LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Quarta puntata

CAPITOLO II – autunno 1804 – primavera 1805

I

Il trenta dicembre del 1803, gli Stati Uniti presero formalmente possesso delle vaste aree note come Territori della Louisiana. La cerimonia pubblica si tenne nel marzo dell’anno successivo, e fu seguita da festeggiamenti, cene e balli ai quali anche Lewis dovette partecipare.
Il quattordici maggio, i poco più di quaranta uomini del Corpo di Spedizione, sotto il comando di William Clark, lasciarono definitivamente l’accampamento di Camp Dubois, Illinois, dove avevano trascorso l’inverno. Raggiunsero Lewis presso St. Charles, nel Missouri, un paio di giorni dopo e insieme ripartirono immediatamente, accingendosi a risalire il fiume con la chiatta e le due canoe più piccole. L’esplorazione dei Territori della Louisiana era ufficialmente iniziata.
Clark aveva ricevuto il suo ingaggio solo pochi giorni prima, ma con grande sdegno di Lewis, il Ministero della guerra aveva rifiutato di assegnare all’amico il grado di Capitano, attribuendogli quello inferiore di Secondo Luogotenente.
«Accidenti alla loro dabbenaggine, ero sicuro che fosse solo una formalità», aveva commentato, sbattendo la comunicazione sul tavolo in malo modo, tanto da stropicciarne il bordo.
«Dopotutto lo è», aveva risposto Clark. «Non vi nascondo che sono deluso io stesso, ma ciò che importa è che io abbia l’autorità per dirigere gli uomini, negoziare con i Nativi e con i mercanti spagnoli e francesi e condurre le necessarie osservazioni scientifiche. Quanto al resto…”, aveva alzato le spalle.
«Quanto al resto», aveva concluso Lewis, «io vi ho sempre considerato mio pari, e così gli uomini, e continueremo a farlo. Di fronte a loro, voi siete e resterete il Capitano Clark».

I primi mesi del viaggio non furono facili; sebbene si trovassero ancora in zone relativamente conosciute, e tracciate nelle mappe, più di una volta gli uomini diedero segni di insofferenza: qualche rissa, furti di whisky, persino un tentativo di fuga, in un ambiente in cui restare da soli significava la morte certa. In alcuni casi, le punizioni furono assai severe. Era necessaria una disciplina ferrea, né più né meno che se fossero stati in missione per conto dell’esercito, poiché anche il più piccolo dubbio riguardo all’autorità dei due capi avrebbe potuto mettere in pericolo l’intero gruppo.
D’altra parte, era necessario mantenere la fiducia degli uomini: la stanchezza, lo sconforto, la durezza di quella vita selvaggia, lontana da ogni forma di civiltà mettevano a dura prova i nervi di tutti, e bisognava tenerne conto, in un costante equilibrio tra rigore e comprensione. Il rispetto degli ordini doveva fondarsi in primo luogo su un vincolo di lealtà e reciproca fiducia, sulla condivisione di uno scopo comune, sulla certezza di poter contare in ogni momento l’uno sull’altro.
In agosto, le condizioni del giovanissimo sergente Floyd, da qualche tempo sofferente di una infezione di cui non era stato possibile scoprire la causa, si aggravarono improvvisamente, ed egli morì nel giro di poche ore.
Era stato uno dei primi ad arruolarsi. Aveva solo ventidue anni, eppure, e benché con tutta evidenza soffrisse molto, la dignità e il coraggio di cui diede prova toccarono profondamente tutti gli uomini. Alla cerimonia di sepoltura molti avevano gli occhi lucidi, compreso Lewis. Fu come perdere un fratello, un amico d’infanzia, un compagno d’armi.
Questo evento contribuì più di ogni altra cosa a creare tra i membri del Corpo di Spedizione quel vincolo di solidarietà che Lewis aveva tanto sperato, sebbene pagato a carissimo prezzo.
Pochi giorni dopo, mentre cercavano dei cavalli probabilmente rubati da un gruppo di Nativi, un altro degli uomini scomparve. Si trattava di un soldato semplice, George Shannon, il membro più giovane della spedizione, diciannove anni appena. Lewis da quel momento sembrò non darsi pace. Il ragazzo era uno dei “nove del Kentucky”, uomini che lui stesso aveva scelto; nel caso di Shannon, si era lasciato convincere dalla sua determinazione, nonostante l’evidente inesperienza.
Lo ritrovarono dopo sedici giorni. Uno degli uomini lo vide correre a fatica per qualche metro verso la barca e poi crollare a terra, esanime.
Lewis gli si avvicinò, gli toccò il polso, gli restò accanto per diversi minuti, poi alzò gli occhi, e gli altri videro i suoi lineamenti distendersi visibilmente, quasi aprirsi in un sorriso.
«È vivo», disse.
In seguito appresero che, avendo finito tutte le munizioni, per quasi due settimane Shannon non aveva mangiato altro che bacche, e un coniglio ucciso con un proiettile di legno fabbricato da lui stesso e inserito dentro il fucile. Clark gli batté una mano sulla spalla, in riconoscimento della capacità di sopravvivenza di cui aveva dato prova, poi si rivolse a Lewis.
«Sapete», disse, «credo che abbiamo scelto i nostri uomini davvero molto bene».

II

Nel frattempo, in tutt’altro luogo, un pericolo gravissimo, potenzialmente mortale, si stava preparando contro Lewis e i suoi, da una fonte che avrebbe dovuto essere insospettabile, e in realtà non lo era del tutto.
Nel marzo di quello stesso anno, due vecchi amici si erano scritti: un evento tutt’altro che fuori dell’ordinario, ma i due amici in questione non erano individui qualunque.
Il primo era un generale molto vicino a Jefferson, che lo aveva appena nominato governatore dei territori della Louisiana: il suo nome era James Wilkinson.
Il secondo era il marchese Sebastiàn Calvo de la Puerta y O’Farril, e si dava il caso che fosse il predecessore di Wilkinson, avendo governato gli stessi territori sotto gli Spagnoli, prima che questi li cedessero ai Francesi.
Il generale Wilkinson apparteneva all’élite del Paese sia per nascita che per matrimonio. Aveva una discreta dose di fascino e ottime relazioni in tutti gli ambienti giusti.
Era anche, secondo voci insistenti che non era mai riuscito a tacitare, una spia al soldo degli Spagnoli.
Tempo addietro era stato sottoposto a indagini serrate, dalle quali era uscito con la reputazione definitivamente macchiata, avendo evitato la corte marziale solo per uno di quei colpi di fortuna che in varie occasioni gli avevano salvato la pelle, non solo in senso metaforico. Eppure, per qualche oscura ragione, continuava ad avere un ruolo fondamentale nei più delicati intrecci della vita sociale e politica del Paese.
Lewis, del tutto immune al suo fascino, si era formato di lui un’opinione alquanto netta: lo giudicava egocentrico, avido, vanitoso, corrotto fino al midollo e disposto a utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere i propri scopi, incluso il tradimento. Non per niente, lo aveva inserito ai primissimi posti nella lista di coloro di cui era bene non fidarsi.
A questo, tuttavia, Jefferson aveva risposto, con un sorriso breve e un po’ forzato:
«Tendo a essere d’accordo con voi, Meriwether; tuttavia, posso solo dirvi che egli è il peggiore tra gli alleati di cui non posso e probabilmente non potrò mai liberarmi».
Wilkinson dunque scrisse a Calvo, e questi a sua volta inviò una lettera a Nemesio Salcedo, Comandante Generale delle Province Interne dello stato messicano del Chihuahua, e tutta questa corrispondenza aveva ad oggetto la spedizione di Lewis e Clark.
Essa confermava i timori della Spagna: ossia, che a parte gli scopi scientifici, quella spedizione intendeva in realtà creare un canale commerciale e instaurare rapporti con gli Indiani nei territori dell’ovest, preludio a una possibile futura espansione.
Così, Salcedo diede un certo ordine al Governatore del New Mexico, Fernando de Chacón. Il primo di agosto un gruppo armato di cinquantadue uomini, tra soldati, coloni, mercenari e Indiani partì da Santa Fe sotto la guida di Pierre – o Pedro – Vial, un esploratore e pioniere francese di nascita, anch’egli con molti e assai svariati legami di amicizia, di cui forse il più leale e duraturo era con gli Indiani Wichita del Texas e dell’Oklahoma. Vial fu incaricato di trovare Lewis e Clark, arrestare tutti i membri della spedizione e riportarli indietro, vivi o morti.
Il tre settembre, pochi giorni dopo la morte di Floyd, e mentre Shannon era ancora disperso, il gruppo di Vial raggiunse un accampamento Pawnee sul fiume Platte. In Nebraska. I capi vennero letteralmente sommersi di doni e fornirono un’informazione assai importante: sì, alcuni “commercianti” americani erano passati di lì alcuni giorni prima, diretti a nord.
Eppure, gli uomini di Vial tornarono indietro a Santa Fe senza praticamente neppure tentare di raggiungere la spedizione. Forse ritennero gli uomini di Lewis e Clark assai più lontani di quanto in realtà non fossero, o non riuscirono ad avere un’idea abbastanza precisa di dove precisamente si trovassero, il motivo di questo strano comportamento rimane in buona parte inspiegato.
Indubbiamente, Lewis e i suoi sembravano avere le ali ai piedi, in quel periodo, percorrendo una media di cento, centoventi chilometri al giorno, prevalentemente a forza di remi.
Si potrebbe azzardare che tra le ragioni di quella fretta non vi fosse solo il desiderio di arrivare il più lontano possibile prima dell’inverno. Forse, una sorta di sesto senso, un istinto, unito alle conoscenze di Lewis riguardo alla natura umana in generale, e più specificamente a quella di certi personaggi che bazzicavano gli ambienti governativi. Tuttavia, probabilmente egli non seppe mai quanto fosse stato vicino, in quella circostanza, a perdere tutto, compresa la propria stessa vita e quella dei suoi uomini.

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Terza puntata

III

Lewis aveva lasciato Washington il cinque di luglio, di ottimo umore. Amava andare a cavallo, e nonostante il caldo e la polvere, si era goduto ogni minuto del viaggio verso Pittsburgh. C’era stato qualche intoppo con le provviste, ma nel complesso, come aveva scritto a Jefferson, tutto procedeva per il meglio.
Tre settimane dopo, iniziava ad essere preoccupato. Molto preoccupato. E quando era preoccupato, tendeva a perdere le staffe con più facilità del solito.
La lista degli acquisti necessari era stata predisposta e più volte ripassata e revisionata da lui stesso insieme al Presidente, e gran parte dell’equipaggiamento se lo era già procurato a Philadelphia: armi, medicinali, conserve alimentari, attrezzature da campeggio, strumenti scientifici, doni per gli indiani che avrebbero incontrato sul loro cammino, carta, inchiostro. Ma senza una barca per trasportarlo era come non avere niente.
Nel contratto era scritto chiaramente, la chiatta che aveva ordinato avrebbe dovuto essere pronta per il venti luglio, e già così, sarebbe stato tardi: il livello delle acque dell’Ohio iniziava ad abbassarsi fin dalla metà del mese, rendendo la navigazione sempre più difficile; ma sarebbe stato comunque possibile partire prima che il maltempo incombesse. Se il costruttore avesse rispettato i termini. Adesso, invece, veniva fuori che non aveva praticamente neppure iniziato.
«Maledizione, ma non capite che il tempo, per noi, ha un’importanza vitale?».
«Scusate», biascicò l’uomo, che sembrava aver bevuto un po’ troppo. «Il carico di legname che aspettavo ha tardato diversi giorni, ma adesso è arrivato. Avrete la vostra barca entro il trenta, ve lo prometto». Lewis ne dubitava fortemente. Anche a voler credere che ci fosse del vero nelle sue giustificazioni, al punto in cui erano le cose, sarebbe stata già una fortuna se fosse riuscito a consegnargli la barca ai primi di agosto. E intanto il livello del fiume scendeva di giorno in giorno, e la frustrazione e la collera di Lewis aumentavano in proporzione.
I suoi sospetti furono presto confermati. Visitava il cantiere quotidianamente, cercando di instillare nel capomastro almeno un barlume di quel senso di urgenza che egli sentiva come una pressione quasi insopportabile; ma invano. Né le minacce, né la persuasione sembravano sortire alcun effetto, il costruttore continuava a bere e accampare scuse. Troppo spesso non iniziava a lavorare prima del pomeriggio; e in certi giorni non lavorava affatto.
Il trenta luglio venne e passò; e venne la prima settimana di agosto, e passò anche quella, e niente barca. Lewis, disperato, acquistò due o tre canoe. Cosa pensava di farci? Non lo sapeva neppure lui. Discendere l’Ohio con quelle e cercare una chiatta da qualche altra parte? Una follia.
Il costruttore giurò che avrebbe finito il barcone entro il 13 agosto. Un’altra promessa a vuoto. Quattro giorni dopo, Lewis lo trovò in preda ai fumi dell’alcol, che sbraitava e inveiva contro i suoi lavoranti, i quali lo piantarono in asso su due piedi. Esasperato, lo minacciò per l’ennesima volta di cancellare il contratto, ma di fatto aveva le mani legate, e lo sapeva. Più che licenziarlo, lo avrebbe volentieri strangolato, ma l’uomo aveva su di lui un considerevole vantaggio: non c’era nessun altro in grado di costruire una chiatta nel raggio di centinaia di miglia.
Due cose soltanto gli risollevarono lo spirito così fortemente provato dalla frustrazione: la lettera di Clark, che accettava con slancio di partecipare alla spedizione, e lo splendido Terranova Seaman, acquistato in quei giorni: i venti dollari meglio spesi della sua vita.
Alla fine, tra urla, suppliche, minacce e imprecazioni, la barca fu ultimata. Era il trentuno di agosto. Neppure i più vecchi coloni di Pittsburgh ricordavano che il livello del fiume fosse mai stato così basso. Non era navigabile, gli dissero. Ma a quel punto, Lewis avrebbe tentato di discenderlo in ogni caso, se pure fosse rimasto solo il letto asciutto e cosparso di ghiaia.
La chiatta era pronta alle sette del mattino, alle dieci era stata già riempita di tutto il suo carico, e Lewis partì senza perdere neppure un altro minuto, con i primi undici uomini assunti come equipaggio.
Giunsero a Louisville il 14 ottobre. Quando entrò nel porto e vide Clark ad aspettarlo, il cuore di Lewis si allargò. Avevano perso oltre un mese sulla tabella di marcia, ma finalmente si cominciava ad entrare nel vivo.
«Perdonate il ritardo, Clark. Come sapete, quello sciagurato del costruttore mi ha fatto diventare matto».
«Non preoccupatevi, Lewis. Ne ho approfittato per reclutare altri uomini, anche se ho detto loro che la decisione finale sul loro ingaggio sarà vostra, e ho disegnato alcune mappe che intendo mostrarvi. Mi sono tenuto pronto per iniziare il viaggio anche domani stesso».
«Avervi con me è un vero dono del cielo, Clark», disse Lewis. «So di poter contare tanto sulla vostra capacità di valutare le qualità degli uomini, quanto sul vostro talento di geografo e disegnatore. Sono doti preziosissime, per un compito di questa natura».
«Mio caro Lewis, come vi ho scritto, non c’è nessuno sulla faccia della Terra col quale condividerei questo viaggio più volentieri che con voi. E visto che siamo entrambi impazienti di intraprenderlo, direi di andare a mangiare un boccone e metterci subito al lavoro».

Sepùlveda

No, non c’è un senso, è inutile cercarlo. Se c’è, sta semplicemente nel fatto che ci sia data, forse per caso, forse no, una possibilità su un fantastiliardo di avere una coscienza e farne qualcosa. Ecco, Sepùlveda di questa coscienza ne ha fatto più di qualcosa. L’ha usata a fondo, l’ha spremuta, tenuta costantemente sotto pressione, interrogata, amata, se ne è preso cura, l’ha ascoltata e usata fino all’ultima briciola. Questo, almeno, è quello che a me a sempre fatto pensare. Uno che vedeva chiaramente il valore della bontà e dell’allegria, perché la crudeltà e il dolore li aveva vissuti senza risparmiarsi mai. Uno che poteva permettersi di parlare di sogni, perché della realtà conosceva ogni aspetto, e che non ha mai parlato di coraggio perché non ne aveva bisogno, il coraggio gli respirava dentro. Ecco, Sepùlveda è un altro per cui, che ci sia o meno un significato più profondo, di questa possibilità su un fantastiliardo che è stata data anche a me e che mi permette di leggere, ascoltare musica e venire a contatto con certe persone, sono profondamente grata.

DECIMA TESTIMONIANZA
《Quando riposa il lungo treno si riuniscono gli amici…》 Questo treno, don Pablo, si è fermato già da troppo tempo, eppure il presagio della poesia si è compiuto ugualmente. Eccoci qua, noi amici, i Dodici della Fama, i dodici apostoli che tentano la resurrezione di un arrugginito drago britannico. Come tutti gli uomini, vogliamo realizzare un piccolo, minuscolo ma evidente miracolo, e lassù, sopra la macchina, c’è Juan Riquelme, il fuligginoso, uno di quei tanti modesti Juan, illustri sconosciuti, ma sicuri di riuscire a pulirsi le mani sporche di grasso in un pezzo di stoffa o di storia, di accendersi una sigaretta e, senza dare troppa importanza a quanto hanno realizzato, di dire al miracolo, come a Lazzaro, alzati e cammina!
Forse, don Pablo, stiamo scrivendo con ferri vecchi un nuovo verso che tirerà fuori per qualche istante il “lungo treno” dal suo giusto letargo.
E deve farcela. Se riusciamo a smuoverlo anche solo di un centimetro, sarà la vittoria, il trionfo dell’allegria sullo sputo dell’odio. E in questo mare di sabbia, sole, vento e sottile pioggerellina, questi Dodici Argonauti si preparano, perché come ha detto lei, don Pablo, “il ferroviere è marinaio in terra e nei piccoli porti senza mare”. (Da: Incontro d’amore in un paese in guerra).

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Seconda puntata

La prima puntata, se volete, la trovate qui.

II

Al di sopra del ruscello, un albero protendeva il suo tronco contorto. Io sono un albero, pensò Sakagaweah. Lo guardò ancora. La corteccia proseguiva per un tratto quasi perfettamente verticale, poi d’improvviso piegava in orizzontale, nella direzione da cui sorgeva il sole, e infine riprendeva il suo cammino verso l’alto, in un groviglio di rami intrecciati in fuga senza ordine, ciascuno per conto suo.
Quando avevano quella forma, le aveva spiegato suo padre, voleva dire che erano quasi seccati tante volte, tante volte quasi morti, e invece poi avevano trovato sempre un nuovo modo di sopravvivere.
Sakagaweah rivide una scena. Un’altra fuga disordinata, tanto tempo prima, ma quelle erano persone. C’era sangue. Sui vestiti, sulle mani, in terra, dovunque. Qualcuno l’aveva afferrata e portata via.
Non riusciva a liberarsi di quei ricordi. Bastava il verso stridulo di un corvo, un riflesso strano nell’acqua del fiume; o un tronco contorto. Si coprì con le mani tutti e due gli occhi per scacciarli, anche se sapeva che non serviva. Anche se fossero scomparsi per un po’, sarebbero tornati ancora, e ancora, e ancora. Ti prego, Grande Spirito, lasciami dimenticare, pensò.

Anche allora era andata a cercare cibo. Era insieme alla sua amica Kimama, e lo aveva detto a lei, quella volta: guardami, io sono un albero. E poi, cominciando a muovere le braccia su e giù: ora sono un uccello. Non era che una bambina, a quel tempo. Non che ne fosse passato poi molto: quattro inverni soltanto, ma era come se fosse stata un’altra vita.
Poco più avanti, avevano trovato delle orme di lupi, fresche e regolari, diverse impronte affiancate, un branco intero, cinque o sei almeno, con uno o due cuccioli.
Dove vanno i lupi, secondo te? – aveva domandato Sakagawea a Kimama.
Vanno in cerca di cibo, come noi, – aveva risposto lei, senza alcun interesse.
E poi erano tornate al villaggio e avevano sentito le urla, gli spari, avevano visto il sangue. Sakagaweah ricominciò a pensare ai lupi, per allontanare gli altri ricordi. Dove vanno i lupi? Qualcosa di loro era anche dentro di lei, lo sentiva. A volte, la notte, provava quello stesso, irrefrenabile desiderio di ululare alla luna.
Le bambine con cui era cresciuta, al vecchio villaggio… anche loro erano state caricate sui cavalli e via. Polvere e vento e terrore, ma le facce asciutte, perché piangere non si può, non si deve. Erano lì con lei, adesso, nel nuovo villaggio: Kimama, Cha’risa, Hai’wee.
Kimama cuciva abiti bellissimi, con le pelli. Era davvero brava, molto più brava di lei.
Hai’wee preparava cibi deliziosi col poco che c’era. Carne di cervo e di cinghiale, quaglie, trote, nocciole, mele. Presto, Haiwee era rimasta incinta. Sakajaweah accarezzava la sua pancia e pensava che sarebbe successo anche a lei. Voleva che succedesse, ma aveva paura. Tanta paura.
Cha’risa era quella che le somigliava di più, le piaceva camminare e guardare le cose che la circondavano, ma non aveva molta memoria. Doveva percorrere una strada almeno cinque o sei volte, prima di poterla ricordare. Non teneva a mente i segni, non distingueva una pianta da un’altra. Però riconosceva il verso di qualunque animale, e imitava perfettamente il canto di certi uccelli. E quando ballava, sembrava leggera come una piuma.
Dopo il sangue e gli spari e i cavalli al galoppo, il vento e la polvere, tutto il resto del tempo era trascorso sempre uguale, ogni giorno come quello prima, la terra da lavorare, le pelli da cucire, cibo da scavare, legna e acqua da trasportare, senza fermarsi mai.
Di tanto in tanto ci si spostava, in pochi minuti bisognava essere pronti, la carne riposta in borse di cuoio, i pochi abiti e oggetti da portar via raccolti nelle sacche, le tende smontate, i cavalli pronti per essere montati dagli uomini, mentre le donne seguivano a piedi.
In qualche modo, Kimama e Hai’wee e Cha’risa l’avevano aiutata ad andare avanti, solo sapere che erano lì, poterle vedere, anche se non c’era tempo per parlare. Era per loro che era riuscita a sopportare tutto, il dolore, la fatica, e persino Toussaint.
A volte le mancava il suo vecchio villaggio, i suoi genitori, i fratelli e le sorelle e tutti quelli che conosceva un tempo. A volte no.

La ragazza raccolse la cesta con le bacche, le radici e i due salmoni che era riuscita a prendere. Non c’era pesce nel fiume, in quella stagione, ma quei due salmoni sarebbero bastati, per qualche giorno. Ci sono momenti che la terra madre diventa crudele come un animale inferocito dalla fame; diventa secca, come bruciata: e bisogna scavare molto, per trovare qualche radice che permetta appena di sopravvivere.
Si avviò verso il villaggio a passo svelto, e arrivò alla tenda prima di sera. Ma per quanto facesse in fretta, per Toussaint non faceva alcuna differenza. Se era ubriaco, o semplicemente di cattivo umore, l’avrebbe picchiata comunque.
«Dove sei stata tutto questo tempo? Che me ne faccio di una piccola strega pigra per moglie, eh, me lo dici? Ti insegnerò io a ubbidire».
Sakajaweah gli vide prendere il ramo di nocciolo che teneva da una parte. Sapeva cosa l’aspettava. Era talmente abituata, ormai, che aveva imparato a non sentire neanche il dolore. Chiuse gli occhi, strinse i denti e si preparò a fingere di non essere lì, di essere molto lontana, una lupa con il suo cucciolo nei boschi, oltre le montagne.
Toussaint Charbonneau era molto vecchio, ma l’aveva comprata, o vinta al gioco, in ogni caso era sua.
Tanto tempo prima, sua madre le aveva raccontato quello che succedeva tra un uomo e una donna quando erano soli nella loro tenda. Dovrai sopportare, quando ti cerca, lascia che faccia ciò che vuole, poi tanto passa, le aveva detto. Ma sua madre non aveva mai conosciuto Toussaint. Non aveva potuto prepararla abbastanza, per lui. La puzza di alcool, sudore e fumo, il respiro affannoso, il corpo pesante. La prima volta aveva provato a scappare, ma dove avrebbe mai potuto andare? Lui rideva, ma non era una risata buona. Fermati piccola strega, smetti di sgusciare via come una biscia, tanto non mi scappi.
Alla fine si era rassegnata, e lui l’aveva schiacciata con tutto il suo peso. Si era sentita quasi soffocare. A un certo punto aveva provato un dolore tremendo, più forte persino delle botte. Aveva urlato, e nello stesso momento aveva sentito anche Toussaint urlare, ma il suo non era un grido di dolore. Di trionfo, semmai. Col tempo, il male era diminuito, anche se non era mai scomparso del tutto. Sua madre aveva avuto ragione. Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Una volta, Toussaint l’aveva prestata a un mercante che conosceva. Quell’uomo gli aveva dato molte pelli, e in cambio aveva potuto “divertirsi un po’ con lei”, così aveva detto,. Solo una volta, comunque. Sapeva di ragazze che erano state costrette molte volte, con uomini diversi.
Toussaint non era cattivo, anche se si arrabbiava spesso, per un gran numero di motivi, e ogni volta la picchiava. Non aveva soldi e la picchiava, aveva finito il whisky e la picchiava, la picchiava se non rispondeva subito al suo richiamo, o se ci metteva troppo a portare la legna, o se il raccolto era scarso.
Aveva anche un’altra moglie, e picchiava anche lei.
Era così che andavano le cose: un giorno trascinavi canoe e mangiavi salmoni sul fiume Lemhi; il giorno dopo eri molte miglia lontano, a lavorare per gente sconosciuta, e potevi essere venduta a qualcuno che poi ti chiamava squaw, una tra tante mogli, buona per lavorare e generare figli; quello che decideva il Grande Spirito bisognava accettarlo.
Forse il suo spirito non era piegato del tutto; faceva tutto quello che le dicevano, ma c’era dentro di lei una minuscola scintilla di un fuoco che da qualche parte bruciava, anche se nascosto a tutti, persino a lei stessa.
La luna della semina era appena cominciata. Poche sere dopo, Sakagaweah sentì con certezza che una nuova vita si stava formando nel suo ventre.
Quella notte uscì, mentre tutti dormivano. Non andò lontano, solo fino a un punto in cui poteva sentire il rumore del vento unirsi in un tutt’uno con quello dell’acqua del fiume. Aveva piovuto molto; qualche goccia sottile scendeva ancora, sempre più piano. Le sue impronte si mescolarono ad altre, tutte confuse dal fango. Il giorno dopo non si sarebbe visto più niente.
Presto, anche gli altri si sarebbero alzati, e avrebbero pensato solo che si fosse svegliata un po’ prima; le stelle già schiarivano all’orizzonte, era quasi giorno. Aspirò profondamente l’aria, il profumo inconfondibile dell’inverno che finiva.

Intanto guardo film – Interstellar

Interstellar.jpg

E’ dai tempi di Insomnia che volevo vedere un altro film di Christopher Nolan. Mi ero innamorata di quel cinema d’atmosfera, inquietante e denso di emozioni forti, direi primordiali. E di quella versione per me del tutto inedita di un grandissimo Robin Williams che a quel film aveva dato anche troppo, pagandone il prezzo. Ma in Interstellar ho ritrovato interamente quello stesso cinema.

Mi era stato consigliato da mio figlio, tra l’altro, con queste parole: “c’è dentro tutto: amore, rabbia, delusione, paura, dolore, felicità. E’ un po’ come quello che stiamo vivendo, ma è anche diverso”. Ed è un po’ così, in effetti. C’è dentro tutto, eppure riesce a non essere troppo, riesce a essere perfettamente “quello che deve esserci”.

In una ambientazione, e con una fotografia, che come in Insomnia non sono semplice contorno, ma protagoniste del film, veicoli e fonti primarie della storia e dei sentimenti che la accompagnano e la compongono. Storia di una terra ormai morente, di un viaggio interstellare che era un errore, ma comunque un errore che era necessario compiere; di un rapporto tra padre e figlia; del legame tra scienza, libertà, amore, buchi neri, amicizia, gravità e vita.

Un film per nulla facile e, tra parentesi, lentissimo rispetto ai tempi a cui siamo abituati. Che mi ha lasciata, sul momento, piena di perplessità, spaesata, con qualche brivido freddo. E poi di nuovo, come l’altra volta e in gran parte per la stessa ragione (Robin a parte), in ammirata, trepidante attesa di vedere un altro film di Nolan.

Cast: Mattew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Michael Caine

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Prima puntata

Volevo farvi un piccolo regalo di Pasqua. Qualche giorno fa, dopo una crisi di pianto, come spesso mi succede, ho recuperato un po’ di equilibrio e senso delle cose. Ho capito che tra tutte le cose che amo fare, scrivere è di gran lunga la più importante. Vorrei anche essere pubblicata, sì, ma solo per poter arrivare a più persone. Nel frattempo, ogni lettore è un dono prezioso, un pezzo del sentiero. Se davvero qualcuno non ha di che riempire queste lunghe giornate di clausura (io ho sempre millemila cose da fare, ma questo probabilmente è dovuto al fatto che comunque ho sempre lavorato da casa, sono abituata, e per giunta solitaria di carattere), potrebbe aver voglia di leggere questo romanzo. E se avete tante cose da fare, potreste decidere di leggerlo lo stesso, per il puro piacere di farlo. E io ve lo regalerò, a puntate. La prima, come piccolo pensiero pasquale, sperando che sia comunque una Pasqua serena, nonostante tutto.

PROLOGO

Questa notte, forse per l’ultima volta, guardo il cielo. Lo sento tutto intorno a me, dentro di me. I miei piedi toccano ancora la terra, ma il mio cuore è nell’acqua e la mia testa viaggia già verso il cielo. Ho il cielo sulla lingua, nelle orecchie e negli occhi.
Il cielo esiste dall’inizio dei tempi, non è stato disegnato dalle orme degli Antenati. Non sempre gli uomini trovano subito la strada giusta, i loro passi, diceva mio padre, sono incerti e pieni di errori, quasi come quelli di un bambino che stia appena iniziando a tenersi in piedi. Il cielo non sbaglia. Non ci sono odori, suoni, o tracce che svelino ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, come il cacciatore capisce dal terreno quanti bisonti sono passati, e se potranno essere raggiunti, e se basteranno a sfamare tutte le famiglie. Non c’è interprete che possa imparare la lingua delle stelle, esse ci mandano messaggi che non capiamo, e non comprendono i nostri.
Mi chiamavano Donna-Uccello, tuttavia, che il Grande Spirito mi perdoni, io al cielo ho sempre preferito la terra. Ho sempre amato quello che potevo toccare e odorare. Mi piaceva camminare, leggere i segni sulle cortecce degli alberi, sulle pietre, o nello scorrere dell’acqua; dicono che ogni persona che percorre la terra contribuisce coi suoi passi a costruirla e darle forma; ma non si può percorrere il cielo, non si può costruirlo o dargli forma. Il cielo non ci appartiene, e noi non gli apparteniamo. Una tela sacra, dicevano gli Anziani, unisce tutto ciò che vive sulla terra, gli uomini e i bisonti, gli uccelli, i pesci, gli insetti, i sentieri, le montagne, le acque e le rocce.
Eppure oggi credo che quel tessuto unisca anche le cose della terra a quelle del cielo. Forse gli Anziani hanno ragione anche su questo, un giorno torneremo a quelle stelle dalle quali tutto è cominciato.

CAPITOLO I – 1803

Jefferson alzò gli occhi dalle carte che stava leggendo e guardò il giovane segretario.
«Dunque, siete pronto a partire».
«Sì, Presidente. Non appena darete l’annuncio, lascerò Washington. Vi sono ancora diversi preparativi da ultimare, ma conto di essere a Saint Louis con Clark entro la fine dell’anno».
Benché la candela illuminasse a malapena la scrivania, lasciando il resto della stanza in penombra, Lewis poté vedere chiaramente lo scintillio negli occhi di Jefferson. Magro e assai alto, quasi dinoccolato, Jefferson aveva l’abitudine di sedere in modo estremamente rilassato, quasi scomposto. Molti notavano gli abiti di foggia antiquata, talvolta addirittura di taglia troppo piccola per lui, specie se rapportati alla straordinaria misura delle sue mani e dei suoi piedi. Quando si alzò, tuttavia, assunse subito quella posa perfettamente eretta che colpiva immediatamente chiunque lo vedesse per la prima volta. E benché i capelli, un tempo rossi, fossero ormai quasi del tutto grigi, non aveva perso nulla del suo vigore, né fisico, né intellettuale.
Jefferson si avvicinò a Lewis e gli strinse entrambe le mani con caldo affetto.
«Il nostro sogno infine si realizza… credetemi, Meriwether, ben poche cose al mondo potrebbero rendermi più felice».
Lewis gli credeva, eccome. Sapeva meglio di chiunque altro che quelle carte rappresentavano il trionfo del Presidente, il risultato di anni di negoziazioni, missioni diplomatiche, mosse strategiche e battaglie con nemici tanto esterni quanto interni al Paese. Questi ultimi, a dire il vero, ancor più ostili e temibili dei primi.
Un’amicizia profonda aveva unito un tempo Jefferson, il suo predecessore John Adams e lo stesso George Washington: un legame cementato negli anni difficili e gloriosi della guerra d’indipendenza. La successiva fase di costruzione dello Stato aveva messo in luce le prime divergenze, ma erano state le Leggi sulla Sedizione del 1798 a creare una frattura insanabile. A tal punto insanabile, in effetti, che Jefferson aveva preferito non partecipare ai funerali di Washington tre anni prima, ritenendolo inopportuno, benché avesse più volte, in privato, espresso una profonda ammirazione per la sua persona e un sincero cordoglio per la sua morte.
Quelle leggi avevano reso illegale qualunque manifestazione, riunione politica e pubblicazione critica verso leggi, azioni o provvedimenti dell’Esecutivo. Jefferson, uomo di salda fede liberale, le aveva vissute come un vero e proprio affronto, un dichiarato attacco alla libertà di pensiero e alla democrazia.
Era questa la ragione principale per cui aveva deciso di fondare con Madison il Partito Repubblicano-Democratico, contrapposto al Partito Federalista di Adams, e di candidarsi alle elezioni del 1800. Elezioni vinte a seguito di una campagna di inaudita ferocia, con insulti, da entrambe le parti, talmente sanguinosi da rendere del tutto impossibile ogni ipotesi di ricucitura dello strappo.
Lewis era al suo servizio da un paio d’anni, parte dei quali trascorsi a esaminare liste di ufficiali e funzionari e individuare tra loro quelli che potevano considerarsi degni di fiducia. Del resto, non c’erano solo i Federalisti da tenere d’occhio. Come si era conto ben presto, intrighi, macchinazioni, cambi di alleanze e slealtà erano all’ordine del giorno. Avidità e sete di potere erano spesso molle assai più forti degli ideali.
Per molti, ma non per Jefferson.
Quando il neo-presidente gli aveva scritto chiedendogli di lavorare per lui, Meriwether Lewis era ancora nell’esercito. Jefferson gli aveva detto soltanto che l’incarico sarebbe stato “meno duro della vita militare”, e che comunque avrebbe potuto mantenere i suoi gradi. Lewis non aveva esitato. La fiducia incondizionata di cui il Presidente lo onorava era ampiamente ricambiata.
Jefferson non amava trovarsi al centro dell’attenzione e parlare in pubblico; ma pochi sapevano esprimere con tanta eloquenza l’amore per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza e la solidarietà tra gli uomini, poiché quegli ideali egli li portava impressi a fondo nel cuore; e Lewis li condivideva in tutto e per tutto.
Al momento, i suoi nemici erano troppo divisi per rappresentare una minaccia, ma Jefferson era certo che non si sarebbero arresi facilmente, e Lewis temeva che avesse ragione.
Tuttavia, il Presidente aveva messo a segno un punto formidabile: da tempo aveva intuito che i territori francesi della Louisiana potevano costituire una inestimabile porta di apertura verso l’Ovest, strategicamente importante soprattutto per i commerci. Quando Napoleone aveva preso il potere, Jefferson aveva scommesso tutto sul fatto che il neo-Imperatore avrebbe avuto bisogno di denaro per le sue campagne, e sarebbe stato più facile convincerlo a cedere quelle zone inesplorate e potenzialmente ostili. Cosa che era puntualmente avvenuta; e con una serie di abili mosse, Jefferson aveva più che raddoppiato il territorio del Paese. Quando la vendita era stata conclusa, aveva già in tasca il sì del Congresso al finanziamento di una spedizione esplorativa a cui lavorava da molto prima di sapere che avrebbe mai potuto compiersi. Nel tempo, quel progetto era diventato una delle sue ragioni di vita, e il giovane segretario era stato al suo fianco fin dall’inizio.
Jefferson gli aveva dato accesso alla sua vastissima biblioteca, lo aveva introdotto ai personaggi più influenti e ai maggiori scienziati ed esperti del Paese, lo aveva perfino istruito personalmente, e l’ammirazione che Lewis nutriva nei suoi confronti era cresciuta a dismisura.
«Spero solo di essere all’altezza», disse. Questo era un aspetto che lo preoccupava non poco. Le aspettative del Presidente erano notoriamente alte, nei confronti dei suoi collaboratori quanto di sé stesso.
«Non potrei pensare a nessun altro. Forse è impossibile trovare qualcuno che riunisca in sé tutte le nozioni di botanica, scienze naturali, astronomia e capacità di osservazione, e al tempo stesso le doti di fermezza di carattere, capacità di adattamento, prudenza e autorevolezza necessarie a questa missione. Ma non conosco nessuno che si avvicini a questa descrizione più di voi. In più, da ragazzo avete avuto contatti con gli Indiani, ne conoscete usi e costumi, li rispettate ed essi rispettano voi. Ho avuto modo di conoscervi ancora meglio in questi due anni in cui abbiamo lavorato fianco a fianco, e la mia stima nei vostri confronti non ha fatto che crescere.
Piuttosto, siete sempre certo della scelta di Clark come vostro secondo in comando?». La voce del Presidente tradiva un certo scetticismo.
«Assolutamente – rispose Lewis. – Lo conosco da quando eravamo nell’esercito insieme. È coraggioso, leale, e uno degli uomini più onesti che abbia incontrato in vita mia. Una qualità non da poco, di questi tempi».
«Non ne dubito, Meriwether, tuttavia, per quanto riguarda la sua cultura, le conoscenze scientifiche…».
«Voi lo sottovalutate, Jefferson – ribatté Lewis, passando bruscamente a un tono più informale con quello che era, dopotutto, un amico di famiglia di lunga data, – ma per quanto a Clark possa difettare una certa finezza nei modi, o la dote della buona conversazione, nondimeno non vorrei nessun altro al mio fianco in una missione che richieda intuito, prontezza di riflessi e una buona dose di simpatia e curiosità nei confronti degli altri esseri umani. In questo, sapete, egli mi è di molto superiore. A proposito, Presidente, intendo chiedere che a Clark venga assegnato il mio stesso grado di Capitano. Nell’esercito, del resto, è stato mio superiore, e desidero che egli abbia, agli occhi degli uomini, un’autorità in nulla inferiore alla mia. Posso contare sul vostro appoggio a questa richiesta?».
Jefferson sorrise.
«Ora siete voi a sottovalutarvi, Meriwether. Credo che questo viaggio vi rivelerà aspetti di voi stesso che neppure immaginate. Comunque, lascio queste scelte al vostro giudizio. Se voi lo ritenete all’altezza, fate come vi sembra opportuno. Ma ricordate che vostro è il comando della spedizione, e vostra la responsabilità della sua riuscita. O del suo fallimento».