Ecco, invece a questo di Ernst Lubitsch mi sono proprio divertita. Non dico che si rida a crepapelle, ma l’ho trovato proprio carinissimo. Ai tempi fu un flop perché i tedeschi non perdonarono a Lubitsch di aver messo l’esercito alla berlina proprio appena finita la guerra, con la ferita della sconfitta ancora molto aperta e dolorosa. Pare che il regista invece lo amasse molto e secondo me con ragione, ma del resto mi pare un film molto poco tedesco (e lo stesso Lubitsch era probabilmente un tedesco molto anomalo). Già in precedenza i suoi film avevano ottenuto un successo internazionale senza precedenti, e nel 1922 Lubitsch avrebbe lasciato definitivamente la Germania per stabilirsi in America, la cui industria cinematografica disponeva di capitali di fronte ai quali le scarse risorse di quella tedesca impallidivano.
Die Bergkatze (The Wildcat) diventa Lo scoiattolo in italiano, non chiedetemi perché. È incentrato sul luogotenente Alexis, conosciuto tra la popolazione femminile come “il Seduttore” che proprio subisce per questo un trasferimento punitivo alla fortezza di Tossenstein. Parte, salutato da una folla di fanciulle in lacrime (con alcuni figlioletti al seguito), che evidentemente non hanno alcun rancore nei suoi confronti, si intuisce che la “felicità” che a dire del militare loro gli hanno dato sia stata ampiamente reciproca. Lungo la strada si imbatte in un gruppo di banditi, che ubbidiscono non tanto al loro capo quanto alla figlia di questi, Rischka. Neanche a dirlo, i due sono attratti l’uno dall’altro, ma lei comunque a ogni buon conto gli fa rubare i vestiti. Rimasto in mutandoni, il ben luogotenente non viene riconosciuto dai soldati mandati dal comandante del forte a cercarlo, e viene arrestato.
In seguito, il bell’Alexis si fidanza con la figlia del comandante, ma Rischka non riesce a dimenticarlo, e il resto del film narra le vicissitudini attraverso le quali si giungerà a un paio di felici matrimoni, il tutto con lo stesso tono scanzonato. E Rischka mi piace molto, un bel tipetto, per i suoi tempi!
Credo sia la prima volta nella mia vita che guardo un film con Buster Keaton. Era una cosa che andava fatta. Ora posso pacificamente dire che (come sospettavo) non è la comicità che fa per me. Un po’ perché come le barzellette senza parole, la comicità del cinema muto la capisco con tale ritardo che l’effetto è irrimediabilmente rovinato; e un po’ perché il laughing stock, quello che noi potremmo chiamare lo “zimbello”, o con temine più moderno, lo sfigato ridicolo, non mi ha mai fatto ridere, anzi, mi suscita da sempre un misto di pena e rabbia tali per cui detesto Fantozzi e (ancor più) Mr. Bean. Rispetto a questi ultimi, Buster Keaton ha un’attenuante: non è meschino, anzi, tutto il contrario. Questo mi ha consentito di immedesimarmi nei suoi guai qual tanto che bastava per guardare il film fino in fondo (del resto è breve) e per augurargli un meritatissimo lieto fine.
Essendo però il mito che è, sono sicura che molti di voi sapranno apprezzarlo molto più di quanto sia in grado di fare io.
L’intervista di Ray Martin in Australia per la presentazione di The Birdcage (Piume di Struzzo, 1996). Il film è tra l’altro uno dei miei preferiti e se volete trovate la mia recensione qui. Robin ironizza gentilmente sulla scenografia dello studio “è un piacere essere intervistato sopra una meridiana“, dopodiché “parla di Hollywood, politica americana, scuola e qualunque altra cosa che gli passi per quella testa bizzarra e straordinaria” (è il commento che accompagna il video). Il jet lag, i canguri e la famiglia sono materiali duttili che plasma a suo piacimento, talvolta lasciandosi andare alle sue capacità istrioniche (la sua imitazione dell’accento scozzese-australiano è da antologia), altre con quel tono dolcemente stupito, quasi sommesso, con cui pare sorprendersi lui per primo di ciò che osserva e riporta, mette il dito su piaghe dolorosissime ma lo fa con tale gentilezza che è come se ti mostrasse la ferita che non sapevi di avere e nello stesso tempo maneggiasse con disinvolta maestria gli strumenti per cicatrizzarla.
Ray Martin’s interview to Robin Williams, in Australia to present The Birdcage (1996). Robin makes gently makes fun of the tv studio setting (“it’s nice to do an interview on a sundial“), and then “talks about Hollywood, American politics, school and whatever else crosses his bizarre and amazing mind” (it’s the comment under the video). Jet-lag, kangaroos, family, are all ductile materials he models at leisure, sometimes giving free rein to his histrionic skills (his impression of a Scottish-Australian accent is classic), other times in that sweet, surprised way, almost in an undertone, as if he was astonished himself at what he sees and reports, he puts his finger on very, very sore sports, but so gently that it’s as it he showed you the wound you didn’t know you had, and at the same time handled with nonchalant mastery the instrument to heal it.
Era tanto che volevo leggere questo libro. Qualche giorno fa mi è proprio “saltato agli occhi”, per così dire, mentre curiosavo tra gli scaffali in cerca di qualcosa che mi ispirasse. Non posso dire che mi abbia deluso, è scritto molto bene e tratta di temi in parte crudelissimi, in parte affascinanti, che sono poi i temi universali: la guerra, il modo in cui ti cambia entrarci in contatto, che sia da vittima, da carnefice o da semplice “spettatore” esterno; l’amore; la natura umana; la vendetta, e altro ancora.
Avverto però una freddezza di fondo che mi mette a disagio. Credo sia voluta, perché ci aono continui rimandi alle formule, alle lineee, alle regole geometriche che governano le azioni e l’universo in genere, all’arte come “strumento impassibile per contemplare la vita”. Resta il fatto che mi pare di aver perso la possibilità, per me importante, di entrare davvero dentro la storia, di non limitarmi a leggerla – anche con interesse – ma di sentirla, di sentirmene parte.
C’è un uomo, Faulques, un ex fotoreporter di guerra che si è ritirato a vivere in un faro per dipingere un immenso affresco, imprimere i suoi ricordi su un supporto che d’altra parte è tutt’altro che duraturo, anzi, sta già mostrando le prime crepe mentre ancora Faulques non ha completato il suo lavoro. Al tempo stesso, quei ricordi passano attraverso molti altri assedi della storia, in cui l’ex fotografo inserisce delle scene che ha visto direttamente, sul presupposto che quegli assedi “sono sempre lo stesso assedio”.
Faulques si tiene lontano dalle altre persone, tuttavia un giorno arriva sull’isola un uomo che sembra conoscerlo. Lui non se ne ricorda, ma l’uomo è stato il protagonista involontario di una delle sue fotografie più riuscite e più famose. Markovic, questo il nome dello straniero, ha avuto la vita cambiata da quella fotografia, e non certo in meglio. Così è venuto per uccidere Falques, e glielo dice molto tranquillamente, in una scena che nel contesto ha un suo senso, ma aggiunge ancora un tassello a questo senso di estraniamento.
“È la ragione per cui mi vuole uccidere? … Per vendicare tutto questo? “
Sulla faccia di Markovic riapparve quel sorriso freddo, quasi indifferente.
“Effetto Farfalla, ha detto. Che ironia. Un nome così delicato “.
I due uomini portano avanti, con l’andare dei giorni, una conversazione in cui Markovic racconta la sua storia e spiega – all’altro, ma sembrerebbe anche a se stesso – le ragioni della decisione di uccidere Falques, e quest’ultimo ascolta, risponde, ricorda, riflette; si potrebbe quasi dire che ciascuno dei due ricostruisce la propria vita attraverso gli occhi dell’altro, o meglio, attraverso l’ascolto dell’altro. La crudeltà, l’orrore dettano una filosofia tragica in cui l’intelligenza “fa eccellere e rende più attraente la malvagità“. Il carattere predatorio dell’uomo visto scientificamente come una sua “proprietà stabile”. Simmetrie e risposte a simmetrie. Mi interessa e sento che tocca punti di verità, ma mi sento anche molto lontana da tutto questo. “Lei non è un uomo compassionevole, signor Falques”, dice Markovic; “Non lo sono. Ma è singolare che sia lei a dirmelo”, ribatte Faulques.
“Ho appena capito che non ne ha mai sofferto. Neppure adesso. Quello che ha visto non l’ha resa migliore né più solidale. Il fatto è che le sue foto non le bastavano più. Le è successo quello che capita con certe parole: a forza di usarle perdono il senso. Forse è per questo che adesso dipinge. Però dipinti, foto o parole, per lei non fanno differenza. Secondo me, lei prova la stessa compassione del ricercatore che osserva, attraverso il microscopio, la battaglia nell’infezione di una ferita. Microbi contro amebe”
“Leucociti”, lo corresse Falques. “Sono i leucociti che combattono i microbi. Globuli bianchi”.
“D’accordo. Leucociti contro microbi. Lei osserva e prende nota”.
Faulques indietreggiò fino a raggiungerlo, asciugandosi le mani nello straccio. I due rimasero per un po’ in silenzio, a guardare il dipinto.
“Può darsi che abbia ragione” dosse il pittore.
“Questo la renderebbe peggiore di me”.
E in questa non-compassione sta forse la ragione del mio non-amore per un libro che comunque sto leggendo fino in fondo. Mi prende molto, di testa, anche se non coinvolge il cuore.
Che bella serata, sono proprio contenta! Si è parlato di film, musica, kitsch e sublime (“un mix di ispirazioni dalle più empiree, somme, superbe a le più pacchiane e di cattivo gusto che la storia cinematografica ha saputo produrre”, come da invito). Il “relatore” era il mio professore di inglese delle superiori, già allora innamorato del cinema e in parte responsabile di avermi trasmesso la passione, con il corso che teneva al pomeriggio (sì, la mia era una scuola sperimentale, nell’ora di scienze facevamo l’orto, in quella di sociologia studiavamo sui ritagli di giornale e le pubblicità per capire il linguaggio del marketing, e andavamo a scuola anche al pomeriggio, ma spesso le materie erano particolari, si poteva scegliere chitarra o, appunto, cinema, e io ho avuto la felicissima intuizione di scegliere il secondo). È stato un piacere incontrarlo e ascoltarlo, come era un piacere allora, e quando sei un insegnante, è un gran bel dono. Abbiamo visto spezzoni di Psycho, City Lights, e poi un pot pourri di varie scene con Esther Williams – e qui il kitsch giunge davvero all’apoteosi. E che meraviglia però, le coreografie di Busby Berkeley! Una meraviglia kitsch, ma pur sempre una meraviglia. Che raggiunge vertici inimmaginabili di cattivo gusto, sconfinante nella grandezza inarrivabile, con la fantasia di banane della scena con Carmen Miranda che canta The Lady in the Tutti Frutti Hat in The Gang’s All Here (in italiano Banana Split, giustamente). E poi Cleopatra, e Anna Magnani in La Sciantosa, e Pane, amore e… Tutto con le osservazioni di un conoscitore colto e spiritoso, capace di infilare pillole tecniche in modo del tutto naturale e anche molto divertente.
A proposito, in questi giorni a Genova c’è Cinepassioni – Storie di immagini nel collezionismo, su cui trovate notizie dettagliate qui: un’esposizione accompagnata da rassegne, incontri e fuori-mostra fino al 30 luglio. Non perdiamocela!
Ho finito The Four Horsemen of the Apocalypse, avevo anticipato qualcosa qui, ma come accennavo è molto lungo (beh, non esageratamente, ma comunque quasi tre ore) e non sono riuscita a vederlo tutto in una volta. Ho energia da vendere ma non ho ancora trovato un allunga-giornate, se qualcuno ha idea di dove procurarsene uno…
Comunque.
Il film – diretto da Rex Ingram e basato su un romanzo spagnolo di Vicente Blasco Ibañez – ha due anime, si potrebbe dire, un po’ come il suo protagonista Julio. La prima anima è quella sensuale, che si rivela soprattutto nella (celeberrima, mi si dice) scena del tango. “Rudolph” Valentino esprime tutte le sue potenzialità di latin lover d’antan, circondandosi di fanciulle piacenti e disponibili, fumando come un turco e più in generale assumendo pose da malandrino affascinante. Julio è nipote di un proprietario terriero argentino, Madariaga, “il Centauro”, che non si sa come è riuscito a essere molto popolare tra i suoi lavoranti e tra la gente del luogo. Madariaga ha due figlie, una delle quali ha sposato un tedesco, mentre l’altro genero è francese. Il primo ha tre figli maschi, il secondo un figlio, Julio appunto, e una figlia. Madariaga ha una spiccata preferenza per il francese, e con ragione, come si vedrà. Inoltre adora Julio nonostante (o proprio per) la sua dissolutezza.
Alla morte di Madariaga, la famiglia si divide: grazie all’eredità, la parte “tedesca” torna nel Paese d’origine del padre, il quale vuole che i suoi figli possano “beneficiare della superiore cultura” tedesca e assorbirne i valori. La sua arroganza e presunzione si sono assolutamente trasmesse a tutti i figli, che sembrano tutti sue fotocopie.
La parte “francese” si reca invece a Parigi, dove Julio, il figlio maschio, si dà come e più di prima alla bella vita. A un certo punto però si innamora della bella Marguerite Laurier, una donna sposata: il matrimonio è stato combinato, con un uomo gentile ma più vecchio di lei. Lui le accorda anche il divorzio e tutto potrebbe andare per il meglio, ma scoppia la guerra e qui il film rivela in tutta la sua pienezza la seconda anima di cui dicevo, prima solo accennata, diventando fieramente antimilitarista, al punto di essere noto come il primo vero film contro la guerra della storia. Benché il fatto che il bel Julio in un primo momento approfitti del fatto di essere cittadino straniero per non arruolarsi sia visto con una certa riprovazione. L’amore non mancherà di cambiarlo (il ruolo di Marguerite è chiaro: deve far sì che il suo innamorato diventi un altro uomo, ma poi, essendo nel frattempo il marito [ex?] rimasto invalido, dovrà restare con lui per un “bisogno di espiazione” che Julio in quanto uomo non potrebbe capire. Ma non lo capisco neanch’io, in effetti, per quanto il povero Laurier sia senz’altro un personaggio amabile).
La divisione tra le due famiglie si approfondisce ulteriormente, trovandosi a combattere su due fronti diversi. I soldati tedeschi invadono il castello del francese sulla Marna. Il peggiore di tutti è il generale, che si fa servire, si tiene ben lontano dal conflitto e dà ai suoi un pessimo esempio (e qui caspita, una bella critica alle gerarchie militari!). Tutti sbevazzano, giocano e vorrebbero anche violentargli la figlia, al che lui si ribella, rischiando la vita e salvandosi miracolosamente in seguito a un capovolgimento di fronte, quando i Tedeschi vengono ricacciati indietro. Il cugino è tra gli occupanti ma non sa far altro che consigliargli di subire: “è la guerra”, gli dice. Nel frattempo il figliol prodigo Julio si redime, decidendo di difendere il Paese di suo padre e dimostrando coraggio e altruismo. Una necessità, a quel punto, per difendersi; ma pur sempre un male. Il padre Marcelo non può fare a meno di essere orgoglioso del figlio, ma al tempo stesso sa bene, dopo tutto quello che ha visto (“sono stato all’inferno”, dirà), che il “suo ragazzo” non sa assolutamente nulla di quello che dovrà affrontare. La condanna della guerra di conquista, d’altra parte, è fortissima e senza appello.
La venuta dei Quattro Cavalieri – Conquista, appunto, Guerra, “in tutto il suo orrore”, Pestilenza, “carica delle squame della Carestia”, e infine Morte – è predetta da una sorta di strano profeta che potrebbe anche essere lo stesso Gesù Cristo, così sembrerebbe dal finale, in cui i cavalieri sono finalmente allontanati, ma già si è consapevoli che non sarà per sempre. Torneranno.
Il film mi ha colpito molto per la capacità di coinvolgere lo spettatore in vari modi, commuovendo e talvolta divertendo o tenendo alta la tensione, ma più di ogni cosa per una capacità spiccatissima di cogliere i nessi tra eventi, idee e situazioni. Nessi che non erano così evidenti ai contemporanei e che agli occhi di un osservatore acuto diventano segni leggibili. Ciò che ha portato alla Prima Guerra Mondiale ha condotto anche alla Seconda, che a quel tempo non avrebbe potuto essere prevista. E invece lo è stata.
Ancora più notevole è il fatto che la storia sia tratta praticamente senza modifiche dal romanzo di Ibañez, che è del 1916. Alla fine del romanzo Marcelo Desnoyers, giunto ormai alla conclusione che non esista giustizia e il mondo sia governato dal caso, ha una visione dei quattro cavalieri pronti a calpestare la terra ancora una volta. E questo, considerato che la Prima Guerra in cui il protagonista del romanzo aveva perso la vita non era ancora neanche conclusa al momento dell’uscita del libro, somiglia davvero a una profezia.
Il libro di Ibañez, tradotto e uscito in America nel 1919, era diventato immediatamente un bestseller, e The Four Horsemen of the Apocalypse ha avuto un successo incredibile, non solo commerciale (superando addirittura gli incassi del Monello, che pure aveva a sua volta avuto un impatto enorme), ma anche culturale, con una forte influenza sull’opinione pubblica.
Rex ingram, regista nato a Dublino nel 1892, si chiamava in origine Reginald Ingram Montgomery Hitchcock e aveva un fratello che aveva combattuto nella Grande Guerra. Emigrato negli Stati Uniti prima dei vent’anni, fu attore e poi sceneggiatore e produttore, oltre che regista. Aveva però in precedenza studiato scultura e sarebbe poi tornato a questa passione – e alla scrittura – dopo l’avvento del sonoro, abbandonando il cinema. Le sue tematiche legate all’illusione, al sogno, alla magia e al surreale hanno avuto un’influenza profonda e Ingram è stato considerato tra i più grandi del tempo, secondo solo a David Griffith. David Lean ha detto di dovergli molto. La sua carriera iniziò però il declino quando il suo amore per il bizzarro e l’esoterico cominciarono a prendergli un po’ troppo la mano. La scena dei Quattro Cavalieri lanciati al galoppo è considerata forse il miglior esempio di questa fantasia macabra. Per i tempi mi pare davvero splendida. Mi ha ricordato le visioni di Perry nel magnifico The Fisher King di Terry Gilliam, che avevo recensito a suo tempo e per il quale ho un amore che cresce con gli anni. E se pensate che The Four Horsemen è in bianco e nero… Ingram è il regista anche, tra gli altri, del Prigioniero di Zenda e di Scaramouche.
Ieri sono stata al Salone. Mariangela di Nuvole sparse tra le dita è stata così gentile da invitarmi a una informale chiacchierata con i suoi studenti riguardo alla traduzione, che è il mio mestiere. Lì abbiamo anche incontrato Dora di Almeno tu, che ha presentato il suo libro in cui tratta dell’abuso sui minori. Per inciso, pur non avendolo ancora letto, sono sicura, per come scrive lei, che sia un libro delicato, ben scritto, intimo e personale ma al tempo stesso una storia che può riguardare tutti da vicino.
Ne ho approfittato naturalmente per farmi un giro tra gli stand e ho fatto provviste, non per l’inverno, in questo caso, ma per l’estate, stagione nella quale conto di recuperare dopo un periodo in cui ho letto meno per varie ragioni. Non ho visto tutto ma ho visto cose belle. Per prima Bianco e Nero, una casa editrice dedicata a chi ha difficoltà a leggere (per dislessia ma non solo). Ho trovato i libri adattati in una maniera non semplicistica, una buona attenzione a stile e contenuti, e ne ho presi cinque tra quelli che ho più amato ma ne avrei presi molti di più. C’è anche il CD e questo è un aspetto importante che può invogliare chi, come mio figlio grande, ama le storie ma fa davvero fatica con libri voluminosi e magari tradotti in maniera non attualissima. Dettaglio non da poco, il carattere leggibilissimo.
Racconti è, come dice il nome, una casa editrice specializzata in short stories, con uno splendido catalogo, per essere nata solo da un anno. Io ho preso questo
ma ancora una volta, mi sono (molto) limitata! L’ho quasi finito e mi piace moltissimo, ne farò una recensione a parte.
Lascio per ultima la casa editrice che più mi ha colpita favorevolmente, Fazi. Naturalmente già la conoscevo, ma principalmente per i noir, genere che di solito non è il mio; in realtà hanno molti interessi e l’impressione è che di qualunque cosa si occupino, tirino fuori gioielli inestimabili. Avrei davvero comprato tutto. Non l’ho fatto, ma ho comprato parecchio, diciamo. E la breve chiacchierata che ho fatto allo stand ha confermato una passione vera e palpabile che diventa conoscenza approfondita dei libri che scelgono di pubblicare, amati e curati con affetto.
Due giorni splendidi, con un gruppo che amo moltissimo. È un gruppo di “psicoterapia avanzata”, nel senso che siamo tutte persone che hanno finito la terapia ma affiniamo i nostri strumenti incontrandoci e lavorando insieme 4-5 volte l’anno. Ne esco ogni volta più forte e questa è stata particolarmente intensa. Emozioni, colori, il mio amatissimo mare, ricordi, sensazioni presenti e una porta aperta sul futuro, dietro la quale ho visto, per la prima volta con questa chiarezza, che quello che voglio è prima di tutto scrivere, o forse, anzi, solo scrivere. Ho avuto un senso fortissimo di morte e rinascita, qualcosa che mi ha coinvolta completamente, mi sono sentita come se fossi immersa nel mare e avessi il mare dentro di me, tutto il mio corpo era mare, e si è perso e ritrovato sull’onda di un fremito vitale, di una tale dolcezza e bellezza da stordire. Davvero non ho più paura. Sono io. Sono l’ala dell’aereo che si muoveva nel mio presente, e il cielo in cui volava, sono piena di amore e passione, di tenerezza ed energia, ho finalmente riconosciuto la mia capacità di scompigliare, riprendermi in mano la mia scintilla di follia, a cui tengo tanto, il gioco, la leggerezza dell’infinito. Sono io e sono in movimento, e amo così tanto esserci che neanche io sapevo fino in fondo quanto.
Luoghi d’autore Web Magazine di viaggi e cultura a cura di Emanuela Riverso, come si legge nella presentazione, esplora il rapporto tra l’autore e il luogo che sceglie come “suo”, non necessariamente quello dove è nato, può esservi anche giunto per caso, ma è quello dove si crea un legame con ciò che scrive. Si racconta, insomma, “l’Arte del Viaggiare sfogliando le pagine di un libro, curiosando fra piccoli e grandi eventi, catturando immagini e descrivendo i rifugi del viaggiare, storiche dimore o accoglienti locande, quei luoghi di incanto che completano le suggestioni di un viaggio”. Sapete quanto io ami i viaggi, in senso stretto e in senso ampio (beh, non per nulla sono una viandante, sia pure intempestiva), e dunque anche chi ne parla, li racconta, segue un sogno proprio o altrui o la traccia di un artista amato ripercorrendo i suoi luoghi. Visto che è ancora in corso, vi propongo dunque questa manifestazione, “AUTORI DI OGGI. CAPOLAVORI DI IERI” – EDOARDO ALBINATI E LE AVVENTURE DI PINOCCHIO, che si svolge nelle Ville medicee di Poggio a Caiano e Artimino (Firenze) fino al 27 maggio prossimo. Altra cosa interessante, questa Guida alla letteratura britannica, che suggerisce luoghi e itinerari legati ai grandi autori del Regno Unito. infine, il festival che ogni anno si svolge a Odense, dedicato al mio amato H.C. Andersen.
Sirena Guerriglia (Lorella Ronconi) soffre di pseudoacondroplasia-poliepifisaria, e anche dopo aver superato un delicatissimo intervento chirurgico che la ha salvato la vita, è costretta per molto tempo a letto a causa dei dolori che le sue condizioni le provocano. Nel tempo si è dedicata a molte attività, sia di impegno civile (conducendo una battaglia senza fine per l’abolizione delle barriere architettoniche con moltissimi riconoscimenti anche di grande importanza), sia artistiche. In questo campo in particolare ha iniziato con la pittura, anche su stoffa, ma avendo dovuto abbandonarla per l’aggravarsi della malattia, ha iniziato a esprimersi attraverso la poesia e la scrittura in genere. Per quanto riguarda le barriere architettoniche, ad esempio, potete trovare un approfondimento qui, con una particolareggiata descrizione della disciplina legislativa (purtroppo con norme non sempre applicate poi nella pratica); tra le poesie questa Io ruoto, in un mondo fatto di passi, esprime tutta la sofferenza e il desiderio impossibile di libertà, ma anche la determinazione di chi comunque non si ferma. Anche se, rispetto a questa poesia, l’autrice osserva che appartiene a un passato in cui ancora si “ripiegava sulla sua condizione”. Avendo ritrovato ancora più forza e autostima e cambiato pelle, dice, ora “guizza”: è diventata una Sirena che “nuota e si muove in energica sintonia con il suo mondo”; e combattiva (da cui “Guerriglia”) per l’uguaglianza dei diritti nell’unicità di ciascuno. Sabbia infine è una canzone di Paolo Mari dedicata a chi combatte contro la malattia.
Trip or trek Un blog di viaggi, anzi, di “grandi avventure nate da piccoli passi”, creato da Sara. Viaggi veri e propri, naturalmente: Africa, Asia, Medio Oriente, Europa, ma anche Italia, comprese le destinazioni che si possono visitare anche in un solo giorno, perché non dimentichiamo che viaggiare non richiede necessariamente la distanza, basta essere disposti ad allontanarsi da ciò che è solito. anche solo col cuore o con lo sguardo. Non mancano gli appuntamenti settimanali, con eventi che possono costituire altrettante scuse per muoversi. Ci sono anche le novità più interessanti e le idee più curiose (alcune davvero geniali) nella categoria “accessori da viaggio”. Sappiamo poi anche che uno dei modi più affascinanti (e più economici, se vogliamo) per girare il mondo è anche la musica, come ci ricorda Sara in questo post, appunto il mondo in musica. Ma il clou del blog naturalmente sono i luoghi, tutti speciali, da quelli più “esotici” come il Myanmar (o ex Birmania), a quelli Europei, più o meno classici, dove comunque puoi trovare (ovviamente) l’inaspettato ad esempio visitando una meta poco gettonata come Bratislava, in Slovacchia. E poi come accennavo l’Italia, tra borghi medievali, fossili, ciminiere, terme e persino canyon.
Ma Bohème (Primula): Francesca, ma per tutti Primula, appunto, un nome primaverile per una nascita all’inizio della primavera. Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, insegnante di Lingua e Letteratura Francese, appassionata del suo lavoro e della sua materia, ma anche della lettura in genere, “dalla poesia al romanzo, dalla politica alla cronaca” e della scrittura. Il suo blog lo descrive come “un susseguirsi di riflessioni suggerite dalle mie letture e dalle sollecitazioni della vita quotidiana: cronaca, attualità politica, incontri, esperienze… e mi avventuro proprio come una bohémienne”. Se potesse scegliere un’epoca del passato in cui vivere sarebbe quindi quella: “il periodo della Belle Epoque a Parigi tra dandy, bohémiens, caffè letterari, pittori”. Viene fuori, anche da altri post, il ritratto di una persona che ama stare in mezzo agli altri, parlare (oh, come capisco la loquacità!), leale, “dalle mani bucate” (eh!) e nel complesso molto realizzata, serena, attenta (agli altrui sentimenti, intendo), una persona con cui – mi viene da dire – si tocca con mano quanto la vita dia (anche) cose buone. A saperle vedere, naturalmente. Ha scritto un libro che devo assolutamente leggere, già dal titolo (Le radici dell’anima) ma più ancora per il tema e il contenuto. Vi propongo Spazio e armonia, riflessioni a partire dalla poesia Le visage de la paix di Paul Éluard, anzi “29 pennellate di parole” accompagnate dalle illustrazioni di Picasso; L’arte dei liutai a Cremona e L’esperienza del dolore, recensione di un libro, Il bambino al cobalto, che parla di amore per la vita e voglia di fuga in una situazione difficilissima di malattia, perché sono d’accordo con Primula, di certi argomenti occorrerebbe parlarne con calma e non sull’onda di fatti di cronaca.
Buona domenica, buon viaggio tra i blog e a sabato prossimo!