C’è qualcosa che non quadra. Le mie notifiche mi dicono che con l’ultimo iscritto al blog siamo a 998, mentre per le statistiche sono arrivata a 1000. Non si vince niente comunque, però mi sarebbe piaciuto inserire un omino a molla che accogliesse l’iscritto in questione come nei siti seri: “Che fortuna, sei il millesimo iscritto, benvenuto!”
Non sarei comunque in grado di farlo, però comunque un’infinità di grazie ve li devo in ogni caso, a tutti. Che siate 998 o 1000, siete comunque un numero grandissimo, e poi lo so che quelli che davvero seguono sono molti di meno eccetera, però insomma, siete approdati qui nei vostri vagabondaggi, vi è venuta comunque voglia di cliccare su “segui”,magari addirittura su “segui via email”, perfino (come diceva Svicolone, qualcuno se lo ricorda?).
Beh, insomma io sono felice e volevo dirvelo, ecco.
A questo link si parla del numero 25 di una rivista di letteratura online molto bella, Euterpe, di cui mi onoro di far parte con una poesia, ma in cui trovate anche altre poesie e narrativa, articoli, critica letteraria, interviste, concorsi e altro ancora.
Con La Febbre dell’oro passo finalmente dai film del 1924 a quelli del 1925. Ci avviciniamo a larghi passi alla nascita del sonoro! Questo è il film con cui Chaplin torna al personaggio di Charlot, dopo un tentativo sfortunato di abbandonarlo almeno temporaneamente con La donna di Parigi. Non so se posso permettermi di dirlo, ma non mi è piaciuto quasi per niente. Più precisamente, mi sono molto annoiata. Per attenuare però la severità del giudizio, aggiungerò che credo molte cose mi siano sfuggite per mia distrazione, e che mi succede non di rado di dover guardare un film almeno un paio di volte per apprezzarlo (ovvio che lo faccio solo con quelli per cui penso che ne valga la pena, e per un film di Chaplin ne vale la pena comunque). Per il momento, Il Monello mi è piaciuto decisamente di più (ma poi, quello lo avevo già visto una prima volta tempo prima).
Brevemente, comunque, è la storia di un cercatore d’oro solitario e della sua lotta contro freddo, fame (che pare che Chaplin avesse sperimentato personalmente, e per questo dipingesse sempre la situazione dei poveri con molta empatia) e avidità, che sfocia anche talvolta nella violenza. L’omino è buffo, destinato a essere preso in giro e a far da vittima ai prepotenti, ma la sua tenerezza e onestà daranno il loro frutto. C’è sempre una delicatezza di fondo, in effetti, che comunque mi spinge a vedere i film di Chaplin fino in fondo, e magari a riguardarli. Alcune scene poi hanno fatto la storia del cinema, dalla trasformazione del Vagabondo in un pollo davanti agli occhi dell’amico affamato, alla casa in bilico sul burrone, alla danza dei panini (informazioni in parte tratte dal sito di mymovies).
Al momento sto guardando The Phantom of the Opera, mi incuriosisce ma non garantisco di riuscire a vederlo tutto, vi saprò dire…
Sto lavorando e purtroppo non riesco a fare di più, ma il lunedì di Robin non voglio saltarlo. Una piccola frase, ma riassume bene quello che è stato l’amore di Robin per il suo lavoro, sempre svolto per passione, mai inseguendo il successo a ogni costo, ma ottenendolo semplicemente perché arrivava al cuore delle persone passando dal proprio.
Quando il tuo primo film viene fatto a pezzi, beh, questa cosa mi ha temprato. Curiosamente, è una specie di dono… Hai combattuto la tua prima battaglia. Non è stata una completa vittoria, ma non ti hanno proprio massacrato. Per cui, vai avanti.
(Robin Williams)
“Uno capace di fare Il mondo secondo Garp, Mosca a New York, Club Paradise e Good Morning, Vietnam in rapida successione negli anni ’80, nel pieno del suo fulgore, non ha evidentemente il benché minimo timore riguardo al tipo di carriera che ‘dovrebbe’ intraprendere” (Tim Grierson, Perfectly Imperfect, Saying Goodbye to Robin Williams).
Non so cosa mi prende a volte, mi sono fatta venire il mal di gola gridando per una cosa che mi tocca, evidentemente, ma nemmeno io so perché. Ho imparato a non gridare quasi più per le cose quotidiane, vicine, ma quelle lontane a volte fanno male, immagino si tratti di princìpi, valori, ma cosa mi spinge a gridare e a prendermela così calda, poi con persone di cui largamente condivido la visione della vita? Di cosa ho paura? Forse, in realtà, sono solo molto stanca.
Ti ho parlato degli anni d’acqua,
rassegnati a prendere la forma del bicchiere
o scivolati sulla pelle, senza lasciare traccia.
Ti ho parlato degli anni di sale,
rimasti in bianche distese inaridite al sole,
abbaglianti e amari, come la verità e la poesia,
Degli anni delle scarpe strette, anche,
quando il cammino era ferita dei piedi,
e le piaghe ricucivano gli orli del tempo.
E ancora, degli anni di terra,
trascorsi a mettere radici un po’ dove potevo
senza perdere la libertà dei semi di volare.
Degli anni di pietra, infine,
il duro lavoro di costruirmi casa, perché non fossero
troppo nudi i miei pensieri, troppo scoperte le spalle.
Ora ti parlo degli anni in cui vivo,
la mia carne a far da eco ai desideri, e tu, acqua e sale,
tu amore mio, ferita e terra, radice, e pietra, e casa.
Ancora in inglese! Mi dispiace che questi materiali che io amo tanto siano introvabili in italiano, anche se ne comprendo il motivo. Mi piacerebbe tradurli e inserire i sottotitoli, ma al momento non posso aggiungere anche questo ai miei cinque lavori… C’è da dire che almeno in parte sono godibili lo stesso.
Robin ha sempre detto di dovere a Jonathan Winters forse più che a chiunque altro: in questo video si vede molto di ciò che li accomunava e che in parte Robin ha imparato dal suo maestro: le capacità interpretative, mimiche e di improvvisazione, e ancor più la determinazione di mettersi in gioco sempre, di essere profondamente onesti, al punto da condividere nella propria arte anche pezzi tutt’altro che secondari della propria vita; ma anche l’idea che ci si potesse divertire moltissimo, osservando e raccontando il mondo e sé stessi, senza per questo smettere di giocare. Era come vedere l’uomo dietro la maschera, e ti accorgevi che i suoi personaggi erano un modo fantastico per parlare di cose dolorose. Così Robin parlava di Winters in un’intervista a Playboy – e mi viene da pensare che ci voleva lui, per spiazzare tutti ed essere serio proprio quando ci si sarebbe aspettati il contrario. Naturalmente l’allievo avrebbe poi ampiamente superato il maestro, ma è bellissimo vedere questo affetto, che li avrebbe uniti del resto per tutta la vita, fino alla morte di Winters nel 2013. Enjoy 😀
L’immagine della bontà è spesso collegata a un rapporto confidenziale e amichevole con le cose, a una rispettosa familiarità con gli oggetti, a un’attenta e sapiente capacità di maneggiarli con abilità, ma anche con cura e riguardo. La gentilezza rivolta alle persone, agli animali, alle piante si estende, spontaneamente, alle cose. al bicchiere in cui infila il fiore; la bontà è anche nelle mani, nel modo in cui si tendono verso altre o prendono un portacenere dal tavolo. L’attenzione, è stato detto, è una forma di preghiera, il riconoscimento della realtà oggettiva, di un ordine, di confini; un modo di guardare al di là e al di sopra del proprio Io, di sapere che nessuno è il satrapo tirannico e capriccioso del mondo né può devastarlo a suo arbitrio, come ci accade in quei penosi e impotenti scatti di collera in cui, non potendo distruggere noi stessi, gli altri o l’universo, facciamo a pezzi il primo oggetto che ci viene a tiro. C’è una robusta bontà delle mani, proprio di chi bada all’altro e non si concentra sterilmente solo sulle proprie smanie; assomiglia all’infanzia, la cui fantasia si accende per un sasso o per una scatola di fiammiferi vuota, e assomiglia soprattutto all’arte, che non esiste senza questa sensuale, curiosa e scrupolosa passione per la concretezza fisica e sensibile dei particolari, per le forme, i colori, gli odori, per una superficie liscia o spigolosa, per la rivelazione che può venire dall’orlo della risacca o dal bottone fuori posto di una giacca.
Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Oscar Mondadori
The Saga of Gösta Berling, dal primo romanzo di Selma Lagerlöf, quando ancora non era famosa (e lo sarebbe diventata con quel libro), il primo film con Greta Garbo, quando ancora non era famosa (e da questo film è stata lanciata). Inizialmente l’avevo giudicato noiosino e moralista per i miei gusti, mi sono in parte ricreduta, specialmente sul primo aggettivo. No, in realtà “prende”. Un po’ moralista lo è, anche se non tanto quanto pensavo. È che in questo momento il moralismo, anche a piccole dosi, mi provoca strani sintomi, sicuramente di origine allergica. Per i tempi è comunque più moderno di quanto si potrebbe pensare, è una specie di romanzo di formazione in cui il protagonista (Lars Hanson), un sacerdote di buon cuore ma dedito all’alcol, viene “spretato” per questa ragione ed evitato da tutti. L’unica che gli dà lavoro lo fa per suoi motivi del tutto ignobili. Da lì, Gösta passa attraverso amori, tentativi di redenzione, fallimenti, fino a convincersi di essere la rovina per tutti coloro che lo amano, quando in realtà la rovina è spesso causata almeno altrettanto dai vizi di chi lo circonda, ammantati di perbenismo. Non svelo il finale, naturalmente 🙂
Peter Pan di Herbert Brenon, con Betty Bronson nel ruolo principale. La differenza tra il teatro fiabesco e quello realistico è che nel primo tutti i personaggi sono in effetti bambini, con uno sguardo bambino sulla vita. Questo vale tanto per i cosiddetti adulti della storia quanto per i protagonisti più giovani. Togliete la barba al re delle fate, e scoprirete il volto di un bambino. È lo spirito di questa commedia. Ed è indispensabile che tutti voi – non importa quale età ciascuno abbia raggiunto – siate bambini. PETER PAN per gioco getterà polvere di fata nei vostri occhi ed ecco! Tornerete subito all’infanzia, e crederete ancora alle fate, e lo spettacolo andrà avanti (dalla nota di James Barrie). Ho sempre amato Peter Pan. Un giorno ho scoperto che era anche tra le storie preferite di Robin Williams e che il film di Disney era, tra i cartoni animati quello che amava di più. Non mi ha stupito, ma è stata una bella conferma. Questo primo film del 1924 è incantevole e spiritoso, a partire dalla reazione molto britannica di Mr. Darling quando la moglie gli racconta del ragazzino che era entrato in casa qualche notte prima, accompagnato da una sfera di luce che si muoveva per tutta la stanza come una cosa viva, e che aveva dovuto lasciar lì la propria ombra, rimasta chiusa dentro quando lui era volato fuori dalla finestra (this is very unusual).
Paris qui dort, primo film scritto e diretto interamente da René Clair. Un giorno Parigi si addormenta. Davanti agli occhi stupiti e anche un po’ irritati del guardiano notturno della Tour Eiffel, la città appare immobile e semivuota, e le poche persone che vede sono immerse in un sonno profondo e molto particolare, essendosi immobilizzate evidentemente tutte insieme, ciascuna nella posa in cui si trovava in quel momento come quello del castello della Bella Addormentata. Solo lui e un gruppo di cinque persone arrivate in aeroplano sono sfuggiti, grazie all’altezza a cui si trovavano, a quello strano fenomeno, che si scoprirà essere dovuto a un raggio misterioso… Il film, girato nel ’23, uscì nelle sale nel 1925 in seguito al successo del cortometraggio Entr’Acte, di cui avevo parlato nelle puntate precedenti. È considerato un precursore del genere fantascientifico. Grande maestria nel padroneggiare tutte le tecniche conosciute, ma non posso dire che mi sia particolarmente piaciuto.
Rupertof Hee-Haw, con Stan Laurel, una parodia di “Rupert di Hentzau, seguito del Prigioniero di Zenda, di cui pure avevo parlato. Carino, mediamente direi che preferisco Stan Laurel senza Oliver Hardy e che comunque dall’uso che fa delle didascalie, pare non veder l’ora che arrivasse il sonoro. La sua comicità si basa sulla mimica facciale ma anche sulle parole, in larga misura, e a me questo piace.
Il prossimo sabato, 18 novembre, sarò a Seravezza (Lucca), mi sono classificata quarta al Premio Michelangelo Buonarroti dell’Associazione Arte per amore ed è una grande soddisfazione anche per il numero di partecipanti. La premiazione sarà al Teatro delle Scuderie Granducali di Seravezza (Patrimonio Mondiale UNESCO) Viale Leonetto Amadei n. 230. Io lo dico, spero sempre di incontrarvi, ed è anche l’occasione per vedere un posto che credo sia splendido 🙂
FINO AL MARE (che alcuni hanno già visto) inizia così:
Il mio cuore è un gatto che sonnecchia al porto, tra le immobili navi e le reti e d’improvviso con balzo felino scatta, come avesse visto qualcosa che nessun altro vede […]
Il resto qui, dove trovate anche una specie di introduzione, pensieri in libertà che accompagnano la poesia (ma che non ho inserito nella versione inviata al Premio).