Una stroncatura

Forse salutare, ma che colpisce duro.

Avevo mandato il mio libro su Robin al Premio Calvino (forse sono stata davvero troppo ambiziosa) e del resto ero ben consapevole che quando si manda un proprio scritto a un concorso che fa delle schede di lettura uno dei propri punti di forza (era uno dei motivi principali per cui lo avevo fatto), ci sta anche il giudizio impietoso.

Struttura rigida, elaborato privo di qualsiasi sistematicità, e soprattutto la figura di Robin ne uscirebbe “sempre impeccabile e perfetta nei tratti (da risultare presto disumanizzata e quindi fortemente irreale, quasi ci si trovasse di fronte a un santone)”, oggetto di una “divinizzazione ossessiva” in un “discorso che finisce per fare dell’autoreferenzialità il suo tratto caratteristico” (cazzo se colpisce duro, a riportarne qui i punti salienti mi fa stare di nuovo malissimo). Anche della scrittura, pur dando atto di una buona padronanza della lingua, viene detto che si muove sempre su territori comodi e (fin troppo) facili”. E dire che io ho sempre timore di non riuscire a scrivere in modo sufficientemente “semplice”.

.Colpisce duro anche perché so che c’è molto di oggettivamente vero. Specialmente in questi ultimi giorni, stavo cominciando a rendermene conto un po’ anch’io, ma non credevo fino a questo punto, e insomma… avevo proprio adesso cominciato a lavorarci di nuovo, pensando di avere trovato una strada migliore, senza dover rivoluzionare tutto, e forse lo penso ancora, ma… oh, cazzo…

(scusate, lo sapete che di solito sono una signora, più o meno, sono solo temporaneamente un po’ out of my mind).

Qui tutto brucia

Qui tutto brucia,
la culla antica
e quella nuova,
i sogni dei vecchi
e i miei.
Questo rigagnolo di fango
non è il mio fiume
questo deserto di sale
non è l’oceano,
solo un letto vuoto
per le ceneri sparse.
Incontro solo briciole
di stelle frantumate
da un pianto inconsolato.
Alla voce del dolore
scivola la nostra innocenza
tra le mani come sabbia
la pietra dello scandalo l’abbiamo
già scagliata molte volte, siamo
senza peccato, senza
un onore da difendere
ci tagliamo i piedi con
percorsi affilati, ci graffiamo
le braccia con errori taglienti
e con artigli di ferro dilaniamo
la nostra carne
e la terra.
Sai che ho spalle forti, mani grandi,
anche se screpolate dalla rabbia,
La cattiveria ci rovina la pelle,
crea inestetismi, indurisce le vene;
ma possiamo affacciare
le nostre labbra sul silenzio,
raccogliere dal pavimento
la sabbia e il latte versato
scrivere perché piova
perché torni l’oceano
a lambire le coste
della nostra fragilità.

Lo stupore dei corpi

Vorrei darti le tre linee rosse sul mio ventre,
dove s’è incurvato all’annoso peso del dolore;
le pieghe della fronte, ché nei pensieri t’assomiglio;
le cicatrici delle vaccinazioni sulle spalle,
per ricordare che ci vuole impegno per guarire
e perché è dalle ferite che s’impara il volo;
vorrei darti le rughe dello sguardo, i segni
del mio sorriso sulle labbra, come stelle screpolate;
i calli duri sotto i piedi, la pelle che invecchia,
ma lentamente, negli angoli nascosti;
il sale nell’acqua, perché il mare ci serve,
e le spine tra le more e sui gambi delle rose,
perché tu capisci tutto quello che c’è dietro.
Dimmi che il cielo ti contiene, non credo
a un paradiso senza lo stupore
dei corpi, la meraviglia delle dita, gli usi proibiti
delle mani e della lingua, a un paradiso senza il freddo
e la saggezza del brivido caldo che scorre nelle vene.
Dimmi che il cielo ti contiene, che è abbastanza grande,
non credo
a un paradiso senza i tuoi occhi.

Libertà, solitudine e lati segreti

Il buffo è che a vent’anni quasi sicuramente non ti avrei potuto sopportare, se avessi avuto il privilegio di conoscerti personalmente. Parlo dei tuoi vent’anni di casanova sboccato ed esibizionista, alla costante ricerca di attenzione, sia pure “in a very endearing way“; e più ancora dei miei vent’anni, di ragazzina alla disperata ricerca di libertà, ma senza la capacità non dico di conquistarsela, ma neanche di riconoscerla.

Eppure, chissà. Nel gioco che ho fatto recentemente, dei dieci libri della vita, mi sono resa conto che un filo conduttore comune c’è, anche se non ne ero consapevole, ed è proprio questo: voler imparare la libertà. Da Mark Twain a Salgari, da Larsson (Björn) a Calvino, dalla Yourcenar a Fosco Maraini, a Giordano Bruno, a Pippi Calzelunghe, per dire. E fino a concludere, inevitabilmente, con un libro in cui si parli di te. Realizzando che ci sono privilegi che rischiano di costare davvero moltissimo, ma per i quali vale la pena di pagare qualunque prezzo. Qualunque.

Sono stata insofferente, in questi giorni, irrequieta, spesso silenziosa, travolta da parole caotiche che non volevano saperne di riordinarsi in qualsiasi modo. Tanto che mi pareva di avere la mente vuota, e in realtà era colma fino all’orlo. Così ho capito meglio alcune cose che già sapevo, ma non si finisce mai di conoscere qualcuno, anche se quel qualcuno siamo noi stessi. Ho capito, tra l’altro, che più invecchio, meno riesco ad adattarmi; che, ad esempio, non sopporto i villaggi vacanze (anche se per i figli faccio un sacrificio), e avrei voluto, sai, partecipare di più, sapendo che se avessi dimenticato per un momento l’antipatia per le attività organizzate e tutte quelle che richiedono di compiere gli stessi movimenti nello stesso tempo, probabilmente mi sarei anche divertita. Ma non ce l’ho fatta proprio, e questa difficoltà a lasciarmi andare mi pesa ancora, benché abbia imparato a perdonarmela e, grazie a te, a comprenderla meglio.

Soprattutto, ho capito di avere un bisogno assoluto di solitudine, non dico per la mia sopravvivenza, ma quanto meno per essere poi in grado di stare con gli altri. Perché non è che non mi piaccia stare con gli altri, tu capisci. Tutt’altro. È che ci sono parti di noi che neppure con chi ci conosce più da vicino possiamo condividere.

Sono riuscita a leggere un po’, non tanto quanto avrei voluto, ma ho ripreso in mano Huckleberry Finn, perché cercavo una voce, potrei dire così; e il giorno del tuo compleanno l’ho trascorso leggendo la tua biografia, scritta da Dave Itzkoff, a ripassare  le tue meravigliose contraddizioni, quella qualità che ti rendeva, nell’attraversare esperienze tutto sommato ordinarie, così fuori dall’ordinario.

Allora ho capito meglio anche altre cose. Quell’essere uno “sportivo atipico”, un “ribelle atipico”, un “lettore atipico”, insieme agli altri spesso, individualista sempre. Narcisismo e riservatezza, cuore in mano e quel lato segreto, che poi è quello che ti permette di dire “sono forse così, solo perché è così che tu mi definisci”?

Mascherarsi e disvelarsi in un continuo gioco che, come il teatro, del resto, ti consente di andare “oltre” ben più di quanto lo potrebbe una pretesa totale sincerità; presentandoti, poniamo, come uno straniero, parlando una lingua non tua, che, si sa, è uno dei modi migliori per abbattere le barriere della timidezza e dell’abitudine, di mettere a nudo ogni aspetto anche solitamente nascosto della propria personalità, lasciandosi al tempo stesso una via di fuga, perché non si sa mai.

Il desiderio – e la capacità – di esserci sempre, di esserci per tutti, di immedesimarsi profondamente, eppure mantenendo quella distanza che a volte è salvezza, e in altri casi ti soffoca, ti annega in quella strana tentazione di allontanare le persone che ami, di creare il deserto intorno a te, che poi, se approfondisci, non è altro che l’umana e comprensibilissima esigenza di starsene un po’ per conto nostro ad assimilare pensieri ed emozioni di particolare intensità.

La solitudine come rifugio, paura e desiderio, la solitudine sfuggita e cercata, da cui nascono le tue risate e le mie parole. La solitudine, culla della meraviglia, del capovolgimento, del caos primordiale senza il quale nulla di vitale può nascere. La solitudine che ti scava dentro, per arrivare sempre più vicino al nucleo centrale, in una ricerca dolorosa e preziosissima.

E adesso (non intendendo rigorosamente adesso, ma anche, eventualmente, da domani) dovrò tornare a prendermi cura del mio libro su di te, e rimaneggiarlo un bel po’. Non snaturarlo, certo che no. Ma provare comunque a cambiare punto di vista, perché del resto tu continui a farmi ridere, ed è il modo più bello, per me, di cercare la verità, quella più profonda, quella a cui ci si può avvicinare, che si può amare profondamente, ma senza conoscerla mai del tutto. Visto che di biografie ce ne sono già, e anche molto belle, vale forse più la pena di provare a raccontare me, e arrivare alla ragione per cui possa succedere a persona normale (sia pure tra virgolette) di sceglierti come punto di riferimento in modo quasi casuale, e come da qui possa nascere uno degli incontri più magici e meravigliosi che possa capitare di fare nella vita: quello con un’anima che ti mette di fronte alla tua, e te la fa amare.

 

 

Ribellioni poetiche – Premio Poesia senza Confine di Polverigi (AN)

“La voce poetica di Alexandra Mc Millan è ribelle, voce di guerriglia e di frontiera: combatte “con parole viventi” pronunciando il no, dice Io – chi sono e cosa sono negli universi – per differenza e per scostamento. Le sue visioni riportano cosmogonie disvelate in una dimensione onirica di sguardo, dove la nebbia – avverbio – “generosamente regala alla terra il suo mistero fiabesco” di verità, contrario agli incanti degli imbonitori di città; sostiene che la Terra, maiuscolo habitat/contenitore, avrebbe, con le parole, “un rapporto quotidiano’, se solo l’uomo ricercasse il bianco, colmo, limpido silenzio d’amore ed imitasse Dio, vivesse in limine “solo per il piacere di oltrepassarlo”.

Con questa bellissima motivazione l’Associazione “La Guglia” di Agugliano (AN) ha assegnato il primo premio a tre mie poesie, C’era il fiume, L’inverno Parole, universi. E già dalle prime parole, a sentir definire la mia poesia “ribelle, voce di guerriglia e di frontiera”, mi sono sentita felice. Perché ho questa idea di una poesia che sia in qualche modo combattiva, ma non sono sempre certa di essere in grado di farla “arrivare”, e qui ho avuto la grandissima emozione di una lettura profonda  da parte di persone che sanno molto, molto bene di cosa parlano.

Ed ecco le tre poesie:

C’ERA IL FIUME

C’era il fiume, e un vento cattivo
creava gelide rughe in superficie;
c’era il sangue, e lo vedevo bene
spargersi su un confine immaginario.
Avevo il cuore in sospeso, perché
avevano sparato all’usignolo,
e la musica taceva, ferita quasi a morte.
Eri forse sulla riva? Tra tanti spettri
mi parve di vederti, prima che tu cadessi
e l’acqua si facesse rossa, poi pallida
di rabbia e di dolore adunco, rapace.
Mi parve di vederti, dicevo, e avevi
lo sguardo di chi muore all’improvviso
ma non è affatto colto di sorpresa
ché la guerra è questo e altro,
la guerra infanga gli stivali e il resto;
si scherza, si fuma e si muore
con lo stesso ironico sorriso
di chi sa che sarebbe stato meglio
nascere altrove. Ma è forse
un peccato agli occhi di Dio
essere creature di frontiera?
Io ho un’idea incorreggibile,
spettinata, forse un poco irriverente:
Dio
in fondo
dev’essere poliglotta
e di sicuro vive su un confine
solo per il piacere di oltrepassarlo.

L’INVERNO

L’inverno arriva sempre inatteso,
cadiamo come nevischio,
cristalli appesantiti dalla pioggia
e dalla grazia insostenibile dei desideri.
La perfezione del freddo
macchia l’anima come una morte ingiusta,
un deragliamento, una fame feroce.
Siamo tutti precari, soggetti
agli inganni del tempo, dei datori di lavoro
e dei pensieri in dormiveglia,
spezzati, inerti, le spalle incurvate
dalla monotonia delle rinunce,
dal nostro voltarci indietro, guardinghi,
in cerca di un sospetto, di un’ombra furtiva;
dalle luci spente dei cinema, che chiudono
sempre troppo presto, o troppo tardi;
dai negozi falliti, dalle stelle abbassate
come saracinesche, dai chiavistelli;
dalle città distrutte, dai deserti
geografici e dell’anima,
dalle oasi prosciugate, infertili,
dove l’ultima pioggia cadde
in un precedente infinito.
Costruiamo muri con le ossa dei morti,
col materiale di riporto del tradimento,
siamo troppo vecchi, troppo livore
ha ormai sferzato la nostra schiena,
per poterci commuovere ancora
ai nostri giardini sfioriti anzitempo,
e così inesorabili aspettiamo
solo l’arrivo dell’inverno.

PAROLE, UNIVERSI

Combatto con parole viventi, anime feconde,
le guardo dal mare, e la bellezza aspra del giorno
mi fende il cuore come la prua di un rompighiaccio,
tremo, ma lascio che da ciò che si spacca
emerga la mia anima segreta, l’ombra luminosa
che mi attardo a guardare prima che faccia giorno.
Con le parole la Terra ha un rapporto quotidiano,
i passi tra le montagne sono verbi, che attraversano
sassi crudi, portano alle valli luce ed acqua ai fiumi,
tracciano sentieri, inventano orme al tuo passaggio,
scrosciano e rumoreggiano, scandalizzano,
innevano e impioggiano, franano e frantumano,
illuminano e rabbuiano, muoiono e rinascono,
tra le vette e le pianure spauriscono la notte.
Gli alberi sono aggettivi vetusti, austeri, talvolta
un poco malmostosi, coriacei in apparenza, eppure
tutt’altro che inflessibili, ma generosi ai sensi e al tempo,
fino all’ultima fioritura, la più intensa, la più viva.
La nebbia è un avverbio, impenetrabilmente fitta,
avvolgentemente calda, brumosamente liscia,
generosamente regala alla terra il suo mistero fiabesco.
Le città sono nomi, sostantivi impetuosi, corpi
densi di case e strade, di voci e silenzi, di fanali
e d’altre luci, di cattiveria, di frodi e di errori,
di cani e gatti, di solitudine, di voglie e di fortune,
di incanti, fattucchiere, ciarlatani e giocolieri,
imbonitori, dulcamara, streghe e meraviglie
L’amore, invece, è un silenzio colmo, limpido,
bianca rifrazione di tutte le parole mai create,
materia di un universo così piccolo
da poterlo tenere in una mano, così grande
che non basta il mondo a sostituire un bacio.

 

Dormirti accanto

È che vedi, amore mio, conosco così a fondo la bellezza e il peso della solitudine, quel bisogno di entrare in contatto profondo con sé stessi, talmente refrattario a qualunque ostacolo esterno, che a volte si avverte come una furia di allontanare tutti, un’avversione per la gente e per il mondo, e non solo. Qualunque legame diventa stretto, e chi ti è vicino ha la sensazione di non conoscerti del tutto; quando poi, al tempo stesso, vuoi così fortemente lasciare una traccia negli altri, e la gioia che dai a chi ti guarda e ti ascolta (o chi ti legge, nel mio caso) è la tua gioia, ti rende felice come nient’altro è capace di fare, e tuttavia mai del tutto.

La malinconia, che i tuoi conterranei, così portati a prender troppe medicine, chiamerebbero probabilmente depressione, e non è. Perché c’è così tanta paura di essere infelici… La malinconia è tutt’altro, è quello che ti ha permesso, come una stella cadente, di illuminare tutto quanto il cielo. E non solo mentre eri visibile, ma ben oltre. È una così gran sete di vita e d’amore e di libertà, che non si può mai riempire. È un pozzo senza fondo, non è così?

No, non proprio. Un fondale marino, piuttosto, con colori incredibili, coralli e pesci sconosciuti, e meraviglie, e grotte. E dietro una grotta ancora un’altra grotta, scura, inquietante da togliere il fiato. Ma poi, attraversata quella, è così cristallina l’acqua, così trasparente come nient’altro al mondo riesce ad essere. Per questo, allora, hai voluto restare in mare per sempre. O per le onde e la schiuma, le creste di pizzo bianco e i delfini, o per la risacca che non ti avrebbe mai portato troppo lontano dalla Baia? O per il rispetto, forse, perché la parola mare, non saprei dire per quale ragione, evoca la parola rispetto, che tu hai raramente pronunciato, e costantemente messo in pratica.

Ieri ho ascoltato un po’ della tua voce scritta, e torno a sentire questo mare agitato nell’anima, che è come il rumore dell’universo dentro me, dentro te, e oggi riascolterò un po’ del suono della tua voce, sei meravigliosamente bravo a catturarne altre mille, ma sai, io sono ancora più brava a sentirci comunque sempre la tua, dietro, a riconoscerla dovunque.

Me lo chiedo, poi, che senso ha, perché si dice che se due anime sono destinate a incontrarsi, si incontreranno, e allora, non potrei mettermi la mia in pace, smettere di volerti sentire vicino, quanto vicino non sei? Ma dopotutto penso che evidentemente, il mio corpo ne sa più di me. Leggo materiale per le mie ricerche su un libro che c’entra con te solo alla lontana (anche se poi, mica troppo… ma lasciamo perdere), e l’ultima riga della pagina che mi ero ripromessa di finire entro ieri sera finisce con la parola robin. Così, senza che potessi averlo in alcun modo previsto.

E va bene. Chiudo il file, mi metto a leggere il libro su di te, e mi ci ritrovo dentro, mi appartiene totalmente, in una maniera così forte da essere quasi straniante. Eppure siamo diversi. Ma in te io sento parti di me altrimenti irraggiungibili. E annego in quel dolore infinitamente dolce, mi perdo in quell’acqua che porta dalla gola  al cuore, e ritorno, tutte le emozioni esistenti. Mi immergo in me, in te, senza che più mi importi di sapere dove finisce uno e dove comincia l’altro.

Ti riconosco in un volto intravisto, nella riga di una poesia letta per caso, nella musica, in una nuvola, una stella, un gesto, una pietra, un filo di vento. Ti riconosco senza conoscerti, so chi sono nella misura in cui so chi sei tu. So della vita, dell’amore e della libertà tutte le infinite cose che ho letto e imparato e ricordato e vissuto, filtrate attraverso il tuo sguardo. E tutto quello che so, alla fine, è che voglio dormirti accanto.