Cogli l’attimo (ma continua a sognare)

Quanta pazienza ci vuole per realizzare un sogno. Quanta pazienza per continuare a godersi la vita di ogni giorno come se, pur appartenendoti il sogno, l’attesa e il dubbio non dovessero avere influenza sul presente; come se, realizzazione o meno, niente cambiasse; come se potessimo far tesoro del fatto che nel lavandino ci sono i piatti da lavare, senza mai “non veder l’ora” che qualcosa accada. L’aspettativa toglie sostanza a ciò che stiamo vivendo? Ancora non lo so, non sono convinta. Ma certo devo imparare che portare un sogno nel regno del reale significa sapergli dare concretezza, e questo ha delle conseguenze. Bisogna avere fiducia in chi ha gli strumenti per fare in modo che dall’immaginazione si passi all’azione, per così dire. Anche quando significa considerare aspetti che consideri di secondaria importanza, ma che forse non lo sono. E nel frattempo andare avanti come se solo il “qui e ora” importasse.

No, non mi farò prendere dalla fretta, o peggio, dall’ansia. Stanotte non ho dormito e in questi giorni mi è capitato altre volte. No, dico, questo non c’entra niente. Di solito dormo come un masso, ma non lascerò che l’ansia influisca sul mio sonno.

La verità è che credevo fossimo a un passo e invece saremo in cammino ancora per un po’. Non voglio lasciare che le esigenze della realtà influiscano sul benefico effetto che i sogni hanno sempre avuto nella mia vita, però voglio che i sogni diventino un’impronta visibile, che lascino una traccia.

McAllister: Non sono cinico, sono realista. «Mostratemi un cuore non contaminato da folli sogni e io vi mostrerò un uomo felice.»
Keating: «Ma solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi. È da sempre così, e così sarà per sempre.»
McAllister: Tennyson?
Keating: No, Keating.

Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo lo sai che vola e lo stesso fiore che oggi sboccia domani appassirà. Perché il poeta usa questi versi? Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Citando Walt Whitman, «O me o vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.» Quale sarà il tuo verso? 

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#Cinema anni ’20 – Il segno di Zorro

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Avevo già accennato a questo film, finalmente ieri sera sono riuscita a finirlo dopo che qualche giorno fa l’avevo iniziato, è un periodo così, comincio le cose, e le finisco anche – prima o poi.

Douglas Fairbanks sr., attore principale, coautore della sceneggiatura e produttore. Un film del 1920 (non credevo ne avessero fatti già così tanti quell’anno, ce n’è una marea! Tratto da un libro, The Curse of Capistrano, La maledizione di Capistrano, di Johnston McCulley, che – dico la verità – non sapevo esistesse, io credevo che Zorro fosse solo un eroe cinematografico! (sorry, Mr. McCulley!).

Il primo, forse, o comunque uno dei precursori dei film romantico-avventurosi, in cui l’eroe protagonista è galante, conquista la fanciulla con un sacco di frasi che oggi considereremmo quanto meno banalotte, promette, per così dire, mari e monti e soprattutto è, appunto, eroico. Anche se nella vita di tutti i giorni si finge un aristocratico imbelle e stupidotto. Ironia, scene di duelli ben coreografate, un po’ di suspence e devo dire, il film mi ha tenuta incollata per tutta l’ora e 40 che dura.

L’oppressione, per sua natura, crea essa stessa la forza che la sconfiggerà. Sorgerà un campione, un campione degli oppressi: che sia un Cromwell o qualcuno il cui nome non è ricordato, egli è già qui, è già nato. 

In California, quasi cento anni fa, in questo luogo pieno di calore, di romanticismo, di quieta bellezza, si era insinuato il morbo dell’oppressione.

Ma poi – dai misteri dell’ignoto – un cavaliere mascherato apparve: cavalcava su e giù per le vie, punendo, e proteggendo, e lasciando sul malvagio oppressore IL SEGNO DI ZORRO.  

Questo Zorro viene a voi come un fantasma in un cimitero – e come un fantasma scompare…

🙂

Ho dovuto saltare un’altra volta la rubrica dei blogger, ma torno, eh!

Se chiudo gli occhi

Se chiudo gli occhi sento le tue mani sulle mie, le tue labbra sul bordo della tazza calda da cui bevo il tè, vedo riflessi di te ovunque; anche un piccolo gesto o un’espressione bastano a riportarmi sulla tua strada. Posso sentire la tua voce e persino immaginare quello che diresti in certe situazioni che sapresti afferrare al volo in tutte le loro contraddizioni e descrivere con pochissime parole affilate. Ma è un fatto che non ci sei, non sono tue le parole che pure a volte ho dentro come se ti sentissi pronunciarle. Su questo non posso fare niente. Il mondo cambia e tu non ci sei dentro. Vorrei sapere cosa pensi, fino a un certo punto lo so, poi tutto si blocca, si ferma. Tantissime cose da imparare e da capire, e tu non racconti più. Quello che hai detto e fatto mi aiuta a orientarmi, ma il presente, il presente manca da impazzire. Nella mia vita ci sei come ci sei sempre stato, ma sulla mia pelle mai. Se ci fosse qualcosa “oltre”, cosa accadrebbe di amori così forti da dare un’impronta al nostro modo di essere, ma che non si sono mai compiuti? Non era destino, qui e ora altre cose mi appartengono, ma mi manca più di ogni altra cosa un incontro che non c’è stato. Assurdo, lo so, ma voglio intensamente che ci sia un significato, credo, già lo sai, che le cose insensate possano averne di più di tutta la logica razionale. E penso, ne sono quasi convinta, che tu saresti d’accordo, ma Dio mi manca di sentirtelo dire. Mi mancano quelle coincidenze che forse non erano tali. Ti cerco e non smetterò di farlo perché è un dolore che amo e che è rugiada sulle mie foglie, ma mi manca essere cercata, che mi hai toccata in tutti i modi possibili, tranne uno, uno soltanto, dopotutto. Che vuoi che sia?

Una lettera (da non spedire, ma che andava comunque scritta)

Sono così stanca, ma così stanca… e triste, e arrabbiata. e ho paura. Mio adorato A., vorrei saperti dire che crescere è una fatica immensa e lo sappiamo, lo è stato per tutti, io potrei raccontarti di quando mi chiamavano vecchia befana e avevo quindici anni e stavo malissimo, non parlavo, avevo paura anche solo ad alzare la mano per chiedere di andare in bagno, figurarsi poi per rispondere a qualche domanda. Della volta che ho vomitato addosso alla professoressa di italiano te l’ho raccontato, e lei, meno male, era una che capiva. Ti ho detto di quando ho rischiato di odiare persino il mio nome, per quanto era oggetto di scherno. E delle volte in cui stare a casa era un incubo peggiore che stare a scuola e non solo per le botte. Le parole a volte fanno altrettanto male. Te l’ho raccontato e penso di aver fatto bene, ma capisco anche che tu non sei me e queste cose ti servono fino a un certo punto. Però, mio carissimo A., vorrei anche dirti che crescere è una fatica immensa ma che ripaga. Credo che in fondo tu sappia quanto amo la nostra vita di adesso. Vorrei che tu sapessi che dovrai rinunciare a mille cose, ma ne troverai duemila da curare, che la tua curiosità ti farà scoprire ogni giorno qualcosa. Vorrei darti la leggerezza di quando ballavamo in salotto, vorrei dirti che crescere è una passione, dunque contiene dolore, certo, ma anche entusiasmo, voglia, capacità di buttarsi nelle cose, capacità di giocare con tutto, anche con le cose che fanno male, e rimetterle così al loro posto. Vorrei, più che dirtelo, sapertelo trasmettere, ma in questo momento la fiducia cede alla stanchezza. Sono momenti, passano e di queste cose tu non saprai niente, della fatica e della stanchezza te ne accorgi, per forza, ma per tutto il resto aspetterò che il lato appassionato e gioioso dell’essere tua madre ridiventi di nuovo forte abbastanza, sempre di più, per poterne parlare non tanto con la voce, ma con tutto quello che non si dice e che però si vede. Dentro il mio cuore c’è una quercia, stamattina stillava miele e forse è un segno della confusione che ho in testa, ma quella quercia nel tempo è cresciuta, ha messo radici e foglie, tante foglie verdi e vivissime. Siamo forti, siamo forti da sempre tutti e due, e insieme di più. Lo scrivo per me, come questa lettera, ma spero che ricordarlo a me stessa serva a poterlo in qualche modo comunicare anche a te.

La pace che cerco

Vengo da te anche per cercare pace, ormai lo sappiamo entrambi. Perché tu? Mica so rispondere, sai. Ho scritto parole su parole per capirlo, ma la risposta ancora non ce l’ho. Forse è per questo. Non che tu sia mai stato misterioso, anzi; sei “solo” complesso. multiforme e non etichettabile.

Dunque, vengo da te per cercare pace, dicevamo, anche se (o perché) so che non potrei trovare la pace tranquilla, l’equilibrio definitivo; forse neppure quello provvisorio: il tuo sederti a testa in giù del resto mi affascina da tanto, vorrei imitarlo ma mi fermo sempre un attimo prima. Troppi limiti, così la mia diventa una pace frenata, fatta di silenzi, di cose che non mi permetto, di quieto vivere. La tua è una pace mai violenta ma comunque combattiva, mai cinica o scettica, ma attentissima a seminare dubbi e domande; una pace che cerca e scava sotto le rocce, che non accetta niente, non lascia passare niente, di tutto chiede conto. “Non sarebbe più prudente…”? – qualcuno obiettava. – “Più prudente non è una buona cosa”, era la tua risposta. E certo prudente credo che tu non lo sia stato mai; per questo è una pace imprudente quella che cerco, una pace che guarda, sente e racconta, una pace che resta vicino alle cose, quasi dentro, ma senza lasciarsene assorbire. Immergendocisi per poi uscirne e guardarle da fuori.

So bene che avevi delle paure, più serie ancora dei viaggi in Afghanistan e in Iraq, più serie della mancanza di protezioni e dei decolli notturni a luci spente, che dopotutto senza rete era il tuo modo di lavorare e di vivere. Ma poi l’imprudenza non è mica il contrario della paura, semmai forse l’incoscienza potrebbe esserlo; ma incosciente invece no, non lo eri. Eri coscientemente imprudente, ecco. Ed è una delle millemila cose che mi riempiono di meraviglia.

Le tue risate sono un dono di pace, perché quando ride, quella pace ride per amore, per voglia, per sete di vita, per l’unico potere che valga la pena di avere, quello di rompere le sbarre, aprire i gusci, liberarsi dalle corazze e sgretolare i muri.  Quella pace irrequieta che per me ha il tuo nome ed è, per adesso, l’unica che so cercare.

Perdonarsi

Ho imparato a perdonarmi, ma vorrei non avere più niente da perdonarmi. Lo so che questo è il desiderio di perfezione che torna a far capolino, ma diciamo che vorrei dovermi perdonare sempre di meno, ecco. A volte mi pare che sia già in parte così, altre volte mi par di avere ancora troppi perdoni sospesi.

Toxic Love (da Ferngully)

Toxic Love, la canzone del “cattivo”, Hexxus, cantata da Tim Curry nel film Ferngully. Non è fantastica? A me piace un sacco. La prima volta che ho visto il film (Le avventure di Zak e Crysta in italiano) non l’avevo apprezzato granché, a parte Batty Koda, il pipistrello matto cui dava voce Robin. In seguito però mi sono ricreduta, è un gioiellino!