Un po’ più figlio, un po’ meno figlio

No, dico, tu passi una vita a chiederti come capire profondamente, dentro di te, per poterlo poi esprimere, che da una parte un abbandono è qualcosa che lascia ferite profonde, che un figlio adottivo spesso si porta dentro emozioni e pensieri e varie cose che bisogna affrontare insieme giorno per giorno, preparandosi anche a situazioni “diverse” da quelle di un figlio biologico; e che però, dall’altra parte, un figlio è un figlio, una madre è una madre, un padre è un padre, punto. Non è più “bello”, santo o eroico decidere di adottare un figlio più di quanto lo sia averlo in un mondo difficile. Sapendo che capiterà di non saper cosa fare, e dovrai cercare come puoi di risolvere dei problemi man mano che si presentano, facendo leva sulle risorse sue e sulle tue. Non ci sono persone di serie A e di serie B, non so perché sia ancora necessario dirlo. Perché poi esce una sentenza, una sentenza ineccepibile, non critico quella, perché c’è una legge, e ammetto, lo scopro solo ora. C’è un tizio, che mica posso chiamarlo uomo, che dopo anni di violenze, inutilmente denunciate, contro la moglie, ammazza il figlio che cercava di difendere la madre. Piccolo dettaglio, il figlio è adottivo. Un  articolo del codice penale stabilisce che l’omicidio di un figlio adottivo è “un po’ meno grave”, perché manca l’aggravante del “legame di sangue”. Non si può certo applicare una aggravante che non c’è, per carità. Questo sarà il primo caso della storia, ma dimostra che i genitori adottivi sono persone umane e possono essere degli stronzi come chiunque altro. Smettiamola una buona volta con le questioni di lana caprina. Un assassinio è un assassinio. Va valutato caso per caso? Certo. Possono esserci delle attenuanti, delle aggravanti, secondo le situazioni? Ovvio. Io non dico neanche che questo tizio meriti necessariamente l’ergastolo. Ma non venite a dirmi che non lo merita perché dopotutto ha ammazzato un figlio che era “solo adottivo” Questa donna che ha dovuto sopportare anni di maltrattamenti, alla fine ha perso suo figlio. Suo figlio cazzo! E adesso si deve sentir dire che dopotutto quello che le è stato ammazzato era un po’ meno figlio? Era talmente figlio, che ha avuto un coraggio che nessuno gli ha riconosciuto, che nessuno ha sbandierato ai quattro venti, appropriandosene per farne un simbolo di qualcosa. Aboliamo questo comma cretino e immorale, vi prego.

Il mio cuore è un segreto

Il mio cuore è un segreto, chiuso in una conchiglia.
Di notte sento il mare
e mi passa tra le mani come una nostalgia
di chiare spume e creste d’onda, e di fondali oscuri.
Si spande sull’acqua la danza del mondo,
la carezza delle montagne è un dono del tempo
sigillo dell’ignoto sui miei giorni più felici.
È una stagione, questa, di passaggi stanchi tra le foglie,
alberi in viaggio e capricci di vento.
Un riverbero improvviso mi abbaglia
come un lampo d’allegria, poi
una lacrima
scende
lenta
acqua con acqua
sale con sale
tu
ed io
fango e terra, polvere e cenere
ciò che eravamo torneremo ad essere
ma la tua scia resta, nella tenerezza del vento;
cerco una breccia all’orizzonte, il solco azzurro
sotto il triangolo bianco della vela, il canto del viaggio
che illuda il nostro acquario con la felicità dell’oceano.
Allora ricompongo i miei uccelli interni, i miei spaesamenti
e ritrovo le nostre impronte mescolate sulla sabbia
tu
ed io
un disordine
fertile
una breccia
orme
che restano
nonostante il mare.

Ancora qualche film del 1924

Ecco i film che sono riuscita a vedere in questi giorni, tutti del 1924, ne manca ancora qualcuno che vorrei vedere, ma direi non più di due o tre perché poi devo passare ai successivi, altrimenti non ci arrivo più. Se siete curiosi di trovarne altri, inclusi quelli cecoslovacchi e quelli di Murnau e altri che non ho neanche il coraggio di provare a vedere, la mia fonte è questa.

America, di D.W. Griffith: Griffith è considerato uno dei padri del cinema, da questa pellicola mi parrebbe anche uno dei padri del mito fondativo americano. La rivolta contro la madrepatria, che condurrà alla Dichiarazione d’indipendenza, è anche l’occasione per buttar li un paio di valori, veri o presunti, e di tratti del carattere che si vorrebbero caratteristici degli Americani, appunto. Quindi la libertà in primo luogo, lo spirito di iniziativa, l’amore e la fede nella giustizia che danno forza tale da vincere su un nemico più forte e meglio armato, la cavalleria che arriva all’ultimo momento a salvare la situazione, ecc. Coraggio, romanticismo e libera impresa. E un bel po’ di razzismo. Neanche a quell’epoca tutti accettavano l’idea di considerare gli Indiani solo come dei selvaggi. Però è un film che tiene benissimo la tensione, con una storia avvincente, una famiglia divisa da opposti ideali, un amore contrastato per via della diversa condizione dei due giovani in questione, ambizioni personali, tradimenti… Grande cinema, e anche visivamente notevole.

A proposito di Griffith e di iniziativa personale, ci sarebbe anche Isn’t Life Wonderful, ma non sono riuscita a trovare la versione completa, solo questa:

che arriva a meno di metà. È la romantica storia di un amore in tempo di guerra.

The Navigator, con Buster Keaton: un incanto, ho già cambiato idea su di lui, il primo che avevo visto non mi aveva divertito molto, questo è delizioso, un gioiellino. Storia di un ragazzo un po’ sciocco e molto innamorato che per una serie di vicende si trova su una nave alla deriva con la ragazza dei suoi sogni. I due dovranno ingegnarsi, novelli Robinson Crusoe, e si troveranno persino ad affrontare i cannibali, ma la fortuna spesso aiuta gli ingenui alla Giufa’…

E altrettanto delizioso è Sherlock jr. (La Palla n. 13 in italiano),

buffa storia di un giovane che si improvvisa investigatore per ingenuo spirito di avventura, per amore e per difendersi da un’accusa ingiusta.

Poi c’è Erich Von Stroheim. Ho voluto vedere questo suo “Greed“, considerato tra i massimi capolavori della storia del cinema, tra l’altro nella versione del 1999,  che ha cercato di ricostruire il film vicino a com’era in origine, senza i tagli imposti dalla produzione, che lo avevano ridotto quasi della metà.

Ero dell’idea che non mi sarebbe piaciuto, quindi potete pure considerarsi prevenuta, ma in questo caso non l’ho cambiata affatto. Nonostante una tecnica sicuramente da grande cinema, nonostante il racconto dipanato con maestria prevalentemente attraverso scene statiche come fotografie, ma che in molti casi hanno l’espressività di quadri.

Detesto però cordialmente il suo moralismo. Alla madre del protagonista, inizialmente un minatore nelle cave della California, si rimprovera di aver avuto per il figlio l’ambizione di qualcosa di meglio. Il padre del ragazzo è un alcolizzato della peggior specie. Il giovane riesce a farsi assumere come assistente di un dentista che sembra in realtà più un ciarlatano, e in seguito apre un suo studio. Conosce Trina e se ne innamora, ma “sotto a tutto ciò che c’era di buono in lui, scorreva il male ereditario”. What??!!

Quasi tutti i personaggi sono tremendi, in alcuni casi sembrano più maschere grottesche che persone, esemplari di una miseria morale infinita, e non sarebbe un male se non fosse che si vede solo quella, come se fosse l’unico aspetto umano esistente, o l’unico degno di essere raccontato. Fortemente melodrammatico e al tempo stesso stranamente freddo, i suoi personaggi non escono dal ruolo di esemplari da laboratorio. Non l’ho ancora finito, non so in effetti se lo finirò.

Infine ho provato con Ridolini, in particolare questo

che in effetti è del 1922, ma non ho trovato a quale corrisponde “Il re della risata” che dovrebbe essere del 1924. Poco male. Non so se ritenterò, probabilmente no.

Insomma, ce n’è per tutti i gusti, a voi la scelta!

Robin’s Monday – Le infinite possibilità di una sciarpa

All’Actors’ Studio nel 2001, una delle cose di Robin che amo di più, e capite che non ce n’è neanche una che io non ami alla follia, o quasi, figuratevi un po’… Questo è un frammento, nella puntata lui passa con l’abituale apparente facilità dal tono serio e quasi intimistico alle sue invenzioni geniali. Qui mostra il funzionamento della sua mente, si prende un po’ in giro perché dicevano sempre che era troppo veloce per qualunque comune mortale, e in effetti Lipton sembra a tratti un po” annichilito. Come sempre, poi, Robin crea mondi. Universi. L’immaginazione più sfrenata della storia, accompagnata da un cuore così grande da essere quasi incomparabile.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA- ancora da “La saggezza del mare”

Non è forse per trovare un senso a un’esistenza altrimenti inspiegabile che tanta gente cade vittima di ogni genere di guru, di astrologi, di capi di sette, di veggenti e di profeti, di dei veri e fasulli?

Un tempo, molto prima dell’invenzione dei sofisticati strumenti di navigazione elettronici del giorno d’oggi, con i quali si può stabilire la propria posizione con pochi metri di approssimazione, si navigava a stima, ovvero senza altro aiuto che la rotta e la velocità.

A quei tempi, i bravi navigatori sapevano che una posizione calcolata in quel modo diventava sempre meno affidabile man mano che ci si allontanava dal punto di partenza. (…) Una posizione stimata viene dunque sempre rappresentata come un cerchio. E più a lungo si naviga, più il cerchio si allarga. Il navigatore avveduto tiene sempre conto di questa incertezza, allarga in continuazione il suo cerchio, senza illudersi che la sua nave si trovi al sicuro, al centro del cerchio, invece che esposta ai pericoli, alla sua periferia.

In mare si era dunque obbligati a vivere nell’incertezza. In mare era più pericoloso credere di sapere troppo che troppo poco. In mare si era obbligati a mettere l’inspiegabile tra parentesi, a sospendere la propria ricerca di significato, a lasciare che l’inspiegabile restasse inspiegato senza che per questo occupasse tutti i propri pensieri.

(…) Paradossalmente, proprio adesso che le nostre conoscenze sembrano aumentare sempre più, si direbbe che abbiamo un bisogno di fede sempre maggiore. (…)

Quello che si ha tutte le ragioni di chiedersi è perché mai dovremmo credere qualcosa di cui non sappiamo niente. Perché facciamo così fatica a vivere nell’incertezza? Perché sono così pochi quelli che osano vivere a navigazione stimata?

(Björn Larsson, La saggezza del mare, Iperborea, traduzione di Katia De Marco, p. 67)

Piccoli pensieri

Quando viaggio mi sento di più nella tua pelle, e ti sento di più nella mia.

Sto costruendo ricordi che non sono i “nostri” ma sono ricordi in cui io ci sono e tu sei così vicino che quasi arrivo a toccarti.

È questa tua presenza nella mia quotidianità, che speravo di riuscire a reggere, e invece no, è quella che sostiene me.

Pensieri sul viaggio, seconda parte

Qui la prima parte

Così, l’insicurezza, il perdere le cose, la timidezza che si fa più forte nei posti che non conosco e dove parlo una lingua che non padroneggio, sono curiosamente parte di quello che cerco. Mi arrabbio con me stessa, mi lascio a volte prendere dallo sconforto, persino da qualcosa di simile alla disperazione: e adesso, come faccio?

Poi, in qualche modo si fa. Un po’ di riposo, una doccia, e la prospettiva cambia radicalmente. Trovo risorse, risolvo difficoltà, ridefinisco i miei limiti. Forse sta qui il segreto, è impossibile superare un limite, qualunque esso sia, rimanendo fermi. Naturalmente, esistono molte forme di movimento, non è necessario spostarsi materialmente. Ma per quanto mi riguarda, ho trovato che viaggiare mi aiuta a muovermi anche in altri sensi possibili.

È buffo, ad esempio, che dopo aver accolto con entusiasmo l’incontro in Germania con altri che parlavano italiano, per poter condividere più agevolmente anche le sensazioni provate nel trovarsi all’estero, al mio ritorno in Italia io abbia fatto per qualche giorno particolare attenzione alla lingua tedesca, sia quando realmente qualcuno la parlava, sia anche quando ero io a percepirne implausibilmente gli echi nei suoni, così (apparentemente?) diversi di quella italiana.

Possibile che io sappia essere felice solo sognando il ritorno a casa, e non a casa? Sia ben chiaro, non per motivi legati alle persone che ho accanto, ma a un’insoddisfazione tutta mia e forse anche irrimediabile?

Alcuni incontri occasionali vorrei che si trasformassero in amicizie durature, pur sapendo che se accadesse, non sarebbero altrettanto preziose, o meglio, lo sarebbero in modo diverso, non farebbero più parte del desiderio di tornare là dove sono avvenuti, e certo non diminuirebbero il desiderio di ripartire. Diventerebbero forse parte della nostalgia, e la nostalgia dopotutto è una delle emozioni di cui andiamo in cerca quando viaggiamo, perché altrimenti rivedremmo la casa con gli stessi occhi con cui siamo partiti, e allora, cosa saremmo partiti a fare?

La stessa nostalgia, poi, che ci coglie quando ci troviamo di passaggio in un luogo in cui pensiamo di voler vivere, e in cui non vivremo mai. Infatti, l’unico posto al mondo in cui non ho provato nostalgia (non per il luogo stesso, cioè, né per il ritorno), è anche l’unico in cui voglio davvero vivere.

Forse, e credo di averlo già scritto da qualche parte, sicuramente l’ho già pensato, perché io possa chiamare un luogo “casa”, bisogna che sia esso stesso un luogo in viaggio, e che trasmetta il suo movimento a chi vi abita. Anche in quel caso, spero che la voglia di viaggiare non mi abbandoni mai, ma allora, forse, sarei tanto felice della partenza quanto del ritorno, tanto felice lontano da casa quanto verso casa, e almeno altrettanto a casa. Forse, anzi, viaggerei allora davvero solo per poter tornare.

Il cuore non tradisce

Ma il cuore, il cuore non tradisce mai, siamo noi semmai a tradirlo, e a scaricargli poi addosso la colpa di ogni nostro affanno, di ogni malessere fisico e di ogni dolore, persino della nostra morte. Si è fermato il cuore… no, il cuore non si ferma senza ragione. Non lo ascoltiamo, nemmeno quando manda dei chiari segnali che qualcosa non va, ma lui ci ascolta, invece, ci ascolta e resta con noi sempre,  in attesa che capiamo finalmente quando è tempo di restare, e quando viene quello di andare.

Pensieri sul viaggio, prima parte

Cosa cerco in questo inseguire il paesaggio che cambia? Il verde intenso delle foreste germaniche, smeraldo scuro, quasi cupo, mantiene un vago senso di inquietudine nonostante la sua bellezza, nonostante la grazia delle cascate di gerani pendenti dalle finestre incorniciate da travi di legno e i pomodori coltivati nei pressi del Bodensee. Nonostante il sole, che fa breccia di frequente tra nuvole in costante movimento: siamo dopotutto in quella che è stata definita la zona più calda e soleggiata della Germania. Ma l’inquietudine è solo sopita, temporaneamente relegata in un angolino, ma non scomparsa.

Tornando in Italia, le morbide colline del centro-sud, con i loro colori già quasi autunnali (scrivevo una decina di giorni fa), apparivano rassicuranti. Non più solo il verde e il rosso, ma infinite tonalità di verde chiaro e scuro, giallo, arancio, castano, lilla, violetto, blu.

Poco dopo, però, la morbidezza dei declivi ha dato luogo a dirupi scoscesi, intervallati da monti che visti dal finestrino dell’autobus da viaggio sembravano altissimi e selvaggi, invasi da boschi impenetrabili – che pure sono stati penetrati, perché qua e là la roccia si fa nuda, e gli scavi dell’uomo profondi, violenti, intrusivi.

Le sporadiche case paiono rifugiarsi nel minuscolo spazio che le pareti a strapiombo hanno lasciato loro,  un anfratto dove nascondersi da certi rischi, affrontandone tuttavia altri non meno gravi.

Perché quella fitta di delusione che avverto quando il mezzo giunge a destinazione? Fitta che poi svanisce, subito dimenticata come se non fosse mai esistita, non appena comincio, messo il primo piede a terra, a esplorare il territorio, muovervi i primi passi incerti e camminare poi con crescente sicurezza, impadronirmi a poco a poco dei nomi delle strade e delle loro direzioni, del loro incontrarsi e allontanarsi.

Trovo altri mezzi di trasporto per spostarmi, inoltrarmi nei segreti del centro, della periferia, e poi spesso anche di luoghi vicini ma separati, con una vita a sé. Mi prende quel caratteristico tuffo al cuore, di quando si inizia a fantasticare su una possibile casa futura, si getta un occhio ai cartelli affissi agli appartamenti in vendita o in affitto, persino ai prezzi, passando davanti a un’agenzia immobiliare, sapendo benissimo che non sarebbe certo quella la meta del prossimo trasferimento, e nondimeno credendo profondamente ai propri sogni momentanei, perché li si fa col cuore, ci si riflette sopra, si valutano pro e contro come se fossero progetti reali.

Trovare il familiare nell’estraneo e l’estraneo nel familiare, scrivevo qualche giorno fa. Credo non fosse tanto diversa l’emozione degli esploratori che piantavano bandiere nei posti in cui l’uomo (o anche solo l’uomo occidentale, sia pure) metteva piede per la prima volta. L’idea di appropriarsi di un frammento di universo, non tanto in senso materiale, quanto cognitivo. Per il sovrano, la bandiera indicava un territorio in più aggiunto al suo dominio, l’ingrandimento del proprio regno e del proprio potere, ma immagino che per gli esploratori avesse piuttosto il senso di una possibilità, di un’ipotesi, l’idea che quel luogo sconosciuto, e come tale inquietante, potesse diventare noto.

Era l’opportunità, che importava. Fino al momento che immediatamente precedeva la sua realizzazione, dopodiché l’ignoto cessava di essere tale, perdeva gran parte del suo fascino, e allora bisognava ripartire.