Per le strade del porto (leggendo Saba)

Come l’amato poeta
mi vedrai vagare
per le strade del porto,
quando a sera il tempo del rientro
riversa tutti i fiumi – d’acqua e di persone
– in un’unica valle, una conca
al centro del nostro piccolo universo.
Gli usci chiusi delle case, vedi,
sono come il nostro mare,
limite ed invito, la soglia
da cui tutto ha inizio
ed ogni cosa pure ha fine.
Ora, ecco,
la sera s’è rabbuiata tutt’a un tratto
il mare, come un cane
uggiola deliziato nel silenzio.
È la notte delle navi
e anche noi, che non sappiamo dove
pure continuiamo a navigare.

Saba

Il poeta delle piccole cose, delle “trite parole”. Ieri ho ascoltato parole di e su D’Annunzio. E mi sono ricordata di quanto amo Saba.

Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore

Il poeta

Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!
L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse; ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!

Big Fish, ovvero l’ultimo film che ho visto nel 2019

Big Fish, di Tim Burton (2003): allegro, tragico, spiazzante, gioioso, assurdo, poetico, irritante, malinconico. Con una bellissima storia. e attori del calibro di Albert Finney, Ewan McGregor, Billy Crudup, Helena Bonham Carter. Non grandi star, insomma, ma attori seri, che credono molto in quello che fanno e scelgono i ruoli con molta cura.

Nel suo modo Burtoniano, apparentemente leggero, un racconto molto profondo sul significato concreto, il più vero, non sempre facilmente comprensibile dalle persone a noi più vicine, del condurre una “vita straordinaria” e “restare sé stessi”: ossia, prendere la vita come se fosse una storia, comune, dopotutto, ma al tempo stesso unica per il modo in cui la raccontiamo. E secondo me, è proprio raccontare, immaginare, sognare la vita, per Burton, (e io mi identifico e mi riconosco molto in questo), che, appunto nel renderla esagerata, larger than life, coincide con il viverla.

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Torte salate – 1. Funghi speck e mozzarella

Come accennavo giorni fa, da quando ho scoperto che fare la pasta sfoglia non è poi quell’incubo che credevo, mi sono lanciata in una serie di torte salate, da Natale in poi ne ho provate, inventate, ricreate, modificate e sperimentate un bel po’, per varie ragioni: dal punto di vista psicologico, impastare può contribuire a ridurre lo stress, e in questo momento a me serve parecchio; dal punto di vista economico, forse non si risparmia tantissimo, considerata la quantità di burro che serve, rispetto ai dischi di pasta pronta del supermercato, ma comunque con mezzo chilo di farina e circa 350 g di burro io faccio dai 6 agli otto dischi di pasta, e utilizzando per farcire gli ingredienti che ho in casa, riesco sempre bene o male a mettere insieme un buon pranzo o una buona cena spendendo abbatsanza poco (e anche quello, in questo periodo viene più che bene). Infine, dal punto di vista strettamente creativo-culinario, sto sviluppando una notevole fantasia, e mischio gli ingredienti in maniera sempre più avventurosa, finora sempre con risultati molto graditi. Torte con radicchio, peperoni, tonno, broccoli e gorgonzola, pollo, carne tritata… chi più ne ha, più ne metta. E allora via con la prima ricetta! (che fa pure rima).

TORTA DI PASTA SFOGLIA CON FUNGHI, SPECK E MOZZARELLA

Ingredienti:

2 dischi di pasta sfoglia di circa 24 cm di diametro

100-150 g di speck

180-200 g di mozzarella tagliata a fettine sottili

300 g di funghi champignon

Pepe, un tuorlo d’uovo per spennellare

Preparazione

Pulite e lavate i funghi. Tagliateli a fettine e fateli trifolare in padella per una decina di minuti insieme ad un piccolo scalogno tagliato a fettine sottili e a un cucchiaio di prezzemolo tritato. Lasciate raffreddare.

Stendete un rotolo di pasta sfoglia in una teglia di 28 cm e foderatelo con uno strato di fettine di speck. Sistematevi sopra i funghi trifolati e livellateli bene. Spolverizzate con una generosa macinata di pepe nero, se gradito, e terminate la farcitura con le fettine di mozzarella.

Dividete l’altro rotolo di sfoglia in strisce uguali e intrecciatele sulla superficie della torta a formare una grata. Ripiegate il bordo eccedente sulla torta e spennellate le strisce di pasta sfoglia e i bordi con il tuorlo di un uovo. Cuocete in forno caldo a 180° per 30 minuti circa se ventilato, 40-45 se statico.

 

Il mio libro…

… in ottima compagnia! Spero che i grandi non se ne abbiano a male, io mi sono commossa. Un piccolo moto d’orgoglio, una luce in un periodo piuttosto stancante. Grata alla libreria e al mio fratellino che ha scoperto e fotografato questa cosa bella.

Né l’inizio, né la fine

Questa è la versione italiana del racconto che ho scritto in inglese qui. L’ho immaginato, sognato, sentito in inglese. E poi tradotto. E questa è la canzone che potrebbe accompagnarlo.

Aveva vomitato già tre volte quella sera, e lo fece ancora e ancora, l’ultima volta sulle scale che conducevano all’appartamento di lei, mentre lo trascinava dentro, il corpo scosso dai crampi e dalla nausea, come sommerso da ondate di dolore, o da un oceano di disperazione.

Ho freddo, disse.

Lo so, rispose lei.

Un freddo tremendo, gemette lui. Sto gelando, cazzo.

Lo so, disse lei.

No che non lo sai. Come puoi saperlo? Non sai niente di me.

So parecchie cose, di te.

Era stato di volta in volta giudicato l’uomo più onesto del mondo o un bugiardo matricolato, intelligentissimo o stupido come una scimmia, un amante meravigliosamente appassionato o un pezzo di ghiaccio, timido come uno scoiattolo e triste come il mare d’inverno, o un uragano di parole e allegria. Ma alla fine, era sempre la questione di come gli altri lo vedevano. E lei diceva di sapere qualcosa di lui. Sapeva parecchie cose di lui, così aveva detto. Era la verità? Avrebbe dovuto fidarsi di lei? Di una cosa era certo, che non poteva fidarsi di sé stesso. Si sentì stranamente più forte, perché… sì, perché stava riconoscendo di aver bisogno di aiuto. Era stato in una guerra. Non una guerra in senso stretto, naturalmente. Niente a che fare con armi di distruzione di massa, niente morti o ferite evidenti, incendi e urla di angoscia e terrore. Una guerra più silenziosa, ma non per questo meno mortale. Com’era lui, in realtà? Era felice? Certo che no, altrimenti non si sarebbe trovato in quella stanza, in quel letto, in quel momento e quel luogo. Era tutto sbagliato. Comunque, non era nemmeno infelice. Non era questa la ragione. Com’era, in realtà? Era, e basta.

Sono un relitto umano, disse. Solo un cazzo di relitto. Pronunciò le parole lentamente, quasi assaporandole, in uno strano miscuglio di vittimismo, orgoglio, sferzante autoironia, onestà, rabbia e dolore. Voleva che se ne andasse, che restasse, o nessuna delle due cose? Forse entrambe. Stava forse mettendola alla prova, per vedere quanto era disposta a sopportare? All’inferno, tutto quello che voleva era essere lasciato in pace, e lo esasperava la consapevolezza che voleva altrettanto fortemente averla lì.

Vaffanculo, perché stai facendo tutto questo?

Forse ho la sindrome della crocerossina, disse lei, o una vocazione al martirio, o forse sono semplicemente sola, e pronta ad aggrapparmi al primo uomo che mi capita a tiro. Oppure… sta a te decidere, dopotutto. Puoi scegliere la risposta che ti piace di più.
Già, è quello che faccio sempre. Fanculo, è parte del problema anche questo.
Lei lo guardò dritto negli occhi.
Ti amo, disse. E lo dirò solo questa volta, che tu mi creda o no.
Ti credo, disse lui.
Lei ebbe un sorriso dolceamaro.
Domani non mi riconoscerai nemmeno.
Sì che ti riconoscerò, disse lui.

Ma non la riconobbe.

Dove diavolo sono? E a parte questo, tu chi sei?
E’ importante?
Certo che è importante, cazzo. Penso che dovrei almeno sapere il tuo nome, no?
Mi chiamo… mi chiamo Sandy.
Davvero? Non mi sembri tanto sicura. Io sono…
So chi sei. Conosco il tuo nome e l’anima che c’è dietro, disse lei.

Perché lei sapeva, e questo faceva tutta la differenza del mondo. Prima o poi arriva per ognuno un momento in cui si rende conto che non gli importa niente di niente. O almeno, quel momento era arrivato per lei, e non le importava, non le importava di nient’altro se non delle lacrime di lui, del suo sudore e della sua anima.
Non era stato questo, l’inizio della storia; comunque, non fu nemmeno la fine.

Una sensazione fantastica

È forse la prima volta che un racconto si forma nella mia mente quasi tutto direttamente in inglese, la mia lingua padre, quella che coltivo ogni giorno e in cui penso e sogno così di rado. Così questa volta ho dovuto tradurlo in italiano. Quale che sia il risultato, è una sensazione fantastica. E poi, solo dopo aver scritto il racconto, e aver deciso il titolo, ho scoperto questa canzone che non conoscevo. Intitolata nello stesso modo, e con un mood così simile…

It’s the first time a story comes to my mind almost entirely in English, my father tongue, the language I’ve been nurturing every day for ages and in which I rarely dream and think, though; so this time I had to translate it into Italian. Whatever the result, it’s an amazing feeling. And then, after I’d finished the story and decided its title, I’ve found out this song. With the same title, and with such a similar mood

Neither the beginning, nor the end

P.s. tra poco posterò il racconto in italiano

Neither the beginning, nor the end

He had already thrown up three times, that night, and did it again and again, the last time on the stairs that led to her apartment, while she was dragging him inside, his body shaking with cramps and nausea, as if washed over by waves of pain, or an ocean of despair.

I’m cold, he said.

I know, she said.

Awfully cold, he moaned. I’m fucking freezing.

I know, she said.

You don’t. How could you? You know nothing about me.

I know a lot about you.

He had been labelled the most honest man in the world and a ruthless liar, a brilliant man and a stupid monkey, a wonderful, passionate lover and ice-cold, shy as a squirrel and sad as a sunless sea, and a hurricane of words and joy. But it had always been a matter of what others saw him as. And she said she knew something about him. She knew a lot about him, she said. Or did she? Was he to trust her? What he knew for certain was that he couldn’t trust himself. He felt curiously stronger, because… yes, because he was acknowledging he needed help. He had been in a war. Not a proper war, of course. No weapons of mass destruction involved. No deaths, no apparent wounds, no fires or cries of anguish and fear. A quieter war, but none the less lethal for that. What was he, in truth? Was he happy? Certainly not, or he wouldn’t have been in that room, in that bed, in that moment and place. It was all wrong. Yet, he wasn’t unhappy either. This wasn’t the reason why. What was he? He just was, that’s all.

I’m a human wreck, he said. Just a bloody human wreck. He uttered the words slowly, seemed to savor them, a curious mix of self-pity, pride, self-deprecation, sincerity, anger and pain. Did he want her to go, or to stay, or neither? Maybe both. He wanted to be left alone, wanted it like hell, and it enraged him that he also wanted her so badly to stay. Was he testing her, to see how much she would be willing to take?

Fuck you, why are you doing this?

I may have a white knight syndrome, she said, or a vocation to martyrdom, or maybe I’m just lonely, and I latch on to the first man who comes along. Or maybe… well, that’s up to you. You can choose the answer that suits you best.

Yeah, I always do that. It’s part of the fucking problem.

She looked at him straight in the eyes.
I love you, she said. And I’ll say it only this once, believe it or not.
I do, he said.
She smiled. A sweetly bitter smile.
You won’t even recognize me tomorrow.
I will, he said.

He didn’t.

Where on hell am I? And who are you, anyway?
Does it matter?
Oh, yes, it fucking does. I wish I knew your name, at least.
I’m… I’m Sandy.
Are you? You don’t seem so sure. Well, my name…
I know your name. I know your name, and the soul that goes with it, she said.

Because she knew, and this made all the difference in the world. There comes a time in everyone’s life, when they realize they don’t care. Or, however, there had come that moment in her life, when she didn’t care, she didn’t care about anything, except for his tears, his sweat and his soul.

This wasn’t the beginning of the story. It wasn’t the end, either.