LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – dodicesima puntata

Se vi siete persi qualche puntata e volete recuperarla, le trovate tutte qui. o cliccando sul tag “la ragazza delle montagne”.

II

Nei giorni successivi oltrepassarono numerose piccole rapide, ma di rado ostruite da rocce, e tutte praticabili senza troppi rischi.
L’ormai ben noto trio di flagelli – zanzare, moscerini e cactus – continuava a tormentarli come una nuova versione delle piaghe d’Egitto. Gli uomini erano esausti, Lewis cercava di rinfrancarli come poteva, anche, talvolta, aiutandoli a condurre le canoe: aveva imparato a pagaiare in maniera quasi accettabile, per usare le loro parole.
Oltrepassarono un punto in cui compatte rocce calcaree chiudevano nuovamente il corso d’acqua in uno strettissimo corridoio. Osservandole, Lewis ne ammirò la bellezza: al taglio, rivelavano un colore blu profondo con venature simili a quelle del marmo, mentre alla luce si illuminavano di un azzurro più chiaro. Con tutto ciò, non rendevano il passaggio più facile.
Se non altro, tutto ormai indicava quasi con certezza che Clark aveva avuto ragione: i Nativi li avevano scorti da lontano e avevano usato il fuoco per dare l’allarme a distanza, fuggendo poi verso l’interno. Clark aveva infatti trovato, durante una ricognizione, tracce di fuochi recenti e orme di un cavallo risalenti probabilmente a quattro o cinque giorni addietro. Gli Indiani avevano probabilmente udito qualche sparo, e creduto di avere a che fare con una tribù nemica, ma non potevano essere lontani, e questa era una splendida notizia, pur con tutte le cautele del caso. Clark aveva lasciato alcuni oggetti e altri segni per far loro sapere che le loro intenzioni non erano ostili.
La Spedizione, insomma, stava procedendo sulla strada giusta, il che era un conforto non da poco, unito al fatto, rifletté Lewis, che se gli Indiani potevano sostentarsi in queste montagne con gli scarni mezzi di cui disponevano, di certo avrebbero potuto farlo anche loro.
Tuttavia, benché la notizia li avesse rasserenati alquanto, procedevano comunque molto lentamente: era la fine di luglio, il caldo era torrido, la corrente del fiume fortissima, e il costante sforzo per vincerla li stremava. Uno degli uomini si era malamente ferito a un braccio, un altro si era procurato uno stiramento ai muscoli della schiena scivolando e cadendo all’indietro sulla murata della canoa; Charbonneau si era slogato una caviglia; tutti avevano bolle e tumefazioni su varie parti del corpo, oltre ai piedi gonfi a doloranti per i tagli delle spine di cactus.
Lo stesso Clark era tornato dalla ricognizione affaticato e febbricitante, dopo aver trascorso, come disse a Lewis, una notte tremenda: febbre alta, brividi, dolori costanti in tutti i muscoli.
Se non avessero trovato presto dei cavalli, Lewis temeva che il successo del viaggio ne sarebbe stato gravemente compromesso. Erano ormai varie centinaia di miglia all’interno di un territorio che si faceva sempre più inospitale. La selvaggina iniziava a scarseggiare, e mancava loro qualunque informazione riguardo all’estensione della catena montuosa, al punto in cui poteva essere meno difficile attraversarla, alla direzione in cui poteva trovarsi un ramo navigabile del fiume e anche, trovandone uno, quale fosse la probabilità di potersi costruire delle canoe utilizzabili a quello scopo.
Lewis aveva somministrato a Clark un medicinale, gli aveva raccomandato di bagnare i piedi in acqua calda, oltre che, naturalmente, di riposare e l’aveva lasciato alle cure di Sacagawea, che di certo se ne sarebbe occupata meglio di quanto avrebbe potuto fare egli stesso.
«Qui mi hanno catturata», disse la ragazza.
«Proprio qui dove c’è il nostro campo?»
«Sì. Esattamente in questo punto».
La sua voce era perfettamente tranquilla, pareva quasi priva di emozioni. I suoi occhi, però, raccontavano un’altra storia: erano gli occhi di un puledro, un essere nobile, benché spaventato e ferito, al quale il dolore non aveva spento né l’anelito di libertà, né la sua natura generosa. Lewis aveva creduto di provare compassione per lei, ma era qualcosa di molto più profondo e complesso. Sacagawea aveva superato prove dalle quali molti sarebbero usciti stremati; e mentre era chiaro che non era abituata a dare alcuna importanza a sé stessa e a nulla di ciò che faceva, senza che se ne accorgesse ogni movimento, ogni sguardo risplendeva della sua forza e del suo coraggio. Lewis avrebbe scommesso qualunque cosa che era stata lei a sostenere tutti gli altri nei giorni difficili della prigionia, e che anche questo suo ruolo era stato accettato come un dato di fatto, senza alcun riconoscimento o gratitudine.
Per scacciare pensieri che ancora una volta rischiavano di farsi pericolosi, e ritenendo di essere ormai vicinissimo al punto dove il Missouri si divideva in tre diramazioni, Lewis si avviò da solo su per uno dei bracci del fiume, e presto trovò un’alta roccia, dalla cui cima poté avere una perfetta visuale dell’area circostante.
Per tutta la distanza raggiungibile con lo sguardo, il fiume attraversava un vasto prato, verde e dolce, e nel suo corso serpeggiava creando vari torrenti, il maggiore dei quali attraversava le colline sulla sinistra, e un’altra grande e magnifica cascata. Una serie di cime dall’aspetto curiosamente scabro e diseguale cingeva da vicino quello splendido luogo, e al di là di queste, in lontananza, si scorgevano le vette innevate di un’altra catena di monti più elevati ancora. Se davvero quelle erano le porte dell’inferno, di certo era un inferno di straordinaria bellezza.
Lewis ridiscese e attraversò il fiume in un tratto in cui scorreva in mezzo alla foresta e dove, ancora una volta, poté scorgere decine di castori intenti a costruire grandi dighe nelle aree paludose del fiume.
Fu per evitarle che Lewis si diresse verso un altopiano a una certa distanza, che non raggiunse se non dopo parecchio tempo e con grande difficoltà, immerso nel fango fino alla cintura.
Sperava di riunirsi agli altri, ma i cespugli erano così fitti, il fiume tanto tortuoso e i fondali ostruiti dalle dighe dei castori che era impossibile vedere qualcosa.
Sparò un colpo con la pistola. Nulla. Nessun segno di risposta. Lewis non era troppo in ansia, ma neppure del tutto tranquillo.
Essendo ormai quasi buio, si preparò comunque a trascorrere la notte da solo. Accese un fuoco, raccolse alcune fronde di salici per farne un giaciglio e si assicurò un’ottima cena grazia a un’anatra imprudentemente approdata sulla spiaggia. Infine, si dispose a cercare il punto migliore dove combattere le zanzare per il resto del tempo.
Fortunatamente, il fuoco restò acceso per tutta la notte, che, benché freddina, fu abbastanza confortevole, tutto sommato, zanzare a parte.
A un certo punto, doveva essersi addormentato profondamente, per almeno un’ora o due, perché quando aprì gli occhi, vicino al giaciglio trovò alcune bacche di amelanchier, dei mirtilli e alcune radici di camas.  Nessuna traccia di animali o persone. Potevano essere state portate lì da qualche roditore, ma ne dubitava. C’era qualcuno sull’isola? E quale scopo aveva nel mettergli accanto quelle provviste senza svegliarlo?
Al mattino scoprì che Clark aveva proseguito con le canoe e si era accampato su un’isola a non più di due miglia da dove si trovava lui, tuttavia non aveva udito il suo sparo, né il suo grido. Lewis non gli disse nulla del cibo trovato vicino al giaciglio; evidentemente non lo aveva messo lui, ed egli non intendeva allarmarlo, né rivelare un’azione apparentemente senza importanza, che pareva tuttavia averne molta per chi si era preso tutto quel disturbo per compierla.
Il cibo, del resto, lo aveva anche mangiato, ed era certo che il suo buon amico Clark lo avrebbe sgridato aspramente per quell’imprudenza; ma non lo aveva fatto senza riflettere. Se si trattava di un Nativo, come il tipo di dono gli dava ragione di credere – oltre al fatto che nessun bianco avrebbe saputo arrivare fin lì e allontanarsi senza lasciare tracce – non aveva alcun motivo di avvelenarlo, non era una loro abitudine e avrebbero avuto diverse occasioni migliori per ucciderlo in cento altri modi. Per cui, aveva concluso che c’era una sola spiegazione possibile, e al momento era molto meglio che la tenesse per sé.

Passioni nerd

So che sono diversi giorni che non vado avanti col romanzo sulla Spedizione di Lewis e Clark… è quasi pronta la prossima puntata, solo che nel frattempo mi sto dedicando a un mucchio di altre cose. Come molti di voi sanno, sono una nerd – ho passioni strane, tipo la letteratura, le lingue… cose da nerd, via.

Naturalmente, considerando l’enorme quantità di argomenti stupendamente nerd che esistono, c’è davvero un mucchio di cose divertenti che aspettano soltanto di essere imparate o fatte. E così, in un blog specificamente dedicato all’inglese (che è la più nerd di tutte le mie passioni nerd, e la più passione di tutte), sto cercando di soddisfare la mia parte “geek” e condividere il divertimento nello stesso tempo. Uccidere due uccelli con una pietra sola, kill two birds with one stone, dicevano gli inglesi un tempo. Oggi, come in italiano, si preferisce nutrirli. Due piccioni con uno scone!

Da tempo, raccolgo persino le frasi idiomatiche e le espressioni più curiose tratte dai film e dalle mie serie TV preferite, chissà, potreste trovarle utili se state imparando o volete / avete necessità di migliorare il vostro inglese. Ho cominciato finalmente stasera a scriverle sul mio altro blog, quello specificamente dedicato all’inglese, appunto. E ho cominciato col botto: le frasi idiomatiche (accompagnate da qualche commento personale), di Supernatural, una serie TV che mi piace davvero molto. Il primo episodio della prima stagione, in questo caso.

Quindi, più in generale: io scrivo e parlo (altre due che amo molto fare, e in inglese, per giunta) delle mie passioni: parole, libri, cinema, libri, musica, teatro, giardinaggio, cucina, e più o meno qualunque altra cosa vi venga in mente; e se, come spero, anche voi siete nerd tipi tosti, temerari avventurieri della mente, e condividete qualcuna di queste passioni, potremo scambiarci opinioni e idee.

Vi aspetto!

My friends know I’m a nerd – A lit-nerd, movie-nerd, language-nerd, a full-on nerd-nerd, in a nutshell. Of course, if you consider the huge quantity of amazingly nerdy topics, I think there’s tons of fun stuff just waiting to be learnt and done. So, I’ve been thinking I can satisfy my geeky side and share the fun at the same time (“feed two birds with one scone”, as the new version of an old saying goes).

I’ve even been collecting idioms and curious expressions from my favorite films and TV series and who knows, you might find them useful if you are learning /wish/need to speak English more fluently. From tonight, we are on the road at last, I’ve started writing them on my other blog, the one specially devoted to English. And I’ve started off with a bang: idioms (accompanied by a few very personal comments) taken from Supernatural, a TV series I’m very much into. First episode of the first season, for now.

More generally, I’ll write and talk (again, something I really love to do) about my passions for words, books, cinema, music, theater, gardening, cooking, you name it; and if, as I hope, you are nerds intellectual badasses too, and share all or some of these passions, we can exchange views and ideas.

Can’t wait!

LA RAGAZZA DELLE MONTAGNE – Capitolo undici

CAPITOLO CINQUE – L’INCONTRO

I

«Guardate laggiù, si vede salire del fumo», osservò Lewis. «Pensate sia un incendio»?
«Non credo», rispose Clark. «Immagino piuttosto che qualche gruppo di Nativi ci abbia avvistati e voglia segnalare la nostra presenza ad altre Nazioni, nel modo che abitualmente usano. Come potete vedere, qui c’è stato un accampamento indiano qualche tempo fa, probabilmente la primavera scorsa».
Clark indicò alcuni rami di salice intrecciati, probabilmente resti di capanne. La corteccia dei pini era staccata in più punti.
«Il mio popolo usa la linfa come cibo. Mangiamo anche una parte della corteccia. Dove è più tenera», spiegò Sacagawea.
La valle era attraversata da un torrente piuttosto grande, chiuso da una catena di monti non eccessivamente elevata, oltre la quale la campagna si faceva più aperta. Si accamparono su una riva alta, vicino a una sorgente, anche se il luogo era così fitto di fichi d’india, che trovare un posto per sdraiarsi era un’impresa più difficile che cercare il Santo Graal.
Grandi e piccole isole dividevano il fiume in un gran numero di canali. Una di queste, forse la più bella e di certo la più fertile, era ricoperta di una gran quantità una specie di piccoli bulbi somiglianti a cipolle, bianchi, croccanti e di ottimo sapore. Lewis la chiamò Onion Island. L’Isola delle Cipolle, appunto.
Lewis e gli uomini raccolsero una gran quantità di quei bulbi, fonte preziosa di cibo per i giorni a venire. Lewis prese anche dei semi da riportare a casa al ritorno, per farla conoscere: la pianta era tra l’altro assai produttiva e sopportava senza problemi la rigidità del clima.
Vi erano poi delle specie locali di uva spina bianca e rossa, amelanchier, prugnoli e ribes di tutti i colori: gialli, rossi, viola, e soprattutto quelli neri, che Lewis trovò ottimi, migliori di tutti quelli che avesse mai assaggiato.  Persino gli orsi, osservò, ne sembravano ghiotti.
L’acqua doveva forse avere un ruolo essenziale nel rendere particolarmente rigogliose quelle zone. Lewis annotò numerosissime varietà di alberi e piante, commestibili o meno: salici, rose selvatiche, caprifogli, abrotano, artemisia, ontani, pioppi neri, sequoie, sommacco, spesso in parte differenti, rispetto alle piante già note della stessa famiglia.
Numerose oche e diversi fagiani avrebbero fornito una buona provvista di carne. Ancora, infatti, il gruppo ne divorava una quantità spaventosa: occorrevano almeno quattro cervi, o un alce e un cervo, oppure un bisonte, per saziare a dovere tutti gli uomini per un solo giorno. Naturalmente, era necessario tenere la farina di grano arso e il mais per le Montagne Rocciose, che avrebbero raggiunto a breve e dove la selvaggina scarseggiava, ma nondimeno, Lewis era preoccupato. Era difficile indurre gli uomini a un minimo di moderazione, l’idea che fosse opportuno conservare almeno una parte della carne come scorta per i giorni a venire non li sfiorava. Presto o tardi, pensò, quell’arte sarebbe stata insegnata loro dalla necessità.
D’altra parte, le gru che si bagnavano le zampe nelle zone dove l’acqua era più ferma non potevano considerarsi selvaggina; ma rallegravano la vista con la loro grazia. Man mano che si avvicinava, Lewis si accorse anche di alcuni piccoli chiurli bruni, o forse pivieri, che cercavano a loro volta di godersi l’acqua. Uno di essi quasi si scontrò con Sacagawea: arretrò di colpo e fece una serie rapidissima di movimenti con la testolina, guardando la ragazza da ogni angolazione, incerto forse tra la curiosità e il timore, prima di decidere prudentemente di volar via, con gran divertimento del piccolo gruppo che aveva potuto godere della piccola esibizione gratuita.
Ancora, molti castori e diverse lontre affollavano il corso d’acqua; i primi, in particolare, erano continuamente indaffarati a costruire dighe lungo i canaletti tra le isole, forzando così il fiume a formare nuovi canali; questi, però, presto si prosciugavano e si riempivano di fango, sassolini e ramoscelli, sicché i castori erano costretti a cercare un altro luogo e costruire altre dighe e così di seguito, all’infinito.  In molti punti, il fiume mutava continuamente, per via di quei canali artificiali continuamente bloccati e ricreati: così alcune delle isolette che lo popolavano venivano sommerse, sparendo alla vista, ma altre ne emergevano al loro posto.  Erano quasi commoventi, intenti com’erano in quell’attività frenetica, come piccoli operai a cottimo, o piuttosto come buffe riedizioni di Sisifo, che portavano a termine con gran fatica un compito apparentemente inutile, senza mai vederne i frutti e dovendo ogni volta ricominciare tutto daccapo.
Infine, la zona umida nei pressi del fiume ospitava un gran numero di serpenti dei colori più vari, nessuno dei quali, fortunatamente, velenoso, come Lewis si premurò di accertare: se si sentivano minacciati, si limitavano a rifugiarsi rapidamente in acqua.
«Questo è il fiume Lemhi», disse Sacagawea. «Io vivevo qui. Voi cercate il punto dove si divide in tre rami? Non è lontano. Il percorso è più facile da qui».
«Ne sei assolutamente certa?», chiese Lewis. Aveva imparato a fidarsi del suo giudizio, tuttavia, non poteva fare a meno di aspettarsi continuamente qualche vertiginosa cascata o qualche altro ostacolo insormontabile, in quel territorio così aspro e montuoso.
«Vedrete voi stesso», rispose lei brevemente.
«Benissimo», disse Clark in tono allegro. «Questo significa che siamo vicini alle sorgenti del Missouri, un luogo che nessun bianco ha mai visto prima. È un’ottima notizia, di cui sono arcicontento!». Clark aveva un suo modo caratteristico di esprimersi, ma non appena l’informazione si diffuse tra gli altri, un brivido di eccitazione percorse tutto il gruppo, contagiato dallo stesso entusiasmo. Persino il piccolo Pomp, che aveva adesso quasi sei mesi, parve condividere l’allegria generale, lanciandosi in una serie di buffi trilli gioiosi e agitando manine e piedini come se danzasse: non per niente, Clark aveva escogitato per lui il soprannome di “piccolo salterino” o “bimbo-che-balla”, subito adottato con la massima naturalezza sia da Sacagawea che dall’intero Corpo di Spedizione.
Lewis vide la ragazza sorridere, e anche questo gli fece un gran piacere: erano diversi giorni che la vedeva sempre seria, quasi malinconica, senza sapersene spiegare il motivo. Di certo, la sua vita era assai dura, ed egli aveva il fondato sospetto che Charbonneau la picchiasse, benché non ne avesse le prove. Del resto, il piccolo Pomp era una delizia per gli occhi e per il cuore e portava il buonumore ovunque andasse. Speriamo che crescendo somigli sempre di meno al padre e sempre di più alla madre, si sorprese a pensare.
Charbonneau apostrofò la ragazza in tono così secco, che Lewis sobbalzò.
«Vai a cercar legna e cibo, invece di star qui a perdere tempo!».
«Vengo con te», le disse Lewis, e vide Charbonneau rabbuiarsi, benché non osasse dir nulla.
«Perché non è Toussaint, a prendere la legna?», le chiese, quando si furono un po’ allontanati dal gruppo. La ragazza pensò a Toussaint che raccoglieva legna e le venne da ridere. Lewis però era serio. Lei scosse la testa.
«Non è un lavoro da uomo», disse.
Lewis si mise a giocare con il piccolo Pomp, parlandogli in inglese, ben consapevole che lei ascoltava e assorbiva tutto. Sacagawea pensò che dare un nome diverso alle cose significava, dopotutto, ricrearle. Era questo che avevano fatto gli Antenati: dare un nome alle cose per dare forma al mondo; e adesso lei e Meriwether, insieme, stavano modellando un minuscolo pezzettino di mondo, che non durava più dello spazio di un istante, solo il tempo di pronunciare una parola; ma lasciava dentro di loro e sul terreno, ogni volta, un minuscolo segno, invisibile a tutti tranne che a loro.