Gli Indiani Gallesi

Un brano del libro che sto scrivendo.

Mattinata poco nuvolosa, ma assai fredda, uno strato di brina bianca ha ghiacciato la superficie dell’acqua.
Abbiamo riunito diversi capi e guerrieri Flat-Head per chiedere loro di venderci altri cavalli, e alla fine ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti ad acquistare una decina di cavalli, non senza qualche grattacapo. Ancora dobbiamo passare attraverso cinque o sei lingue e non sempre ci si comprende. In più, la gente di questa Nazione ha un accento assai forte, una pronuncia rauca e gutturale, tanto che i miei uomini li hanno soprannominati gli Indiani Gallesi. Esiste infatti una teoria, secondo cui in tempi antichissimi certi viaggiatori gallesi sarebbero giunti fino in queste terre e alcuni Indiani sarebbero loro discendenti. Sia come sia, sono le persone più leali e piacevoli che abbia incontrato nel mio viaggio, e ci hanno trattati in tutto e per tutto come loro amici. Sono diretti verso il Missouri, al momento, per trovare selvaggina, poiché hanno davvero poco da mangiare, solo bacche e radici che hanno condiviso con noi.
Ho cercato di comprendere e trascrivere il maggior numero possibile di parole nella loro lingua, per verificare se quella teoria di cui dicevo abbia un qualche fondamento di verità, e l’ho trovata comunque in sé assai interessante.
Da quando abbiamo lasciato l’accampamento Shoshone, Charbonneau non ha mai smesso di mantenere quel grugno corrucciato, si mostra molto poco affabile nei miei confronti, e non so se esserne irritato o divertito. Sakagawea invece si è notevolmente addolcita. Le mie scarne e inefficaci parole a difesa del valore del suo lavoro paiono averla commossa ben più di quanto meritassero. Mi capita di cogliere certi suoi sguardi nascosti, e di restarne confuso. Il suo affetto mi è caro, ma bisogna che non diventi mai nulla di più grande. In un gruppo come il nostro, ogni attrito rischierebbe di rivelarsi fatale.
Non abbiamo mangiato quasi niente oggi, abbiamo terminato la farina e i nostri cacciatori hanno preso solo due fagiani, in pratica un boccone ciascuno, e per il resto, solo bacche. Temo che presto la fame comincerà a diventare uno dei nostri più gravi problemi.

#Film 1933 – Dinner at Eight

Dinner at Eight è un altro film-parata di stelle, un  sulla scia di Grand Hotel dell’anno prima, diretto da George Cukor, forse per questo a me è piaciuto di più (Cukor è uno dei miei registi preferiti), benché lo abbia visto un po’ a pezzi e bocconi, spalmato su varie serate, perché non sono riuscita ad avere due ore tranquille in cui guardarmelo tutto intero con calma.

Le star sono qui radunate con il “pretesto” di una cena organizzata dalla signora Millicent Jordan (Billie Burke), moglie di Oliver (Lionel Barrymore), un imprenditore marittimo che la crisi del ’29 ha portato sull’orlo della rovina. Millicent è molto ansiosa di salire la scala sociale, e a questo scopo serve la cena, che tuttavia non parte sotto i migliori auspici: mentre la signora sembra essere riuscita nel colpo gobbo di assicurarsi la presenza di una ricca e aristocratica coppia inglese, nel frattempo succede di tutto. Il marito le chiede di invitare Dan Packard (Wallace Beery) e la moglie Kitty (Jean Harlow), in quanto lui è un magnate che, per quanto grezzo, poco affidabile e probabilmente scorretto, potrebbe aiutarlo a tirar fuori dai guai la sua azienda. Uno degli ospiti di Millicent, il Dottor Talbot, che ha in cura Oliver Jordan per problemi cardiaci, è anche l’amante della moglie di Packard. Tra gli ospiti c’è Carlotta Vance, attrice ai suoi tempi molto amata e vecchia fiamma di Oliver, al momento non accompagnata, per cui Millicent si trova nella necessità di invitare un altro uomo e si rivolge a Larry Renault (John Barrymore), un attore in crisi e con problemi di alcol. Peccato che Millicent non sappia che sua figlia ha una relazione clandestina con Larry…

Grande successo all’uscita, acclamato anche dalla critica, all’epoca e ancora oggi. Splendida Marie Dressler (Carlotta) nel suo ritratto ironico e insieme dolente di una diva al tramonto, che rivela, più che celare, sotto toni ironici e quasi auto-denigratori un consistente residuo di vanità. Gli sguardi sono tutto, in questo viso estremamente espressivo.

Tra ironia, dialoghi serrati, drammi, preoccupazioni, affetti ed egoismi, il film ci lascia intravedere un momento nella vita di una famiglia che potremmo dire della ‘medio-alta borghesia” americana degli anni ’30, momento abbastanza significativo, in sé e per come viene trattato dal grande regista, da poter aprire uno squarcio su una bella fetta di società in quel periodo storico.

Robin’s Monday – Dialoghi

Mindy: You know, I still can’t get over this. I’m sitting here having breakfast with a being from another planet! [Sai, non riesco ancora a crederci, sono qui seduta a far colazione con un essere proveniente da un altro pianeta!]

Mork: What a coincidence. So am I! [Che coincidenza. Io pure!]

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Sono andata a fare la spesa vicino a Manin, una piazza genovese tra il centro e i colli, ho alzato gli occhi e ho visto questa piccola madonna, di cui non so nulla e non ho trovato alcuna notizia, per cui immagino non abbia alcun valore artistico, ma a me piace…

L’ora della battaglia è passata

Al supermercato, davanti
alle marche di pasta sciorinate
a profusione, quasi svenivo,
come il tuo Volodya,
assetato di bellezza
al reparto del caffè.
Il troppo ci annega,
è tempo di piantare le peonie,
di coltivare la pienezza
dei nidi e delle foglie,
tempo di immaginarsi piccoli,
alleggerire la valigia sulle spalle,
far pace con la manchevolezza.
L’ora della battaglia è passata,
lasciatemi piangere i miei morti,
torno a scrivere la guerra in versi,
c’è meno rischio di uccidersi e morire
ma il sangue scorre a fiumi
dalle nostre vertebre alle tempie,
fino a quell’ombra nell’ombra,
la sola capace di captare
l’impercettibile suono
di un cuore che si sbaglia.

Sì, mi sono ritirata, non scendo più nelle piazze, non manifesto, non parto lancia in resta a discutere con chi ha una visione del mondo inconciliabile con la mia. Lo facevo. E qualche volta mi pesa aver smesso. Ma oggi so che ci si può incontrare nel verso di una poesia, in due righe di un racconto, in un autore comunemente amato, anche quando su tutto il resto non c’è una cosa su cui si vada d’accordo. La mia, oggi, è una battaglia per cercare il nucleo che può farci rispecchiare e riconoscere in chiunque altro, anche solo per un momento, anche solo per una parola.

Per forza ero stanca…

Uff, stamattina, glicemia altissima a digiuno, mi tocca mettermi a regime sul serio, e meno male che mi piacciono la quinoa, il pesce e le verdure e adoro il sesamo, e l’olio mi è permesso (se no sai che ridere, tutto bollito e scondito). Ho postato due ricette neanche poi così golose e subito… zan! La cosa più scocciante è che devo mangiare sempre tutto, primo, secondo e soprattutto contorno, ovviamente in dosi ragionevoli, ma così ogni volta mi tocca cucinare due pasti diversi, una per me e una per i miei compagni di vita e di avventure. Oggi riso e quinoa (spero che la quinoa compensi quel poco di riso che ho mangiato) conditi con filetto di orata bollita e un po’ di carota (come contorno, ogni tanto va bene) e di cipolla prese dal brodo di cottura del pesce. Beh, almeno, se a regime devo stare, mangio il pesce che piace a me.  E per un  po’ non sgarro!

Di stanchezza e polpettoni

Volevo vedere Dinner at Eight, uno degli ultimi film del 1933 che ritengo da non perdere, tenuto conto che purtroppo King KongDuck Soup, ovvero La guerra lampo dei Fratelli Marx, sono fuori dalla mia portata, perché non si trovano su Internet e non mi attirano tanto da comprarli, solo che di nuovo sono stanchissima. È un periodo che ho sempre sonno e sempre fame. Del resto, sto lavorando molto, dopo una pausa un po’ “molla”, e quando le consegne si accavallano, subentra un po’ di ansia. Aggiungeteci i problemi adolescenziali dei figli e un polpettone di verza, patate e mortadella…

Ieri sera, a dire la verità, chiacchierando fuori con un’amica ho fatto abbastanza tardi e sarei andata avanti ancora un bel po’. Ma per la prima volta in vita mia, dormo sonni abbastanza agitati, mi sveglio almeno una volta a notte e non è da me. Così a concentrarmi sul film non riesco, andare a dormire ancora non posso, la lavatrice l’ho già impostata, che faccio? Proverò a scrivere della mia fanciulla e del suo esploratore. Spero di farcela, scrivere può essere sfiancante o una fonte di energia, secondo i momenti e le circostanze.

Intanto qui posto la ricetta del polpettone, spero che siate interessati, e in più serve a me, perché è piaciuto molto e voglio ricordarmi cosa ci ho messo, visto che cambio tutte le volte…

Allora, ho soffritto due piccolissime verze coltivate da noi (penso che valgano come mezza verza di quelle normali, ma erano veramente buone) in una cipolla, due spicchi d’aglio, un pezzo di gambo di sedano e mezza carota (una piccola andrebbe bene lo stesso, quella era grande). Ho aggiunto un po’ di vino bianco e della maggiorana (e sale e pepe), ho fatto andare il tutto per una ventina di minuti, poi ho aggiunto un etto abbondante di mortadella tritata, e dopo poco ho spento. Nel frattempo ho bollito in acqua salata 5 o 6 patate (sempre delle nostre, ma non è indispensabile), sbucciate e tagliate a pezzi per far prima. Ho versato la verza e la mortadella in una coppa, ho aggiunto le patate, schiacciandole con una forchetta, poi due uova, un po’ di pangrattato e del formaggio grattugiato. Ho messo il tutto in teglia, appianandolo con la forchetta, e sopra ho grattugiato dell’altro pane. Infine, un po’ d’olio e sale sparso in superficie, e informato per circa mezzora a 160-170 gradi (in forno ventilato), più dieci minuti col grill per la doratura. Niente foto, purtroppo, cercherò di far meglio la prossima volta!