. Emil Jannings è un Enrico VIII quasi luciferino, fedele all’impietoso cliché di cui si diceva e al tempo stesso non privo di un certo fascino, che rende credibile il suo ruolo di seduttore, per quanto i suoi eccessi tendano a ridicolizzarlo e farne una figura in buona misura caricaturale, benché temibile nelle sue collere improvvise e spesso ingiustificate.

Ernst Lubitsch (1892–1947) was a German American film director, producer, writer, and actor. His urbane comedies of manners gave him the reputation of being Hollywood’s most elegant and sophisticated director; as his prestige grew, his films were promoted as having “the Lubitsch touch”.

In 1946, he received an Honorary Academy Award for his distinguished contributions to the art of the motion picture (he had gained more than one nomination during his life).

Among its most renowned works are classics of the silent cinema such as Anna Boleyn (Deception), Madame du Barry (Passion) and Carmen (Gypsy Blood): all three were in the New York Times list of the 15 most important movies of 1921. After the advent of talkies, he became known for musicals such as The Love Parade, Monte Carlo, The Smiling Lieutenant and The Merry Widow, and for comedies, the most important being Ninotchka with Greta Garbo and Melvyn Douglas (famously promoted with the tagline Garbo laughs!, as she was known for her serious roles). Other later movies were The Shop Around the Corner (starring James Stewart and Margaret Sullivan), with a plot that – I noticed – curiously resembled that of You’ve Got Mail, before finding out that this latter is in fact a remake; To  Be or Not to Be; Heaven Can Wait.

(text adapted from Wikipedia)

Ernst Lubitsch (1892-1947) è stato un regista, produttore, sceneggiatore e attore di origine tedesca, naturalizzato americano. Le sue garbate commedie di costume hanno fatto sì che fosse conosciuto come il regista più elegante e sofisticato di Hollywood; raggiunse un tale prestigio che per promuovere i suoi film si faceva riferimento al fatto che avessero il “tocco di Lubitsch”.

Vinse un Oscar alla carriera nel 1946 per il contributo dato all’arte cinematografica (ed ebbe più di una nomination nel corso della sua vita).

Tra i lavori più noti, alcuni classici del muto come Anna Bolena, Madame Du Barry Carmen, tutti e tre inclusi nella lista del New York Times dei film più importanti del 1921. Dopo l’avvento del sonoro, divenne famoso per alcuni musical come Il Principe Consorte, Montecarlo, L’allegro tenente La vedova allegra, oltre che per le commedie, la più importante delle quali è Ninotchka, con Greta Garbo e Melvyn Douglas (pubblicizzata con il famoso slogan “la Garbo ride”, in quanto l’attrice era nota per i suoi ruoli drammatici). Tra i film successivi, Scrivimi fermo posta ha una trama di cui avevo notato che ricordava curiosamente quella di C’è posta per te, prima di scoprire che quest è in effetti un remake di quello; Vogliamo vivere! Il cielo può attendere.

Robin’s Monday – Stand-up 1: Reality What a Concept

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I wonder what chairs think about all day. “Oops, here comes another asshole.”

Diretto da: Brooks Arthur e Neil Bogart.
Scritto da: Robin Williams.
Registrato dal vivo al Copacabana, New York e al Boarding House, San Francisco

Avendo esaurito gli oltre settanta ruoli cinematografici interpretati e le sue performance teatrali, non avrete mica pensato che la vita di Robin fosse tutta qui, vero? Anzi, direi che stiamo lentamente arrivando a quello che almeno per me è il clou, l’aspetto che amo più di ogni altro e che ha nello stand-up e nelle video-interviste la sua massima espressione: la sua meravigliosa capacità di creare un contatto, di cercare e trovare relazioni e non semplicemente un pubblico. Mettendosi in gioco persino troppo, ma è quello che lo rende unico. Molti sanno delle sue straordinarie doti di comico e improvvisatore, ma non tutti, specialmente qui in Italia (in America direi che è tanto conosciuto e amato come comico quanto come attore, se non di più, ed è principalmente per quell’aspetto che è comunemente ritenuto un genio). E ancora meno forse sono quelli che sanno quanto amasse proprio quella parte creativa del suo lavoro.

I ruoli cinematografici gli permettevano di scavare a fondo dentro di sé – talvolta anche di divertirsi moltissimo, ma sempre entro certi limiti ben definiti. Lo stand-up era la libertà, la possibilità e il rischio di essere a diretto contatto con il pubblico e di non avere limiti. La “tensione e l’eccitazione di essere sempre sul filo del rasoio”, l’aveva chiamata un critico. Se ricordate, avevo scritto di quando gli avevano chiesto, un giorno, dove cominciava il cattivo gusto in comicità, qual era il confine, quando era bene fermarsi. La sua risposta era stata quando nessuno ride. Il che nel suo caso non era e non è mai successo, neppure agli inizi, nei club semi-sconosciuti di Frisco e della California. Pubblico difficile, ma lui lo ha conquistato sempre. A caro prezzo, a volte. Ma sempre con quella serenità di fondo che un giornalista aveva saputo cogliere perfettamente, e con un coraggio che era considerato una delle caratteristiche fondamentali della sua comicità.

Brooks Arthur è stato in seguito il regista anche di A night at the Met, grandissimo spettacolo di comicità stand-up. Parte del materiale contenuto in Reality What a Concept è stato riutilizzato in show successivi, benché non ne esista uno uguale all’altro, neanche nella stessa tournée. Non c’è alcun video, solo un LP con l’audio e naturalmente questo fa perdere gran parte del divertimento e non rende giustizia al talento di Robin, ma per completezza andava citato, essendo il primo lavoro di un certo rilievo e il primo album comico registrato quando già era Incredibilmente Famoso, per dirla con le parole di uno degli innumerevoli colleghi che ha in vari modi aiutato (in questo caso chiedendogli di fare l’accompagnamento musicale) semplicemente per generosità. L’invidia era estranea al suo modo di essere al punto da non sapere neanche cosa fosse (e da non sapersene difendere a fondo, in alcuni casi).

Le informazioni sono tratte dal Fansite

Pensieri su un progetto che sta partendo

Ho capito che a volte, sotto la discrezione si nasconde un lasciare le cose un po’ vaghe per potermi poi permettere di tornare indietro, fare in modo che i sogni restino sogni e non diventino mai progetti. Forse perché in questo modo posso continuare a pensare che “se davvero avessi portato a termine” quello che avevo immaginato, sarebbe stato perfetto. Non mi sarei scontrata con gli errori, le paure, le testate contro i muri, la voglia di rinunciare, la fatica. Tutto avrebbe mantenuto l’immacolata bellezza dell’impossibile, o comunque dell’irrealizzato. E invece no, adesso voglio essere concreta. Oggi parlerò in modo chiaro del mio sogno, che lentamente ma costantemente si sta trasformando in progetto, e progetto realizzabile.

Lo sapete quanto amore ho per l’inglese, tanto, ma proprio tanto. E voglio insegnare. Da sempre, ma dai tempi dell‘attimo fuggente di più. Sono tra quelle centinaia di migliaia influenzati, qualcuno forse direbbe irreparabilmente danneggiati da… no, non dalla scena del tavolo (tra l’altro ho una confessione da fare: la adoro, ma quella della passeggiata nel cortile mi piace ancora di più). Quella non è stata che un modo memorabile di rappresentare qualcosa che vale per qualunque impresa in cui ci buttiamo, sempre che lo facciamo con passione e incoscienza, ovviamente. EsserciEssere in quello che facciamo, non per cambiare le cose, ma per non lasciare che ci cambino. Per fare in modo che chi vuole possa trovare in noi non solo qualcuno a cui fare domande e da cui imparare, ma qualcuno che c’è e nel quale se si vuole (sottolineo se si vuolesi possa trovare ispirazione per compiere grandi cose, diceva il Teddy Roosevelt di Robin; lui poteva permettersi di essere presuntuoso, ma io so che queste grandi cose sono semplicemente le nostre scelte. Quando noi siamo dentro una cosa che facciamo, anche preparare una torta di mele diventa una cosa straordinaria. Se lasciamo indietro il nostro modo di essere per inseguire qualcosa che è al di fuori, allora non c’è più niente di grande, neanche nell’essere presidenti di una nazione.

Come al solito mi sono fatta prendere la mano, e meno male che volevo essere concreta. Ma tornando al nocciolo, ecco, volevo dire che da settembre avrò uno studio tutto mio, continuerò a tradurre ma darò anche vita a quei corsi di inglese ai quali sto pensando da anni, e uso “dare vita” non a caso, perché li voglio vivi, intensi, voglio tornare a provare entusiasmo per quello che faccio. Non voglio (più) cambiare il mondo, voglio divertirmi e giocare, anche insegnando l’inglese ai professionisti. Si può, e oggi voglio pensare solo che ce la farò. Sono partita da qualcosa di molto più piccolo di quello che la mia immaginazione avrebbe creato, ma molto più grande del niente. E’ un punto di partenza. Ho paura. Ma la mia ispirazione è da tanto tempo che l’ho trovata, ora si tratta solo di mantenere la testa tra le nuvole, riappoggiando sulla terra i piedi… e lasciandomi comunque uno spazio perché possano ogni tanto decollare anche quelli.

Parlando di tranquillità e di equilibrio…

Si parlava di crearsi angoli di tranquillità e di equilibrio… ecco, questo doveva essere un weekend di relax, niente lavoro dopo dieci giorni di delirio. La campagna, la primavera, i primi fiorellini in boccio, la pace, il cuore che canta… no, vabbè, quella ero io ma non è che cantavo, ululavo per il male perché da ieri sera sono stata in preda a coliche addominali lancinanti. Un po’ sapevo di cosa si trattava quindi non mi sono proprio spaventata, però in certe situazioni uno un po’ ipocondriaco lo diventa. Comunque ho vinto io. Stasera sto bene (incrocio le dita), vi posto qui una citazione dal libro che sto leggendo (da un po’, ma che ci vogliamo fare, è un periodo così) e poi dopo mi metto a guardare un altro film del 1920. E se poi mi deprimo troppo, torno sul moderno e al mio Robin che ha il potere di tirarmi su di morale sempre. Anche quando piango.

“Nel Principio speranza” Bloch dice che la Heimat, la patria, la casa natale che ognuno nella sua nostalgia crede di vedere nell’infanzia, si trova invece alla fine del viaggio. Quest’ultimo è circolare: si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. Ulisse torna a Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l’avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se egli non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con maggiore autenticità”. (Cluudio Magris, L’infinito viaggiare, Oscar Mondadori).

E noi sappiamo, aggiungo io, che Itaca non è necessariamente un luogo esterno, Itaca è la nostra casa interiore, possiamo trovarla ovunque, nella nostra città natale o altrove, ma è proprio perché Itaca siamo noi, è la nostra anima come potremo conoscerla solo alla fine del viaggio, che per trovarla bisogna prima smarrirsi, allontanarsene per riuscire a guardarla da fuori e riconoscerla.

SABATOBLOGGER 49 – I blog che seguo

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Silvia’s Wanderlust Passioni svariate, molto entusiasmo: i libri, la storia, l’arte, la musica, il teatro, conoscere e sapere, ma soprattutto i viaggi. La curiosità in questo senso ci accomuna sicuramente, io trovo che una delle ragioni della bellezza della vita è proprio il fatto di poter imparare sempre qualcosa di nuovo… e viaggiare, naturalmente. Sono d’accordo, leggere non basta, quando si tratta di viaggi, al più può alimentare la voglia di vedere un luogo coi tuoi occhi. Quindi lasciatevi portare dall’immaginazione, dalle fotografie, dalle descrizioni di luoghi esotici o vicinissimi, che sia la LapponiaBudapest o l’l’Umbria o qualunque altro punto di partenza da cui costruire il vostro viaggio!

Mumaclo è “disordine ordinato. Un contenitore di pensieri. Ogni colore al suo posto. Sempre. Il posto che lui stesso sceglie.” Una spremuta di frutta, “luminosa e non troppo fredda”. Colori, “pastelli gustosi, caldi, affatto severi”, e un tramonto che non è la scomparsa del sole ma il preludio di un giorno nuovo, che comunque arriva, “il giorno che ci rincorre nella testa, che ci chiama e non ci lascia. Il giorno del domani del quale v’è pur sempre certezza, ovunque tu sia, ovunque sia.” Contano tutti i colori che compongono il nostro quadro, il passato, compresi  I piccoli ricordi del febbrone,  il presente, perché ogni “oggi” è un oggi diverso, Ogni oggi ha un colore. Il futuro meno, ma solo perché quello che davvero conta è lavorare “oggi” perché i progetti entrino a far parte del nostro presente. E oggi può sempre essere il giorno in cui, come in Mara, il marasma ed il mare, qualcuno supera le sue paure, la sua fretta di ricucire gli strappi secondo le esigenze altrui, smette, di ragionare, ascolta solo il suo marasma e ti porta al mare.

Supercalivegge mom racconta le “avventure di un(‘a)tipica famiglia italoamericana in California” (il blog è in italiano, meglio specificare, anche i post con titolo in inglese). Oh, ho iniziato a seguirlo in tempi non sospetti, quando ancora non sapevo che un giorno avrei voluto trasferire anche la mia famiglia (a)tipica in California e del resto ancora non so se succederà, ci sto lavorando, ma è chiaro che mi è nato un tale amore per quel luogo che tutto ciò che me lo ricorda assume subito un significato speciale. Speciale poi davvero è questa famiglia, ma potete anche pensare speciale come tutte le famiglie normali. Non proprio, però. Come tutte le famiglie normali in cui si fa una fatica boia e non si molla mai, ecco. Che sono tante, tante da essere, appunto, normali. Però a volte ci sono alcuni tassellini in più da mettere a posto e ci si sente un po’ più scarmigliati, affaticati, responsabili, preoccupati. Se dico adozione “e” affido, se dico “tre” bambini che imparano a diventare figli e fratelli… Insomma, le vicende di K, Baby L. e Little B. muovono emozioni grandi. Forti. In più di un senso. Ne sappiamo tanto anche noi di assistenti sociali, di intromissioni benintenzionate quanto sgradite, di paure e rabbie, di I must I will I can. Potete cominciare da Come il ketchup sul melogranoYou have your hands full o Allegations, ma per me valgono tutti molto.

For the love of writing (E se ti dicessi che, Sogni di RnR)  “Un blog caotico, una ragazza in maldestro equilibrio su tutti i suoi squilibri.” Un angolo in cui parlare un po’ di tutto, dall’attualità al personale, dalle chiacchiere alle riflessioni su ciò che si prova o su ciò che accade. “E se ti dicessi che” significa un “passo incerto e titubante, senza nessuna pretesa” per comunicare scrivendo, che è il modo che l’autrice sente più suo. Il motto è Bene o male purché se ne parli Perché l’importante è comunicare, confrontarsi, e senza temere troppo il giudizio degli altri, anche quando criticano. Appuntamento al buio mi è piaciuto perché è un modo originale di farsi un regalo, celebrare al tempo stesso l’amicizia, le festività natalizie, l’amore per la lettura, la curiosità. Bakery House perché è un post che ispira serenità, parla di uno di quei luoghi in cui ti senti bene, a tuo agio, accontentando al tempo stesso il desiderio di casa e il sapore di un viaggio in un posto diverso. Racconti di incontri perché ci sono passata, in  quella fase in cui l’immaginazione ti fa vivere una storia d’amore nel giro di cinque minuti. E sapete che “un po’” romantica lo sono ancora 🙂

L’ultimo blog di cui vi parlerò questo sabato è Poetarum Silva, un blog collettivo di letteratura, il cui scopo “è offrire una vasta visione delle diverse poetiche della contemporaneità, esplorando la scrittura in tutte le sue forme e sfaccettature”. Poesia, quindi, ma anche narrativa, pittura, fotografia, cinema e musica, “con uno sguardo che faccia da ponte tra passato e presente”. Arte come impegno civile, “politico nel senso più esatto e restitutivo del termine: Arte come libertà d’espressione e pensiero, momento di creazione e testimonianza storica da tramandare, perché si comprenda ogni tempo e la sua storia, custodendo dell’uomo passaggio e memoria”. Vi propongo Per Derek WalcottLa casa dei fantasmi e Nellie Bly, tanto per darvi un’idea di quello che fanno, quello che scrivono e come lo scrivono. E’ una scelta ancora più arbitraria del solito, capirete, trattandosi poi di un blog collettivo, ma potrà comunque servire per cominciare a conoscerlo.

Vi sono in ciascuno di noi due nature contrapposte…

Un  altro film del 1920, regia di John Stuart Robinson e con quell’altro mostro sacro di John Barrymore (dove “quell’altro” è da intendersi come “oltre a Douglas Fairbanks Sr.”, star di The Mark of Zorro/ Il segno di Zorro di cui ho parlato in un altro post). Un altro horror ma in questo caso avevo letto il libro e mi era molto piaciuto. Il Dr. Jekyll è un integerrimo filantropo, dedito ad alleviare le miserie e le sofferenze soprattutto dei pazienti più poveri, una vita dedicata interamente agli altri e per nulla a se stesso. E qui sta il problema: per il buon dottore, dedicarsi agli altri significa anche sviluppare se stesso. Ma quale se stesso? Obietta il padre della sua fidanzata, Sir Carew. Ogni uomo è diviso in due parti, e come usare la propria mano destra non esclude certo di usare la sinistra, così non si dovrebbe dare spazio soltanto a una parte di sé, trascurando del tutto l’altro (quello forse che gli psicologi oggi chiamano il “sano egoismo). Nessuno può essere “soltanto” buono (nel racconto sir Carew è uno stimabilissimo gentiluomo settantenne; nel film è diventato un uomo di mondo cinico e amorale, ma la figlia è una fanciulla convenientemente svenevole, casta e morigerata; gli scopi di Carew non sono del tutto limpidi; tuttavia dice cose condivisibilissime e proprio per questo capaci di mettere in crisi il povero dottore). E poi il Dr. Jekyll ha anche una passione per la scienza e gli amici non vedono di buon occhio quella sua curiosità, quella mania di sperimentare, di allontanarsi dalla natura (sappiamo anche oggi quanto sia ancora diffusa l’idea che il pensiero scientifico sia un po’ pericoloso, anche se sulla definizione di ciò che è “naturale” potrebbero scriversi volumi – e probabilmente qualcuno lo ha fatto). Così decide di tentare questo esperimento rischiosissimo: separare le due nature in modo da poter cedere a ogni tentazione, salvando tuttavia la propria anima.

Barrymore veniva dal teatro e direi che si vede, si comprende la ragione per cui è stato considerato “l’attore più idolatrato del suo tempo”. Il trucco fa le veci degli effetti speciali e si può comprendere come all’epoca il film avesse tutti gli ingredienti per “sfondare”: sensualità, donne perdute, violenza, l’idea che il male renda anche fisicamente deforme chi lo pratica, ma al tempo stesso una certa fascinazione per il torbido. Nonostante il muto e la “vecchia scuola”, benché in alcune scene la recitazione appaia ai nostri occhi decisamente fuori dalle righe, questo non avviene tanto quanto mi sarei aspettata, anzi. Sono molto curiosa di vedere i film in cui Barrymore ha recitato dopo l’introduzione del sonoro.

In each of us, two natures are at war – the good and the evil. All our lives the fight goes on between them, and one of them must conquer. But in our own hands lies the power to choose – what we want most to be we are.

(Vi sono in ciascuno di noi due nature contrapposte – una buona, l’altra malvagia. Per tutta la vita esse conducono una battaglia l’una contro l’altra, e una delle due dovrà infine prevalere. Ma abbiamo nelle nostre mani il potere di scegliere – ciò che più vogliamo essere è ciò che siamo).