LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – DECIMA PUNTATA

V

Finalmente, anche l’ultimo bagaglio era stato portato via. In quel mattino di metà luglio, sotto un cielo limpido e di fronte al fiume che scorreva tranquillo, Lewis salutò l’accampamento dell’ultimo mese e mezzo con uno strano miscuglio di emozioni. Sollievo, certamente. Quella sfiancante parentesi di semi-immobilità si era protratta fin troppo a lungo. Ma dopotutto, l’accampamento era stato la casa di tutto il gruppo per quasi cinquanta giorni, e all’eccitazione per il capitolo del viaggio che stava per iniziare si accompagnava un curioso senso di malinconia per quello che era appena finito.
Uno degli uomini che avrebbe dovuto essere assegnato alle canoe stava male, per cui Lewis mandò Charbonneau al suo posto e si avviò via terra e con l’infermo, sdraiato su una rudimentale portantina, e con Sacagawea, che lo avrebbe aiutato a prendersene cura.
Camminarono in silenzio per un tratto. Di tanto in tanto, la ragazza si fermava a raccogliere certe piante che crescevano in abbondanza nella zona: grindelia, violaciocca, lattuga azzurra, liquerizia selvatica. Forse, quello era un argomento di cui potevano parlare anche senza l’intermediazione di Drouillard.
«Cosa farai con quelle»? Chiese Lewis, cercando di aiutarsi con qualche gesto. «cibo?».
«Medicina», rispose la ragazza, continuando a separare un tipo di pianta dall’altra. «Faranno bene al vostro uomo che è malato. Curano i crampi allo stomaco».
«Chi ti ha insegnato queste cose?», domandò ancora Lewis.
«Mia madre», disse lei, senza alzare gli occhi.
«Anche mia madre sa molte cose delle piante. Le ha imparate dai Nativi che vivevano vicino a noi, e le ha insegnate a me».
Una nitidissima immagine gli si presentò alla mente. Un inverno in Georgia, doveva avere non più di otto o nove anni. Neve e nebbia, l’uggiolare impaziente dei cani, la notte che svaniva in una luce diafana che si faceva alba, e poi giorno, ma senza che uscisse fuori il sole. Il pretesto della caccia, per poi più che altro raccogliere erbe da portare a sua madre, e intanto osservare ogni pietra, ogni impronta, ogni foglia. Era sempre stata la passione della sua vita, conoscere luoghi, fauna, flora, persone, lingue.
Con stupore, si rese conto tuttavia che l’interesse che provava per Sacagawea aveva una natura assai più personale. Voleva conoscere la sua storia perché la sentiva, in qualche modo, curiosamente vicina.
Gran parte delle donne che aveva conosciuto erano vanesie, superficiali, intente solo a conquistare un buon partito per sé o per le figlie. Era, dopotutto, ciò che la società si aspettava da loro. Ma quello che lui desiderava era una donna dotata di dolcezza e capacità di comprensione, ma anche forza d’animo, determinazione, coraggio: gli aspetti che più aveva amato in sua madre, e che rivedeva in Sacagawea. Scacciò quel pensiero.
«Questo è il momento di raccontarmi la tua storia», disse alla ragazza. «Da quando sei nata a quando ci siamo incontrati».
«È una storia come tante altre», disse lei. «Non è interessante. So di avere vissuto finora diciassette inverni, più o meno, ma non so che luna era quando sono nata».
«Tutte le storie sono interessanti», rispose Lewis. «Se non sai in che luna sei nata, scegli tu quella che preferisci». Lei lo fissò intensamente per qualche momento, prima di riprendere a parlare.
«Il periodo dell’anno che mi è sempre piaciuto di più è quello in cui si scioglie la neve, quando fiorisce la sagittaria, o testa-di-freccia, e poi la fritillaria, e il lupino argenteo, il giglio delle valli, il fior-di-luna e l’euforbia, o neve-sulle-montagne. Vorrei essere nata in quel tempo, nella luna delle oche che depositano le uova o nella luna dei nidi, quelli che voi chiamate mesi di aprile e maggio. E voi, quando siete nato?».
«In agosto, la luna del raccolto».
«È una buona luna anche quella», disse la ragazza.
«So che stiamo passando vicino al posto in cui vivevi da bambina, immagino l’emozione che provi, spero che non ti rattristi troppo».
Sacagawea fece un piccolo movimento con le spalle e abbassò gli occhi.
«Ci spostavamo continuamente. Sono nata qui, ma avrebbe potuto essere anche molto lontano. Le persone con cui sono cresciuta non sono più qui da tanto tempo».
«Com’era la tua vita, nel villaggio?»
«Più o meno come dagli Hidatsa. Era una vita pericolosa. Nella stagione fredda, qui sulle montagne non si trova più niente, né animali da cacciare, né radici o bacche, e avevamo sempre fame. Così ci spostavano verso le pianure, dove avevamo tanti nemici. Ma appena le nevi si scioglievano, preparavamo tutto e ce ne tornavamo tra le montagne. Pensavamo di essere al sicuro».
«E poi cosa è successo?», chiese Lewis. La ragazza rimase in silenzio per un po’, poi riprese: «Gli Hidatsa ci hanno trovati. I nostri cacciatori li avevano visti, e siamo scappati tutti nei boschi, oltre il fiume, ma loro ci hanno trovati. Avevano i fucili. Noi non abbiamo fucili. Così gli Hidatsa venivano, rubavano i nostri cavalli, portavano via le ragazze.
Mi ero nascosta dietro una roccia, poi sentii mia madre gridare. “Prendi il tuo fratellino”, mi disse, e io lo cercai, lo presi in braccio, ma continuavo a sentire gli spari. C’era un odore… un odore di sangue. Ho cercato di dimenticare quell’odore e non ci sono mai riuscita. Qualcuno mi urlò di scappare, e io corsi, ma non sapevo proprio dove andare. Due uomini mi afferrarono e io cercai di lottare, ma non servì a niente. Mi strapparono mio fratello dalle braccia, e io mi coprii il viso con le mani, per non vederlo morire».
Lewis era visibilmente scosso. Non solo per la drammaticità degli eventi, ma per come lei li raccontava, con voce quasi piatta… no, piatta non era la parola giusta. Piuttosto, con la rassegnazione di chi sa che quelle cose sono sempre accadute, sono semplicemente fatti ordinari della vita. Eppure a lui il suo dolore arrivava come una punta di freccia nel petto.
«Mi dispiace tanto», disse. Parole inadeguate, ma le uniche che riuscisse a dire. «Se preferisci non parlarne, lo capisco».
«No, va bene. Volevo dimenticare, ma adesso, raccontarlo a voi, va bene. Ero molto triste, allora, avevo chiesto al Grande Spirito di farmi morire. Ma adesso sono qui, e vuol dire che le cose dovevano andare in questo modo».
Lewis annuì e Sacagawea continuò il suo racconto.
«Vidi una donna che conoscevo, un’amica di mia madre. La vidi cadere, aveva un buco rosso nel petto grande come un salmone e da quel buco continuava a uscire sangue, e allora capii che era morta e che non avrei mai più visto né mia madre, né i miei fratelli e le mie sorelle. Mi portarono via, con le mie amiche Kimama, Cha’risa e Haiwee e altre ragazze. Camminammo per tanti, tanti giorni, e io ricordo ogni montagna e ogni fiume, ogni foresta e ogni pianura, ogni curva e ogni pietra. Avrei potuto tornare a casa, se volevo, ma non era per questo. Guardavo e basta.
Gli Hidatsa parlavano una lingua diversa dalla nostra, e non li capivo. Non riuscivano a pronunciare certi suoni, e così mi cambiarono il nome, per questo sono diventata Sacagawea, la Donna Uccello. Ma io non sono un uccello, non so volare. Pensavo che non avrei mai lasciato il loro villaggio, e invece…» fece un piccolo sorriso e aprì le braccia. «Invece», concluse, «adesso viaggio insieme a voi, e mi sembra di volare».
Lo guardò con un leggero sorriso, poi guardò l’acqua del fiume, e Lewis trasalì. Gli occhi della ragazza avevano un’espressione del tutto diversa dal solito, persino un diverso colore, o così gli parve. Per i canoni di bellezza classici, Sacagawea era troppo robusta, aveva la pelle troppo scura, capelli troppo neri e le mani ruvide di chi ha passato tutta la sua vita a fare lavori pesanti. Eppure, proprio per quelle stesse ragioni, si sorprese a pensare, cominciava a trovarla più attraente di qualunque ragazza avesse mai conosciuto.
Quando i suoi occhi si illuminavano di interesse per qualcosa, il suo sguardo intenso sembrava contenere la curiosità ingenua dei bambini che guardano il mondo con lo stupore della prima volta e insieme una saggezza antica, legata alla natura e alla terra, ma anche a storie millenarie che appartenevano all’umanità intera.
«Parlami dei nomi che date alle piante nella lingua snake», disse, per tornare su un terreno meno pericoloso. «Testa-di-freccia, dicevi, e neve-sulle-montagne, e fior-di-luna. Sono nomi molto belli».
Così per il resto del tempo parlarono dei nomi indiani delle piante, e poi degli animali: bia’isa, il lupo, biagwi’yaa’, l’aquila, e tutti gli altri uccelli, e le volpi, gli orsi, e poi le stelle, e il tuono, la voce del Grande Spirito che parla dalle nuvole. Lewis cercava di pronunciare le parole nella lingua snake, e spesso, quando sbagliava, sorridevano entrambi.
Nessuno prima di allora aveva mai pensato che Sacagawea sapesse qualcosa che valesse la pena di imparare.
Lewis aveva con sé il suo quaderno, e mentre lei parlava, annotava tutto. Ogni tanto la fermava: «Aspetta, vai più piano, non riesco a scrivere così in fretta».
«Perché scrivete tutto?», gli chiese.
«Per ricordare», rispose lui.
«E perché volete ricordare?», domandò ancora lei.
«Più cose imparo di questa terra, più mi sento a casa».
Lei pensò che era un uomo molto strano, diverso da chiunque avesse mai conosciuto. E subito dopo pensò che le piaceva, e sentiva persino di somigliargli, in qualche modo.
C’erano molte cose che le piacevano, del signor Lewis. Spesso aiutava i suoi uomini, lavorava con loro o remava nelle canoe. Amava guardare le sue mani sulla pagaia, le nocche strette intorno al manico, la goccia di sudore che scendeva sulle sue sopracciglia, aggrottate per la concentrazione; quel segno che gli arrivava fino al naso e creava una specie di ombra, facendolo sembrare ancora più lungo di quel che era; tra lui e gli altri uomini non c’era solo rispetto. Si volevano bene. Lui era il capo, e anche se non era un guerriero, era il più coraggioso di tutti: non aveva paura di quella terra per lui sconosciuta, non aveva paura dell’ira del cielo e del fiume, né degli animali feroci. Aveva gli occhi di un uomo a cui il posto dov’è non basta mai, e cerca sempre qualcosa che si trova da un’altra parte; ma era anche saggio, e quando curava i malati, sembrava proprio un uomo di medicina. Meriwether Lewis, l’uomo dal nome che sembrava indiano, l’uomo che portava il tempo buono, che rasserenava il cielo.
Guardò il fiume per ritrovare un equilibrio, un contatto con gli Antenati e con le storie che erano scritte nella tela del Grande Spirito da sempre. La sua strada era tracciata dalla nascita, c’erano già le sue orme, prima ancora che vi camminasse sopra; e sebbene avesse già visto che quella strada poteva prendere direzioni impreviste, di certo le sue orme e quelle di Lewis non erano destinate a unirsi in nessun modo. Eppure…
Aveva fiducia in lui, come non ne aveva mai avuta in nessuno, a parte forse sua madre. Strano. Perché si fidava di lui? Non avrebbe saputo dirlo, ma era così.

Il mio lato pop: Supernatural

Era da un po’ che volevo scrivere di Supernatural, una serie TV che ho iniziato a guardare poco più di un mese fa, in origine perché piaceva – e piace – moltissimo a mio figlio minore. Non sono mai stata una fan del genere horror, anzi, normalmente lo detesto. Eppure, mi ha catturata quasi dall’inizio. Non è stato propriamente amore a prima vista, ma dopo i primi tre o quattro episodi ero a tutti gli effetti stregata (termine appropriato, visto l’argomento). Di certo, le persone coinvolte (attori, sceneggiatori, registi e tutti gli altri) non si prendono mai troppo sul serio, le situazioni e i dialoghi sono spesso comicamente sopra le righe, se non del tutto folli, e nonostante questo io mi ritrovo costantemente senza fiato per la suspense. Insomma, sono davvero bravi.

Naturalmente, sono innamorata di Jared Padalecki e del suo personaggio Sam Winchester, e chi non lo sarebbe? E’ un uomo di rara forza morale, dolce, coraggioso, gentile, attento, un accanito lettore (un nerd, potremmo definirlo, trasuda letteralmente curiosità intellettuale), un po’ narciso ma tendenzialmente altruista e – non ci sarebbe bisogno di dirlo – incredibilmente bello. Soprattutto, è uno che considera tutte le ragioni del caso, senza scagliarsi a spada tratta, o piuttosto precipitarsi ad armi spianate, qualunque cosa succeda e senza curarsi delle conseguenze. Fa degli errori, ci mancherebbe, anche madornali; e nel tempo, è morto e andato all’inferno (letteralmente, intendo) un mucchio di volte, nel tentativo di sistemare le cose e aiutare gli altri. Da lì, è stato sempre salvato dal fratello maggiore ho-il-mondo-tutto-sulle-mie-spalle Dean, bravo ragazzo e tutto, protettivo e generoso, ma un po’ troppo tirannico con suo fratello, convinto di avere sempre ragione, costantemente arrabbiato, macho-ma-sensibile, sciupafemmine e incapace di restare da solo. Succede anche il contrario, vale a dire, Sam ha salvato il posteriore di Dean un gran numero di volte, ma senza vantarsi della cosa fino a rendersi insopportabile.

Comunque, il personaggio a cui mi sono affezionata di più, nel corso delle otto o nove stagioni in cui è apparso, è Crowley, il re dell’Inferno (Mark Sheppard).  Se Lucifero è l’Antagonista con la A maiuscola, Crowley è sempre un po’ di qua e un po’ di là, e questo mi piace, essendo io sempre molto favorevole alle vie di mezzo e alle zone grigie. Credo sia la sua totale mancanza di interesse verso la bontà e il senso morale, unita al meraviglioso humour britannico, a una buona dose di ironia e all’evidente (sebbene sempre ostinatamente negato) affetto per i Winchester a renderlo adorabile. Mi è piaciuto un sacco un episodio in cui a un certo punto lui tira fuori il cellulare mentre qualcuno sta chiamando, e si capisce che i numeri della rubrica sono divisi tra “Moose” (letteralmente Alce, tradotto in italiano un po’ debolmente come “Testone“, vale a dire Sam) e “Not Moose” (non testone, in pratica quasi solo Dean, alias squirrel, lo Scoiattolo, in italiano Testacalda). Si tratta forse della prima volta in cui Crowley rivela i suoi veri sentimenti nei confronti dei “ragazzi”. La sua malvagità beffarda (a volte, specie nei primi episodi, quasi sprezzante) e quei curiosi rapporti di amicizia/odio tra lui, sua madre Rowena, l’angelo Castiel, Lucifero e i ragazzi sono tra gli aspetti più gustosi e in generale tra le cose migliori della serie. SPOILER ALERT A quanto pare, non sarà presente nelle ultime due stagioni (ancora non arrivate in Italia, l’ultima dovrebbe essere ancora in corso di lavorazione). Spero che chi ha deciso di eliminare il personaggio definitivamente cambi idea: sarebbe davvero un peccato.

Poi c’è il Castiel di Misha Collins, angelo e Dio, senzatetto disperato e guerriero, idiota dalle buone intenzioni e leader straordinariamente capace, affettuoso protettore dell’umanità e killer glaciale, passa da una personalità all’altra fino a sperimentare, in pratica, tutte quelle possibili, sempre apparentemente imperturbabile, capace di dire le cose più surreali senza fare una piega, eppure sempre esprimendo moltissimo con un indefinibile linguaggio non verbale che rivela più di qualunque parolao espressione facciale.

E che dire della deliziosamente orrida, incantevolmente odiosa Rowena (Ruth Connell)? Che dire di Meg, Ruby, Sarah, Eileen, Hannah, Jody, e tutte quelle donne-demone, donne-donne, donne-angelo, cacciatrici e streghe, dalla volontà d’acciaio, estremamente sicure di sé o piene di dubbi e insicurezze (e talvolta entrambe le cose), piene d’amore e umanità o esecrabili (anche qui, spesso entrambe le cose, nello stesso momento o nel corso del tempo), che hanno amato, odiato, tradito, combattuto e vissuto e sono morte (anche loro, in molti casi, più di una volta) per gli altri o per sé stesse nel corso delle quindici stagioni della serie?

Insomma, cos’è che rende questo programma così speciale, almeno per me? In primo luogo, il fatto che l’horror non è affatto l’aspetto principale. Voglio dire, sono sicura che anche i fan dello splatter possano trovare qui pane per i loro denti. Ma personalmente, quello che mi affascina, specialmente in questo particolare momento, e a parte tutta la follia e lo humour e quella testarda, commovente speranza di cui trabocca, sono le domande che pone; domande universali dell’umanità, onnipresenti e non particolarmente originali, forse: vita, sopravvivenza, libertà e sicurezza, giustizia e vendetta, bene e male, coraggio e incoscienza, senso di responsabilità e senso di colpa, amore, perdita e bisogno – non sano – di qualcuno, scelte terribili fatte “in nome di un bene più grande” e scelte giuste fatte nel proprio interesse. Quali sono i confini? Sento l’esigenza di ridisegnarli, di lavorare su queste idee e ridefinirle in qualche misura, e mi sono ritrovata a far tesoro di questo buon vecchio modo di riflettere grazie a una storia che mi coinvolge, e in cui posso immergermi completamente, anche per tenere la testa tra le nuvole per un po’, che serve sempre.

So che ci sono dei punti deboli (in primo luogo, un po’ tanta propaganda pro-USA e pro-armi, temo), ma l’ho amata e la amo incondizionatamente, punti di forza e punti deboli e tutto quanto e quindi, alla fine dei conti, va benissimo così.

My pop culture weakness: Supernatural

I’ve wanted to write about Supernatural for some time now. I began watching the TV series a little more than a month ago because my younger son liked and likes it very, very much. I’ve never been a fan of horror, actually I usually hate the genre. And yet, I got hooked almost from the start. Not exactly at first sight, but after three or four episodes I was spellbound. They (meaning actors, authors, directors and all those involved) certainly don’t take themselves too seriously, the situations and dialogues are often mockingly exaggerated or outright crazy, but it also holds me breathless with suspense. They’re good, they’re really good.

Of course, I’m in love with Jared Padalecki, and with his character Sam Winchester, I mean, who isn’t? He is morally strong, sweet, brave, kind, thoughtful, a keen reader (a nerd, actually, drenched in intellectual curiosity), a bit narcissistic but mostly unselfish and, needless to say, stunningly handsome. Also, he considers the reasons of all those involved, rather than taking sides and busting in, guns blazing, no matter what. He makes mistakes, for sure, even huge ones; and over time, he dies and goes to Hell (yes, I’m talking literally here) several times in an attempt to make things right and help other people; from where, he is always saved by his likeable, protective and good but bossy, I’m-always-right, angry-all-the-time, restrained, macho-but-sensitive, ladies-man, unable-to-live-alone older brother Dean. The opposite is also true, that is, Sam saves Dean’s ass a number of times, but he doesn’t get so unbearably self-satisfied about it.

However, the character I’ve been most fond of, over the eight or nine seasons he appears in, is Mark Sheppard’s Crowley, the King of Hell. While Lucifer is the Antagonist with a capital A, Crowley is always somewhere in the middle, and I like that, as I’m all for grey areas. I think it’s his utter disregard for goodness and morality, combined with wonderful Brit humour and irony and a soft spot for the Winchesters, that make him so adorable. I loved it when they showed his mobile phone book numbers, divided between “Moose” (i.e. Sam) and “Not Moose” (i.e. Dean aka Squirrel). This was perhaps the first time that he revealed how he really felt about “the boys”. His mocking wickedness and the odd friendship/hatred dynamics between him, his mother Rowena, the angel Castiel, Lucifer and the boys are among the juiciest aspects and most valuable assets of the series. apparently, he won’t be in the last two seasons though (they’ve not arrived in Italy yet). I hope that whoever decided to eliminate the character for good will change their mind, it would be a real shame.

Then there is Misha Collins’s Castiel, angel and God, homeless wreck and warrior, well-meaning idiot and incredibly smart leader, gentle lover of humanity and icy killer, goes through all kinds of personalities over the years, always apparently unflappable, always capable of saying the most surreal things without so much as a blink (“I don’t sweat under any circumstances“), and yet always somehow revealing a lot through his eyes.

And what about delightfully, charmingly horrible, bewitchingly loathsome Rowena (Ruth Connell)? What about Meg, Ruby, Sarah, Eileen, Hannah, Jody, and all the array of strong-willed, warm-hearted or execrable (or both), doubt-filled or self-confident (or both) demons, women, angels and hunters who have loved, hated, betrayed, fought, lived, died (again, sometimes more than once) either for others or for themselves over the fifteen seasons of the series?

So what makes this TV show so special in my eyes? Mainly, it is the fact that it is not about horror at all. I mean, I suppose splatter film fans will find it’s straight up their street anyway. But what fascinates me, especially in this particular period, and apart all the craziness and humour and heartwarming, stubborn hope that fill it, it’s the questions it raises; universal, not-so-original, ubiquitous questions of humankind: life, survival, freedom, security, justice and revenge, good and evil, courage and foolhardiness, sense of responsibility and sense of guilt, love, loss and unhealthy need for someone, terrible choices made “for the greater good” and right choices made in one’s own self interest. What are the boundaries? I feel I need to reconsider them, work on these ideas and redefine them to some extent, and I’ve found myself relishing in the good old way of thinking about these issues by getting absorbed in an enthralling story.

I know there are some weak points too somewhere (well, a bit of U.S. and gun lobby propaganda for one, I guess), but after all, who cares, I’ve loved it through and through, still do, strong points and weak points and all.

The Emerald Isle Dream – Sognando l’Irlanda

It’s decided. My next trip will be to Ireland. I’ll write more on this soon, I’m preparing an itinerary. I’m not living in a nightmare, I can’t say that, not at all, I’m fine, and my life is good under so many aspects. But. I need a dream, one that matters and that can come true. Not tomorrow, but not so far in the future either. So, Ireland it is.

Ho deciso. Il mio prossimo viaggio sarà in Irlanda. Ne scriverò ancora, perché sto preparando un itinerario. Non posso certo dire che sto vivendo in un incubo, assolutamente, al contrario, sto bene e pur con difficoltà e tensioni inevitabili, è un periodo positivo sotto molti aspetti. Ma. Mi serve un sogno, un sogno che abbia un significato profondo, e che sia realizzabile. Non domani, ma neanche in un futuro troppo lontano. Che Irlanda sia!

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Nona puntata

IV

«Zanzare!», disse Lewis in tono esasperato. «Zanzare, e zanzare, e ancora zanzare. E topi. E orsi, e cactus, e tempeste di grandine. Quando ho visto le cascate per la prima volta mi era sembrato un sogno, ora mi pare di vivere in un incubo. Da allora, non abbiamo percorso più di una trentina di chilometri. Un chilometro al giorno, Clark! Una tartaruga andrebbe più veloce di noi. Gli uomini sono spossati dal caldo e dopo le cascate, dicono i Nativi, non ci saranno più bisonti, né selvaggina di alcuna specie, e dovremo nutrirci di radici e poco altro, la terra è avara, non vi cresce quasi niente. Finalmente stiamo arrivando alla fine del portage, e quello che ci aspetta dopo è un deserto di topi, zanzare, cactus, caldo e fame. E Indiani, Indiani che non hanno mai visto un bianco, e potrebbero semplicemente decidere di ucciderci tutti. A volte, temo di avervi trascinati in un’impresa impossibile, Clark».
«Non fatevi prendere dai pensieri cupi, tenete, bevete un sorso». Clark era seduto su una pietra e appariva tranquillo e comodo come se fosse stato nel salotto di casa sua. Gli porse la fiaschetta in cui aveva messo un po’ di whisky, per celebrare degnamente il Quattro Luglio. «Non ci avete trascinati in nessuna impresa impossibile», continuò. «Voi ci riporterete tutti a casa, Lewis. Non ne ho mai dubitato, neppure per un attimo, e, cosa ancora più importante, nessuno degli uomini ne dubita. Sarà difficile? No, sarà molto peggio. Se prestiamo fede alle parole dei Nativi, sarà come attraversare l’inferno stesso. Ma andremo fino in fondo, tutti noi, e voi questo lo sapete. Sapete che ognuno di quegli uomini, laggiù – Clark fece un gesto ampio con la mano, indicando le tende che punteggiavano il terreno come piccole, fragili stelle in un cielo impervio e accidentato – ognuno di loro vi seguirà dovunque gli direte di andare».
Lewis annuì.
«È questo che mi preoccupa. Questa spedizione è la cosa più importante della mia vita, e ad essa intendo dedicare tutte le mie forze. Ma ogni mio errore può mettere in pericolo la vita di altri. Sono responsabile di oltre quaranta persone, Clark. Non è una cosa da prendere alla leggera».
«No», convenne Clark, «non lo è. Ma non è necessario che vi carichiate il mondo intero sulle spalle. Ciascuna di quelle persone ha scelto di essere qui, e sapevano a cosa sarebbero andati incontro. Potete contare sulla determinazione, il coraggio, le capacità di ognuno di loro. Ma loro devono poter contare su di voi, Lewis, non lo dimenticate». Gli batté una mano sulla spalla. «Se c’è qualcuno che può portare a termine il compito siete voi. Lo sa Jefferson, lo so io, lo sanno i vostri uomini. L’unico che ancora non lo sa siete voi, ma lo capirete presto, e allora non ci sarà ostacolo che possa impedirci di raggiungere la nostra meta.
E adesso andiamo a festeggiare. Dopotutto, non c’è momento migliore per bere, suonare e ballare che quando ci si trova alle porte dell’inferno».
La cena fu ottima: fagioli e pancetta, gnocchi di pastella cotti nel sugo di carne, bistecca di bisonte… nulla da invidiare neppure al più sontuoso dei pasti che avrebbero potuto fare a Washington, dove all’anniversario dell’Indipendenza si faceva onore come si doveva.
Subito dopo, i due uomini distribuirono tutto il whisky rimasto nelle scorte. L’occasione lo meritava. Forse, qualcuno ne sentì gli effetti anche troppo, ma al diavolo, era il Quattro Luglio, avevano finito il portage e stavano per iniziare la parte più difficile del viaggio. Nessuno di loro avrebbe rinunciato per tutto l’oro del mondo a quel ballo sotto la luna, intorno al fuoco, al suono del violino e della fisarmonica di Lewis.
Danzò anche Sacagawea, per la prima volta da quando l’avevano conosciuta. Da sola, poi con Charbonneau, poi con qualcuno degli uomini, incluso Lewis.
Lui e Clark avevano iniziato da qualche tempo a insegnarle un po’ di inglese, notando che aveva un buon orecchio e buona memoria per le parole. Imparava sorprendentemente in fretta, e questo rendeva un po’ più facile scambiarsi qualche parola in occasioni come quella.
«Sei già stata in questi posti, Sacagawea?», le chiese, mentre le note del violino pian piano si spegnevano.
«Sì», rispose lei. «Sono cresciuta qui vicino».
«È un luogo davvero splendido, anche se pericoloso. Sai cosa mi affascina di più? Gli uccelli. Dalla grande aquila grigia al piccolo martin pescatore. Molti sono rari in questa zona, e quando ne vedo uno è come un regalo, per me. Sei stata bene qui, quando eri bambina?».
«Sto bene adesso, qui con voi», disse la ragazza. «Tutti sono così gentili con me, e vorrei che questo viaggio non finisse mai. Sapete, nel mio villaggio mi chiamavano Sakajaweah, vuol dire “donna-che-trascina-la-barca-in-acqua”. Dagli Hidatsa, dopo che mi hanno rapita, mi hanno cambiato nome, sono diventata Sacagawea, la donna-uccello».
«Un giorno voglio che mi racconti la tua storia. Abbiamo parlato tanto della tua Nazione, ma so così poco di te».
Sacagawea sorrise, prese per mano un altro degli uomini per una breve danza, poi andò verso la culla dove Pomp dormiva, prese il bimbo in braccio e tornò a sedersi.
Erano le nove di sera e il cielo, chiaro fino a poco prima, andava rapidamente rannuvolandosi, mentre la luna scompariva dietro una cortina di cumulonembi. Il clima era sempre estremamente mutevole, quasi ogni giorno le nuvole venivano da direzioni diverse, per scaricarsi poi in forma di pioggia e grandine. Tempeste di breve durata, che lasciavano quasi sempre il cielo ancora più limpido di prima. Durante il giorno, i monti a nordovest brillavano, sotto il sole, bianchi di neve persino in quel periodo dell’anno: a questo, probabilmente, dovevano il nome con cui i Nativi li conoscevano, i Monti Scintillanti. Forse, la neve lassù non si scioglieva mai.
Quasi certamente era proprio a causa di quella variabilità che gli alberi in quella zona erano del tutto privi di resina. Da mesi, Lewis lavorava alla costruzione di un’altra barca, più grande di quelle con cui avevano viaggiato fino ad allora, che era adesso quasi pronta, non fosse stato che senza resina era impossibile renderla impermeabile.
Uno scroscio improvviso di pioggia lo distrasse dai suoi pensieri.  Era ora di rientrare. Gli uomini avrebbero certamente proseguito la serata in allegria, cantando e raccontandosi storielle al riparo delle tende, fino a tarda notte; ma per lui, era il momento di un buon sonno ristoratore.

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – ottava puntata

III

La pioggia battente aveva picchiato con particolare tenacia nelle prime ore del mattino. Quando il tempo si schiarì, Lewis decise di andare a dare un’occhiata a un’altra delle cascate che Clark aveva visto nel corso delle ultime ricognizioni.
Raggiunta la gola tra le colline in cui passava il fiume, fu sorpreso da violente raffiche di vento e da un impetuoso acquazzone. La luce livida dei lampi si diffondeva nella vallata come un presagio, seguita dal fragore dei tuoni, che diffondevano tutt’intorno un’eco plumbea e sinistra. Come se non bastasse, iniziò a grandinare, a chicchi grossi come noci.
Lewis si rifugiò in uno stretto canale, riparato da grosse pietre, e si accinse ad aspettare che la furia degli elementi si quietasse.
Dopo mezzora, la calma era tornata, ma lui era inzuppato fino al midollo. D’altra parte, non era tipo da scoraggiarsi per così poco: ci sarebbe voluto ben altro a farlo desistere dal suo proposito di vedere la cascata.
La natura sembrava aver disteso su quella zona una mano particolarmente generosa, tanto nei suoi aspetti più incantevoli e riposanti per lo sguardo, quanto per quelli più selvaggi e spietati. Non c’era stato un solo giorno in cui egli non avesse posato lo sguardo su scenari magnifici, o assistito ad avvenimenti fuori dal comune.
La cascata rientrava a buon diritto tra quei prodigi: il fiume precipitava da rocce perpendicolari di tale altezza da far venire le vertigini. L’acqua, gelida e profondissima, e di una trasparenza cristallina, ribolliva con forza immensa al di sopra di un’ampia distesa di erba verdissima, fertile e ricca delle più varie specie di arbusti, alberi, fiori e uccelli.
Lewis rimase a contemplare quella visione per diverso tempo, prima di rendersi conto di essere ancora completamente fradicio e semicongelato e decidere di tornare infine all’accampamento.
Clark era ancora fuori, con il suo piccolo gruppetto di esplorazione, e gli uomini erano un po’ inquieti. Lewis cercò di rassicurarli, benché neppure lui fosse del tutto tranquillo. Quasi sicuramente era stato rallentato dal terreno fradicio e fangoso, che si attaccava alle ruote come colla, rendendo impossibile proseguire senza fermarsi ogni pochi minuti a ripulirle.

«Mi piace camminare», disse Sacagawea.
Clark sorrise.
«Anche a me», disse.
«Non lo sapevo, prima», proseguì la ragazza. «Quando ero al villaggio, sia quello dove sono nata, sia quello di Toussaint, camminavamo sempre tanto, per giorni e giorni, ma era per cercare cibo o per scappare… non era una bella cosa. Ma adesso mi piace. Molto più che stare ferma».
Era una strana sensazione, guardava i suoi piedi, le impronte, che lasciavano, e pensava agli antenati che forse avevano lasciato le loro impronte in tempi antichi. Ma lei era lì ora, percorreva quelle strade in quel preciso momento. Ciascun fiume, ciascun sentiero aveva i suoi odori, la sua musica, e lei sapeva riconoscerli, distinguerli dagli odori e dai suoni di ogni altro fiume e ogni altro sentiero. Era quella la felicità? Quando era bambina, capitava in certi momenti del giorno che lo scintillio d’argento del sole sul fiume Lemhi si fermasse sulle sue mani: l’acqua diventava luce, e la luce acqua. Durava solo un istante e non si poteva trattenere, ma era bellissimo, se lo ricordava ancora.
Da diversi giorni erano in viaggio, Clark e il suo servo nero York, oltre a Toussaint e a lei, per trasportare il carico della Spedizione attraverso le cascate: un passaggio strettissimo, scosceso e accidentato che i bianchi chiamavano portage e che, più che seguire, stavano costruendo centimetro per centimetro.
Quella mattina, rendendosi conto che le condizioni del terreno rendevano impossibile continuare il trasporto, Clark aveva deciso di tornare al campo per completare certi appunti presi diversi giorni prima.
Man mano che si avvicinavano alle cascate, però, il cielo si era sempre più scurito e gonfiato di pioggia. Verso mezzogiorno, era così nero che sembrava notte.
Presto cominciò a scendere una debole acquerugiola, subito seguita da un vero e proprio torrente d’acqua e grandine, un muro anzi, che precipitando sul fiume formava onde gigantesche. I flutti trascinavano via con sé tutto quello che trovavano sul loro passaggio, alberi e rocce come fossero ramoscelli e sassolini. Per quanto si guardassero intorno, quel muro liquido li inseguiva, li minacciava ovunque, dal cielo, dal fiume e da ogni lato, incalzato dal vento che soffiava con forza crescente di minuto in minuto; era come se avesse un’anima, e quell’anima fosse loro nemica.
«Arrampichiamoci su per la collina», disse Clark. Aveva nella mano sinistra la pistola e il sacchetto delle munizioni, mentre con la destra cercava di aiutarsi a salire su per la collina e di tanto in tanto spingeva Sacagawea, che aveva il bambino in braccio.
A un tratto, la ragazza sentì Toussaint afferrarle la mano. Tremava, e non si capiva bene se cercava di proteggerla o di farsi trascinare; forse tutte e due le cose. Sacagawea pensò che sarebbero morti. Toussaint non sapeva neanche nuotare.
Per un attimo, ebbe la tentazione di lasciarsi andare. Non avrebbe sentito più niente. Non più botte, ricordi che non voleva, malattie, paura. Si sarebbe riunita agli Antenati, parte di tutto. Ma loro l’avrebbero voluta con sé? Sentì la presa di Toussaint scivolare via, lui si sforzava di continuare a tenerla, ma non ce la faceva più. L’acqua arrivava loro ai fianchi, rendendo difficilissimo procedere. Saliva e saliva, una parete liquida di quattro metri che li attraeva a sé con violenza formidabile, verso l’immensa cascata, dove cadere avrebbe significato morte certa.
«Sacagawea!», gridò Clark. «Tieniti forte alle mie braccia. Vi tiro su io, te e il piccolo». Era preoccupato, per lei e per il bambino. Devo farmi forza, pensò. Per Pomp, e forse non solo per lui.
Toussaint perse la pistola e il sacchetto delle munizioni, il suo corno e il tomahawk, Clark l’ombrello e la bussola, ma in qualche modo, un po’ per fortuna, un po’ grazie alla tenacia di Clark e Sacagawea, riuscirono ad arrivare tutti sani e salvi sulla cima dell’altopiano. Gli occhi di Clark si illuminarono di gioia, vedendoli tutti al sicuro.
Buona parte dei loro vestiti, però, oltre all’imbracatura che legava Pomp, erano stati trascinati via dalla corrente. Sacagawea e Pomp tremavano di freddo.
«Dobbiamo tornare subito al campo», disse Clark alla ragazza. «Sei ancora debole e non voglio che ti ammali di nuovo».
Quando finalmente arrivarono, Clark diede a tutti del whisky.
«Servirà a scaldarci, e anche un po’ a riprenderci dallo spavento», disse. «Abbiamo corso un bel rischio».
«Mia moglie non beve», disse Toussaint.
«Oh, sì che beve», rispose Clark. «Oggi beve. Se la fa stare meglio, state certo che svuoterò tutte le nostre scorte di whisky».
Sacagawea nascose una risatina coprendosi la bocca con la mano. Forse non era solo il whisky, ma si sentiva davvero molto, molto meglio.

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – settima puntata

II

«Che diavolo… nessuno aveva parlato di una biforcazione del fiume in questo punto», disse Lewis, irritato e perplesso. Erano a un punto morto: il Missouri si divideva davanti a loro in due rami quasi perfettamente identici ma opposti, uno rivolto a nord, l’altro a sud. Gli Hidatsa avevano parlato di certe enormi cascate che avrebbero dovuto trovare sul loro cammino, ma non se ne vedeva traccia.
«Succede, quando non ci si può basare su altro che schizzi dei Nativi e rozzi resoconti di gente che sa commerciare ma di certo non tracciare una mappa», rispose Clark. «Dobbiamo mandare due gruppi in ricognizione per cercare le cascate, così sapremo che quello è il ramo giusto».
«Sì, avete ragione, una ricognizione richiederà solo pochi giorni, mentre se sbagliassimo la direzione con tutta la squadra, rischieremmo di perdere molto più tempo. Non possiamo permettercelo, specialmente considerando che abbiamo dei malati da curare».
Alcuni degli uomini, compreso lo stesso Lewis, soffrivano infatti di ricorrenti e dolorose crisi di dissenteria. La condizione più seria, negli ultimi giorni, sembrava quella della piccola Janey, la moglie di Charbonneau. Lewis aveva dato istruzioni a Clark di farle un prelievo di sangue, era una cura semplice, ma era stata d’aiuto a molti. Su Janey, tuttavia, sembrava non avere effetto, la povera ragazza si faceva forza, ma stava evidentemente molto male.
I due gruppi di ricognizione tornarono indietro dopo qualche giorno, senza nulla di conclusivo da riportare. Non avevano visto nulla né sentito alcun rumore o trovato altri segni cdi una cascata nelle vicinanze.
Lewis e Clark erano quasi certi che fosse il ramo sud quello da prendere, ma decisero di mettere comunque la questione ai voti, sapendo che era una scelta controversa. Uno degli uomini, Buckley, riportò il risultato: «Siamo tutti in favore del ramo nord», disse. Fece una pausa, poi aggiunse: «Mi hanno comunque incaricato di dirvi che vi seguiranno ovunque vorrete».
«Allora, dite agli altri che prenderemo il ramo sud».
«Ne siete certo, Lewis?», chiese Clark. «Se ci sbagliamo…».
«Non so darvi una ragione convincente, Clark. Posso solo dirvi che tutto il mio istinto mi dice che è la strada giusta».
«Questo mi basta», rispose Clark.
Una decina di giorni dopo, udirono il suono delle cascate. Lewis, sollevato e impaziente di vederle coi propri occhi, prese con sé quattro uomini e si diresse velocemente verso quella direzione, precedendo tutti gli altri di almeno un paio di giorni.
Lo spettacolo che si trovò di fronte superava ogni immaginazione. Gli spruzzi si sollevavano sulla pianura come una colonna di vapore impalpabile, mentre il rombante fragore delle cascate dava loro un frastornante benvenuto.
Corse giù per la collina, a rompicollo come un ragazzo, sbigottito dalla magnificenza di quell’opera d’arte della natura. Non aveva mai visto nulla di simile, e sapeva che nulla di simile avrebbe mai più visto nella sua vita. La furia del fiume, in quello stretto passaggio tra gli sproni rocciosi a picco, dava l’idea della potenza divina. Un salto di quasi venticinque metri, poi l’acqua veniva frantumata dagli scogli, protesi come braccia gigantesche, in una schiuma perfettamente candida, che assumeva da un momento all’altro mille forme diverse. Scintillanti zampilli si alzavano in volo, e subito enormi onde schiumanti vi si catapultavano sopra, celandoli alla vista, con un rumore tale che l’acqua pareva risuonare della sua stessa eco.
Dietro uno degli speroni di roccia si estendeva inaspettata una deliziosa piccola radura ombreggiata da alti pioppi e popolata da una quantità di specie animali, conosciute e ignote. Variopinti codirossi e uccelli gatto dalle penne grigiazzurre; lontre e castori, orsi bruni e lupi.
Quella sera, Lewis ebbe anche il conforto, grazie agli uomini che lo accompagnavano, ottimi cacciatori, di poter gustare una cena di tale nome, quasi sontuosa. Costate, lingue e midollo di bisonte, trota arrostita: e con appetito, che, dopo il tormento della dissenteria, era di certo il miglior condimento.
Nei giorni successivi, proseguì da solo l’esplorazione del ramo del fiume che i Nativi chiamavano torrente Medicina, imbattendosi in altre cascate di incomparabile bellezza. Dietro ognuna sembrava poi esservi una nuova meraviglia: un’isola con un albero al centro, su cui un’enorme aquila aveva costruito il suo nido; una collina dalla quale lo sguardo poteva spaziare sul sinuoso corso del Missouri verso sud, e sull’intera pianura che dal fiume si protendeva fino alla base dei monti Snowclad a sudovest, dove pascolavano centinaia, forse migliaia di bisonti.
Nel tempo, i bisonti avevano formato una specie di sentiero battuto per andare ad abbeverarsi nei pressi delle cascate, a costo tuttavia del grosso rischio di venire trascinati via dalla corrente e di precipitare nell’abisso; e i loro scheletri formavano un curioso contrasto con gli infiniti arcobaleni che il sole faceva nascere, illuminando il sottile velo di foschia creato dagli spruzzi: Lewis avrebbe voluto poter dipingere quel magnifico scenario, o saper usare le parole dei poeti. Nessun mezzo gli sembrava adeguato a rendere anche solo in minima parte le sensazioni che provava. Non aveva con sé, del resto, neppure la camera ottica. Solo nella sua memoria, quello spettacolo triste e grandioso, compendio di vita, bellezza e morte, sarebbe rimasto impresso come un ricordo indelebile.
Sfortunatamente, ciò che rendeva quel luogo incantevole alla vista era anche ciò che lo rendeva impenetrabile per qualunque barca: rapide e cascate si susseguivano ininterrottamente a strapiombo su scarpate e dirupi quasi perfettamente verticali: era come se il fiume, nel suo scorrere infinito nel corso dei millenni, si fosse scavato un passaggio attraverso il muro di roccia; ma nessuna canoa avrebbe mai potuto fare altrettanto.
Lewis decise di ridiscendere la collina e dirigersi verso la mandria, sperando di poter catturare uno degli animali: voleva continuare ancora per qualche ora nelle sue esplorazioni, e se avesse fatto troppo tardi per tornare all’accampamento quella sera stessa, avrebbe potuto accendere un fuoco con I legnetti secchi che c’erano lungo il fiume; e con qualche ramo di pioppi ricavarsi un rifugio.
Colpito mortalmente uno dei bisonti, mentre osservava con una certa compassione il possente animale cadere con un muggito terrorizzato e soccombere rapidamente alla ferita, dimenticò di ricaricare il fucile.
In quel momento, un grande orso bruno si avvicinò, muovendosi con tale scaltrezza e così silenziosamente, che non era a più di venti passi da Lewis, quando questi se ne accorse. Prese l’arma per sparargli, e solo allora ricordò che era scarica; l’orso si avvicinava rapidamente e non c’era più tempo per rimediare. La pianura era completamente aperta, senza un cespuglio o un albero per centinaia di metri; la riva del fiume era in pendenza e a non più di un metro sopra il livello dell’acqua.
In altre parole, non c’era modo che Lewis potesse nascondersi e ricaricare l’arma. Si incamminò a passo svelto sperando di poter raggiungere il primo albero, a poco meno di trecento metri, ma la bestia si lanciò contro di lui a bocca spalancata, guadagnando terreno a ogni passo.
Lewis si gettò allora in acqua: se avesse costretto l’orso a nuotare, avrebbe potuto meglio difendersi con la lancia.
Quando fu immerso fino ai fianchi, si voltò e rivolse la punta della lancia contro l’animale, proprio nel momento in cui questo arrivava sulla riva del fiume. L’orso si girò di scatto e prese a correre nella direzione opposta, con la stessa velocità con cui fino ad allora aveva inseguito Lewis. Questi tornò a riva, ricaricò il fucile che aveva tenuto in mano per tutto il tempo, e poté vedere l’animale attraversare fulmineo la tratta scoperta, voltandosi di tanto in tanto come se temesse di essere inseguito, e nascondersi poi nel folto dei boschi.
Che cosa precisamente lo avesse spaventato, rimase un mistero per Lewis, comunque grato dell’improvvisa decisione dell’orso di evitare lo scontro.
Lewis terminò di esaminare il torrente e si apprestò a tornare indietro. Erano le sei e mezza di sera e stava rapidamente calando il buio.
Non aveva percorso che un paio di centinaia di metri, quando finì quasi addosso a un animale: subito gli parve un lupo, ma guardandolo meglio, vide che era quasi certamente un felino, forse una lince, un puma o un ghiottone. Non era molto grande, ma era la bestia più feroce e aggressiva che Lewis avesse mai visto. Lo vide accovacciarsi come un gatto e un attimo dopo spiccare un balzo, pronto a saltargli addosso con le fauci spalancate. Gli sparò e l’animale parve letteralmente scomparire nella sua tana, quasi svanire nell’aria, come se non fosse mai stato lì.
Altri trecento metri e tre bisonti, separatisi dal branco poco lontano, presero a inseguire Lewis a tutta velocità. Forse qualche spirito del luogo aveva deciso di inviare tutti gli animali dei dintorni, per farli divertire a sue spese? In tal caso, pensò, tanto valeva concedere loro un po’ di quel divertimento: si voltò di scatto e cambiò direzione all’improvviso, correndo verso i tre bisonti. Forse per la sorpresa, o più probabilmente per il fucile e la lancia che Lewis teneva in mano, questi batterono precipitosamente in ritirata.
Finalmente, Lewis si ritrovò nel luogo dove aveva lasciato il bisonte ucciso qualche ora prima, ma l’idea di passare la notte lì non gli piaceva per nulla.  Ne aveva passate tante in un solo giorno, che si sarebbe convinto di aver sognato, ma le dolorose spine dei fichi d’india che gli tormentavano i piedi a ogni passo, specialmente adesso che il buio era ormai fitto, lo convinsero che in realtà era ben sveglio, e che era meglio che si sbrigasse a tornare.
Il suo arrivo risollevò non poco l’animo degli uomini, i quali lo piangevano già quasi per morto, e stavano discutendo su come organizzare le ricerche il mattino dopo.
«State bene, Lewis?», chiese Clark con ansia.
«Benissimo», rispose lui, che quasi crollava per la stanchezza. «Non preoccupatevi, non ho niente che un buon pasto e un sonno ristoratore non possano guarire prontamente. Che mi dite dei malati, stanno meglio?».
«Sì, quasi tutti. Purtroppo, Janey è invece ancora gravemente inferma. L’ho fatta trasferire nei miei appartamenti. Charbonneau voleva protestare, ma l’ho messo a tacere».
«Avete fatto benissimo. Quell’uomo si sta rivelando anche peggio di quanto pensassi, è pigro e vigliacco, e tratta sua moglie peggio di un cavallo da soma».
«Le ho somministrato anche una dose di sali, e ho massaggiato la zona infetta con un miscuglio di corteccia. Sembrava stare meglio, ma questa sera le sue condizioni sono nuovamente peggiorate. Charbonneau insiste che dobbiamo tornare indietro e riportare la ragazza al villaggio».
«Ovviamente gli avrete fatto presente che questo non è in alcun modo possibile. Del resto, che beneficio ne avrebbe? Sarà di certo meglio curata, qui con noi».
Lewis era più preoccupato di quanto volesse ammettere. Naturalmente, c’era il fatto oggettivo che senza Janey sarebbe stato più difficile dialogare con gli Indiani Snake, da cui dipendevano per l’acquisto dei cavalli, indispensabili per attraversare le montagne. Inoltre, la ragazza lavorava instancabilmente, sobbarcandosi anche i compiti più pesanti senza lamentarsi mai, anche dopo che si era ammalata.
Ma non era solo questo. Stava diventando a tutti gli effetti un membro della Spedizione, e i due Capitani erano in ansia per la sua salute come lo sarebbero stati per uno qualunque dei loro uomini.
Charbonneau, quella peste, continuava a non darle i medicinali e prestarle le cure necessarie, riferì Clark. Non che si rifiutasse apertamente; ma erano più le volte in cui si “dimenticava” di quelle in cui si occupava di quel compito, forse per lui già fin troppo impegnativo, perché anche il più leggero dei lavori sembrava essere un peso insopportabile per quell’uomo.
Quando Lewis scese a visitare la ragazza, il pomeriggio successivo al suo ritorno dall’esplorazione delle cascate, le tastò il polso: il battito era a malapena percettibile, rapidissimo e irregolare; ella soffriva inoltre di spasmi in tutto il corpo e fortissimi dolori all’addome.
Lewis continuò con le applicazioni di corteccia e laudano già ordinate da Clark, e le fece anche portare dell’acqua solforosa da una certa fonte minerale, sui cui effetti nutriva grande fiducia.
Nel frattempo, aveva messo gli uomini al lavoro per costruire delle ruote da carro, mentre Clark cercava un passaggio via terra per trasportare le canoe attraverso le cascate. Era ormai evidente che questo tratto sarebbe stato assai arduo, e avrebbe richiesto ben più di un giorno, come avevano preventivato. Era passata la metà di giugno, la luna delle fragole che diventano rosse, per Sacagawea. E sembrava improbabile ormai riuscire a oltrepassare le Grandi Cascate prima della luna delle ciliegie, ovverosia luglio.
Un paio di giorni dopo, Janey iniziò a riprendersi: non aveva più dolore né febbre, e mangiò di gusto tutto il bisonte alla griglia che le aveva dato Lewis. Era di tempra robusta, e vi era buona ragione di credere che fosse ormai fuori pericolo. Lewis, che aveva davvero temuto per la sua vita, la considerò una delle notizie migliori di quel periodo.
Il giorno successivo, decise di assecondare un poco il lato solitario del suo carattere, restandosene qualche ora per conto suo, a pescare e riflettere. Teneva in gran conto quei momenti, di cui non poteva beneficiare che di rado.
Al ritorno, trovò però ad attenderlo una brutta sorpresa: Sacagawea aveva avuto il permesso di alzarsi, e camminare un poco se voleva, ma non certo di affaticarsi; invece, doveva essersi stancata troppo: aveva di nuovo la febbre e le sue condizioni erano visibilmente peggiorate. Incalzato da Lewis, Charbonneau ammise che l’aveva mandata a raccogliere frutta e legna, e che inoltre le aveva permesso di mangiare pesce secco e mele acerbe, contro l’espresso divieto dei due Capitani.
«Dovrei forse trattarla come una principessa?», rispose Charbonneau in malo modo, alle proteste di Lewis. «Il suo cibo deve guadagnarselo».
«E per guadagnarselo deve morire? Vi abbiamo detto più volte cosa può mangiare, e abbiamo raccomandato riposo. Se sta di nuovo male è solo colpa vostra. Le darò del salnitro per la febbre, e questa sera del laudano per farla dormire. È forte e spero che superi anche questa crisi, ma se disubbidite ancora alle mie disposizioni, ne risponderete a me personalmente».
Quasi senza rendersene conto, Lewis aveva a poco a poco smesso di chiamare la ragazza Janey, Nei suoi diari, trascriveva il suo nome in quattro o cinque modi diversi, secondo la fonetica inglese, per impararlo meglio; e così faceva anche Clark.
«Come state questa mattina, Sacagawea?». Chiese Lewis qualche giorno dopo.
«Oh, sto molto meglio. E adesso dite il mio nome giusto», disse la ragazza con un piccolo sorriso. Nel suo sguardo non c’era solo gratitudine: Lewis capì che la ragazza aveva ormai riposto in lui e in Clark tutta la sua fiducia e la sua lealtà. Il legame di affetto, che aveva cominciato a crearsi nei mesi passati insieme al forte e nelle prime fasi del viaggio, era diventato ormai indissolubile.

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – sesta puntata

CAPITOLO III – Aprile – giugno 1805

I

Nella luna in cui i caprioli mettono le corna, dicembre per i bianchi, i membri della Spedizione e gli Hidatsa del Dakota avevano danzato tutti insieme per la prima volta. I bianchi avevano voluto festeggiare il completamento del loro forte e una cosa che chiamavano Natale, un giorno in cui il loro Dio rinasceva ogni anno. Lewis e Clark avevano chiamato l’accampamento Forte Mandan, in onore dei loro vicini, appartenenti alla nazione Mandan del Popolo degli Uomini. I capi della nazione erano stati molto contenti di questo.
La sera prima di partire danzarono ancora una volta tutti insieme, per salutarsi: gli Hidatsa suonarono i loro tamburi e i bianchi i loro strumenti, che chiamavano violino e fisarmonica. Si divertirono molto, e anche se Sacagawea non poteva partecipare, le fece piacere guardarli, con il suo piccolo in braccio.
Era la luna della selvaggina, altrimenti detta mese di aprile, quando il Corpo di Spedizione riprese il fiume, con la chiatta e un paio di piccole canoe. Non era certo la flotta di Colombo o di James Cook, ma la gioia che Lewis provò non era in nulla inferiore a quella dei suoi ben più illustri predecessori. Di fronte a loro si estendeva un territorio di oltre tremila chilometri, di cui non sapevano niente. Paesaggi, piante, animali, popoli, pericoli, opportunità: tutto nuovo, come se fossero venuti al mondo solo allora. Lewis non era mai stato così felice.
Al gruppo si erano aggiunti tre nuovi membri: l’interprete Toussaint Charbonneau, sua moglie Sacagawea e il piccolo Pomp, che non aveva più di due lune, ma già viaggiava, sia pure legato strettamente alla schiena della sua mamma.
In più di un’occasione dovettero pagaiare contro la corrente, a volte disincagliare le canoe dalle rive sabbiose e poco profonde.
Risero insieme per i buffi animaletti che qualche volta gli Hidatsa catturavano per mangiarli: i bianchi li chiamarono “cani della prateria”, anche se non somigliavano a nessun cane che Sacagawea avesse mai visto; e si stupirono delle immense mandrie di bisonti che correvano, delle loro cariche e della loro grande forza.
Qualche volta, Clark passava a salutare Pomp e quando poteva si fermava a giocare un po’ con lui.
Il vento era quasi sempre favorevole, almeno al mattino: spesso i bianchi alzavano sulle canoe dei teli di stoffa che chiamavano vele, e che le facevano andare più veloci.
Attraversarono terre fertili, con ampie vallate, ricoperte di boschi di pioppi e salici e cespugli di rose selvatiche. Il tempo era ancora abbastanza mutevole, spesso nel corso della giornata Il vento aumentava di forza all’improvviso. Talvolta nevicava o gelava addirittura; eppure, la vegetazione continuava e essere rigogliosa, la selvaggina abbondante, era primavera nonostante tutto. «Questo tempo per noi è la luna della semina», spiegò Sacagawea a Lewis. «La chiamiamo anche luna dei nidi, perché è in questa stagione che gli uccelli si accoppiano».
Il fiume si faceva man mano più tortuoso, stretto tra rive di terra e fango che talvolta, sotto le raffiche improvvise, cadevano in acqua, formando dei vortici che sembravano pronti a inghiottire le fragili canoe da un momento all’altro.
Fu in una di quelle circostanze che il cambio repentino del tempo rischiò di causare la perdita di alcuni dei più preziosi strumenti della Spedizione, oltre a diversi altri oggetti da cui poteva addirittura dipendere il successo o l’insuccesso dell’impresa.
Al timone di una delle barche avrebbe dovuto esserci Drouillard, ma per qualche ragione era stato sostituito da Toussaint Charbonneau. Per colmo di sfortuna, sia Lewis che Clark si trovavano sulla riva in quel momento, circostanza che praticamente non si verificava mai.
Charbonneau non sapeva nuotare, detestava anzi l’acqua, e in simili frangenti si era più volte dimostrato un inutile fascio di nervi. Quando il natante minacciò di ribaltarsi si fece prendere dal panico e sbagliò completamente la manovra. La violenza del vento strappò il braccio della vela dalle mani dell’uomo che lo teneva. Subito la canoa si inclinò ad angolo retto e si sarebbe capovolta completamente se non fosse stato per la resistenza degli uomini ai remi.
Lewis e Clark spararono diversi colpi dalla riva, ma nessuno, in quel frastuono, poteva udirli. Per un momento, Lewis dimenticò ogni cosa tranne la necessità di salvare la barca. Posò la pistola e la borsa con i proiettili e prese a slacciarsi la giacca.
«Che diavolo intendete fare?», chiese Clark. «Non starete pensando di raggiungere la canoa, spero! È a quasi trecento metri da noi, l’acqua è gelida e nemmeno una barca è in grado di resistere alla forza della corrente e all’altezza delle onde, immaginatevi un uomo a nuoto. Sarebbe un suicidio!».
«Se perdiamo quella barca, la mia vita non varrà molto», disse Lewis.
«Credetemi», ribatté Clark, «servirete ancora meno da morto. È un’idea folle e completamente inutile».
Lewis si rese conto che l’amico aveva ragione. Charbonneau sulla barca continuava a invocare il Signore, del tutto ignaro che nessun dio aiuta chi non fa niente per aiutare sé stesso.
Per fortuna, uno degli uomini sulla canoa, prese in mano la situazione. Fu necessario arrivare al punto di puntare la pistola direttamente contro Charbonneau e minacciarlo di sparargli là per là, ma finalmente questi si rimise al lavoro. Gli altri uomini gettarono fuori bordo l’acqua che era entrata nella barca e remarono fino a portarla abbastanza vicino alla riva da poterla svuotare del carico.
Un paio di giorni dopo, una volta asciugato il materiale recuperato dalla barca, Lewis fece un inventario delle perdite: alcuni medicinali, parte del cibo e una certa quantità di polvere da sparo; ma tutto sommato, avrebbe potuto andare molto peggio. Tutti quanti, incluso lo stesso Charbonneau, sia pure non spontaneamente, avevano unito le forze per salvare tutto quello che potevano. Ma al contrario del marito, come Lewis riportò nei suoi diari, Sacagawea aveva mostrato lo stesso coraggio, la stessa forza d’animo e determinazione di tutti gli altri uomini che si trovavano a bordo. Clark propose di dare il suo nome a quel tratto del torrente che si gettava nel Missouri, e così fecero. La ragazza non disse molto, non diceva mai molto; ma i suoi occhi erano pieni di gioia e stupore come quelli di una bambina che avesse ricevuto un regalo bellissimo e inaspettato.
«Fiume Sacagawea. Non Janey, il mio nome vero. Fiume Sacagawea», ripeté la ragazza, come per assaporare il suono di quelle parole. «Grazie. È la cosa più bella che qualcuno abbia mai fatto per me».

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – V puntata

III

Tra maggio e ottobre, la Spedizione aveva percorso oltre duemilacinquecento chilometri, parte in barca, parte a piedi, spingendo o trascinando la canoa con tutto il suo carico.
Si trovavano adesso nel Dakota del Nord, all’ultimo confine dell’area di cui esistevano descrizioni e mappe, per quanto imprecise. Nessuno si era mai spinto oltre: da quel punto iniziava la parte a tutti gli effetti inesplorata.
Era ormai impossibile proseguire, la stagione fredda era già iniziata, ed era necessario trovare un posto dove fermarsi fino alla primavera. Dopodiché, avrebbero dovuto risalire il Missouri e avrebbero avuto bisogno di una o più guide e interpreti. Inoltre, dovevano comprare dei cavalli dalle tribù Hidatsa locali.
L’approccio con i Nativi del luogo era stato cordiale. Lewis e i suoi uomini furono colpiti dal loro ampio villaggio, con le sue casette di terra battuta e gli orti di zucche, fagioli, girasoli e mais disposti in bell’ordine. In quei giorni fecero amicizia con i capi, fumarono la pipa con loro, andarono a caccia insieme ai guerrieri, fecero persino da mediatori per cercare di rappacificare i piccoli gruppi sempre in guerra tra loro. Soprattutto, cercarono qualcuno che fosse disposto ad aiutarli ad attraversare le montagne, una volta che avessero ripreso il viaggio.
A inizio novembre, dopo decine di colloqui, Lewis sperava di aver finalmente trovato la guida adatta, un mezzo francese di madre indiana, di nome Toussaint Charbonneau.
A dire il vero, l’uomo non sembrava troppo affidabile, ma era un cacciatore di pellicce con una buona conoscenza dei territori, e aveva detto di avere due mogli che parlavano la lingua degli Snake, o Scioscioni, una tribù che viveva alle sorgenti del fiume.
A Lewis l’idea di aggregare una donna a un gruppo di oltre quaranta uomini non sorrideva affatto, ma era un problema di suo marito, dopotutto.
La popolazione della zona era divisa in molte più tribù di quante avessero pensato inizialmente, ciascuna con la sua lingua; alcune erano amichevoli, altre ostili, e Lewis sapeva che tra i Nativi, la presenza di una donna serviva a segnalare intenzioni pacifiche; senza dire che la ragazza poteva essere utile per negoziare l’acquisto dei cavalli e di altri generi di prima necessità.
Charbonneau tornò qualche giorno dopo a far loro visita all’accampamento, accompagnato dalle sue due mogli, e portando in dono quattro bellissimi abiti di pelle di bisonte.
Lewis fece uso della sua capacità di valutare rapidamente le persone: giudicò la meno giovane delle mogli meno robusta e non troppo sveglia; l’altra era poco più di una ragazzina, evidentemente incinta di qualche mese, ma sembrava forte, e il modo in cui si guardava intorno e osservava gli fece capire che non era priva di intelligenza. Aveva un nome impossibile, però, Sa-kaka o Saka-ga-qualche-cosa: se avessero deciso di portarla con loro avrebbero dovuto trovare un soprannome pronunciabile. Per il momento, Clark la chiamava Janey, ragazzina.
Janey aveva chiesto di poter accarezzare Seaman, e il terranova l’aveva lasciata fare più che volentieri. Lewis non avrebbe saputo dire perché ci avesse fatto caso, eppure quel dettaglio senza importanza contribuì a far pendere ancor più la bilancia in favore di Charbonneau e della sua moglie ragazzina.
Prese da parte Clark per avere un suo parere.
«Pensate che dovremo assumere questo trapper con la faccia da furfante»?
Clark fece una risatina.
«Temo che la vostra freccia non sia finita troppo lontano dal bersaglio, Lewis. Ma mi pare il più promettente tra tutti quelli con cui abbiamo parlato finora, e non restano poi molte alternative».
Lewis sospirò.
«Avete ragione. Bene, porteremo con noi il gentiluomo dei boschi e la ragazzina, allora, e che Dio ce la mandi buona».
Quella sera, in preda a uno di quei momenti di malinconia cui di tanto in tanto andava soggetto, Lewis si attardò a fare due chiacchiere fuori dalla tenda con Clark. Clark era un uomo solido, razionale; le sue inquietudini, se pure ne aveva, le risolveva trovandosi qualcosa da fare e cercando di non pensarci. Di certo non condivideva la tendenza di Lewis alle riflessioni notturne, probabilmente, anzi, non la capiva affatto; ma sapeva che talvolta i pensieri gravavano sulle spalle dell’amico come un pesante fardello, e cercava di alleggerire quel fardello come meglio poteva.
Al rientro, i due uomini videro uno splendido stormo di oche del Canada dirette a sud. In cuor suo, Lewis si sorprese a sperare vivamente di poterlo interpretare come un segno favorevole.

IV

«Preparati, andiamo al forte per qualche tempo», disse Toussaint. Sakagaweah non fece domande, non ne faceva mai. Sapeva cosa fare. In pochissimo tempo, raccolse le poche provviste necessarie e la culla di legno che avrebbe usato per il bambino, e caricò tutto sul cavallo.
Aveva capito, dalle precedenti visite al forte, che i due capi di nome Lewis e Clark e i loro uomini stavano facendo un lunghissimo viaggio, e avevano bisogno di una guida che conoscesse la strada e che parlasse la sua lingua e quella di Toussaint.
Quei bianchi non somigliavano a nessuno del suo popolo, nemmeno a Toussaint; dopotutto, anche se il padre di Toussaint era francese, sua madre era una Mandan.
I due capi erano molto alti, e la loro pelle era abbastanza scura sul viso e le mani, ma aveva notato, quando scoprivano il collo e le braccia, che in quei punti era più chiara e più sottile. Gli occhi di Clark erano di un colore come le nocciole, simile a quello di tutto il suo popolo; quelli di Lewis invece erano a volte grigi, a volte azzurri o blu, cambiavano con il colore del cielo, come l’acqua dei fiume. E come il fiume, avevano dentro tanto la luce quanto l’ombra, un’eco di burrasca anche quando sembravano quieti; e nel suo sorriso sembrava sempre esserci un velo di tristezza.
Clark era quasi sempre allegro, aveva uno sguardo buono e parlava con tutti, persino con lei.
Avevano un cane molto grande, Seaman, tutto nero, peloso e bellissimo; gli Hidatsa con cui Sakagaweah viveva non avevano cani, ma ne aveva visti alcuni nella sua vita, usati da altre tribù come animali da carico, o per la caccia. Ma Seaman era diverso: era un buon cane da caccia, questo sì, ma il signor Clark e il signor Lewis si comportavano con lui come se fosse stato anche un amico, ci giocavano e addirittura gli parlavano. Li aveva visti accarezzarlo, e aveva desiderato farlo fin dalla prima volta che era arrivata al forte. Quando glielo avevano permesso era stata così felice e stupita che avrebbe voluto mettersi a danzare. Veramente aveva anche paura di lui, all’inizio, ma quel cane era un po’ come Clark: grande e grosso e forte abbastanza da buttarti per terra, se voleva, ma buono.
I capi si comportavano in un modo molto strano. A volte andavano a cacciare e pescare con gli altri, ma di solito restavano nella loro tenda, seduti per ore a disegnare dei simboli come il suo popolo faceva sulla pietra, ma loro invece lo facevano su un materiale molto più morbido, che chiamavano carta. Forse pregavano i loro dei in quel modo, o chiamavano i loro Antenati per comunicare con il Grande Spirito.
Facevano molte domande. C’era un uomo, lo chiamavano Drouillard, che conosceva la lingua dei segni indiana: una lingua che tutto il Popolo degli Uomini, di tutte le Nazioni, era in grado di usare e di capire, ma lei non aveva mai visto un bianco che la conoscesse. Neanche Toussaint.
Un altro uomo, invece, parlava la lingua di Toussaint. Così, molte volte i bianchi facevano delle domande a quell’uomo, e lui le traduceva a Toussaint, e Toussaint le traduceva a lei, e lei rispondeva a Toussaint, e questi all’uomo che sapeva il francese, e quest’ultimo a Lewis e Clark, che disegnavano tutti quei segni. Scrivere, le spiegò Drouillard. Loro disegnavano simboli su quegli oggetti che si chiamavano quaderni, e questo voleva dire scrivere. E no, non usavano quei segni per comunicare col loro dio: li usavano per ricordarsi tutto quello che succedeva, le cose che vedevano lungo la strada, gli animali che non conoscevano, la posizione delle stelle nel cielo, la direzione del vento, le piante che crescevano in quella zona, e tutto quello che lei e Toussaint raccontavano della loro gente.
La lingua degli uomini bianchi le era sembrata all’inizio molto buffa, bruttissima; ma man mano che passava il tempo, si accorse che si stava abituando a quei suoni diversi, come un nuovo canto, che forse le sarebbe piaciuto imparare.
Nel frattempo, il bambino cresceva nella sua pancia, e quando venne la luna del gatto selvatico, febbraio per i bianchi, capì che presto sarebbe stato pronto a venire fuori nel mondo. Quando i dolori si fecero più forti, sapeva già cosa fare.
«Chiama Lewis», disse a Toussaint. Tra i suoi uomini, Lewis era come un Uomo di Medicina.
Sakagaweah non avrebbe voluto gridare, ma si sentiva come se le una freccia le entrasse più e più volte nel ventre, per ore. A un certo punto, le fecero ingoiare una poltiglia di anelli di serpente tritati: uno degli uomini di Lewis, un commerciante di pelli che aveva vissuto per qualche tempo con un’altra tribù del Popolo degli Uomini, disse che avrebbe aiutato il bambino a uscire. Infatti, poco dopo tutto era finito.
Così nacque il piccolo Jean Baptiste, subito ribattezzato Pomp da Clark. Se mai Sakagaweah si fosse fermata a pensare a come sarebbe stato quel momento, di certo non lo avrebbe mai immaginato così, in mezzo ai bianchi, in un forte costruito da loro, curata da loro, in attesa di mettersi con loro in cammino per un viaggio senza sapere dove sarebbero andati, né perché. La volontà del Grande Spirito era misteriosa.
Oggi, 11 febbraio 1805, è nato Jean-Baptiste, figlio di Toussaint Charbonneau, interprete e guida della spedizione, e di sua moglie Sakagaweah, detta Janey. Mentre Lewis scriveva queste parole sul suo quaderno, Drouillard le traduceva a Sakagaweah in lingua dei segni. A un certo punto, Lewis alzò gli occhi e si voltò a guardarla. Sorrideva. «Sei stata molto coraggiosa», disse, «ed è un bellissimo bambino». Quella frase, la ragazza la capì prima ancora che Drouillard la traducesse.
«Perché Janey?» Domandò. Sapeva che le avevano dato quel soprannome, e non aveva mai chiesto perché. Lewis sorrise ancora. «Per noi il tuo nome è molto difficile da pronunciare», disse, poi si girò di nuovo e riprese a scrivere.
Sakagaweah si sentì un po’ triste. Sia il signor Lewis che il signor Clark erano gentili con lei, ma sembrava che a nessuno dei due importasse di imparare il suo nome. Volevano sapere tante cose del suo Popolo, quello che mangiavano, gli oggetti che fabbricavano, come combattevano e cacciavano, ma le parlavano solo per questo. Non la picchiavano, non gridavano contro di lei, non la offendevano, ma erano del tutto indifferenti a quello che lei pensava o faceva. La lasciavano in pace, e questa, dopotutto, era una cosa buona. E comunque adesso era molto stanca, aveva bisogno di dormire.