UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione – I genitori non sbagliano mai

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Titolo provocatorio, non perché io pensi che esistano genitori perfetti, non parliamo poi di me, ma perché ci facciamo sempre un bel po’ di problemi. Noi genitori, in generale, noi genitori adottivi, in particolare. Qualunque comportamento un po’ fuori dalla norma del nostro pargolo viene sezionato, analizzato, studiato al microscopio, ma più che altro nell’ottica del “che cosa abbiamo fatto di sbagliato?” Appunto. Ci sentiamo responsabili di tutto, anche di ciò che comunque non possiamo cambiare.

Ce lo ha confermato persino la Signora dei Boschi (qualcuno forse ricorderà, era il nome con cui indicavo la psicologa del Centro Adozioni quando raccontavo in forma un po’ fiabesca delle nostre vicissitudini).  Potrebbe sembrare non solo “naturale”, ma anche tutto sommato persino una bella cosa, ci si preoccupa, ci si fa carico del dolore e dell’ansia dei bambini. E lo è, entro certi limiti. Ma quello che noi dobbiamo imparare adesso, e che credo non sia facile per nessuno, è a fare un passo indietro. A trovare un confine.

Chiedersi troppo spesso dove si sta sbagliando finisce per ingigantire i problemi, drammatizzare e appesantire. quando poi, spesso non si tratta di errori. E’ che ognuno di noi è fatto in un certo modo e pensa, agisce, affronta le cose, positive e negative, perché quello è il suo modo, e non è né giusto né sbagliato. E’ il suo modo.

Detto questo, siccome siamo tutti diversi, il nostro modo di prenderci cura di quello che preoccupa i nostri figli potrebbe non essere quello che desiderano. Anche se è quello che magari noi, nella loro situazione, avremmo voluto con tutte le nostre forze. Confrontarsi con altri, cercare alternative e possibili soluzioni è sempre importantissimo e migliorare non solo è possibile ma è una bella sfida densa anche di possibili esperienze positive.

Cambiando, però, quel pensiero che, anche se non espresso con quelle parole, è sempre presente col suo fastidioso ronzio: non “che cosa stiamo sbagliando” ma “cosa possiamo fare di buono per te?”. Consapevoli anche che nemmeno i nostri figli spesso lo sanno perfettamente (anche se “potrebbero” saperlo meglio di noi, ma non è detto). E consapevoli che per accettare una mano tesa, una disponibilità, un sostegno potrebbe anche volerci del tempo, a volte sembra che i bambini e i ragazzi “non vogliano” il nostro sostegno. Possiamo anche farci un po’ da parte, rimanere per qualche tempo dietro le quinte, osservare da non troppo vicino.

Gli errori poi si fanno, certo, ma c’è una cosa sicura, ed è che a “esserci”, con tutto ciò che siamo e che sentiamo, non si sbaglia mai.

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Una cosa non capisco: questa nostra società che ci piace tanto poco è il risultato del modo in cui ci hanno cresciuti i nostri genitori, nonni e bisnonni e vari antenati ai quali possiamo risalire. Perché ci intestardiamo a credere che i buoni, vecchi valori tradizionali fossero meglio, che ci fosse più umanità, che i tempi irrimediabilmente peggiorino? Tralasciamo il fatto che i nostri ascendenti vicini e lontani hanno causato o partecipato a un bel numero di guerre, alcune delle quali di crudeltà inusitata; e tralasciamo anche le dittature che hanno funestato la vita di alcuni, ma nelle quali tanti altri hanno vissuto tranquilli come i famosi topi nel formaggio. A parte questo, dicevo, dobbiamo alla indiscussa autorità della cinghia un bel numero di danni, e altri danni li dobbiamo a quel principio per cui quello che fai bene è tuo dovere, ti punisco per quello che fai male, per cui non aspettarti lodi, mai.

Ci mancano dei punti fermi, questo è vero, e quindi non li sappiamo trasmettere. Ci pensavo in questi giorni perché non riesco a trasmettere ai miei figli (l’Orso Grande in particolare, perché la Bertuccia Piccola queste cose le ha dentro, per fortuna sua) l’impegno, il tempo da dedicare alle cose, la voglia di fare, ma prima di tutto questo l’entusiasmo, da cui nasce tutto il resto. E viceversa, veramente, perché è un circolo virtuoso, se una cosa ti piace le dedichi tempo e impegno, e quel tempo, quell’impegno, trasformano il piacere in passione, in entusiasmo. L’atarassia io non la concepisco, forse già l’ho detto, senza passione non potrei ma soprattutto non vorrei vivere. In pratica, so che il modo in cui si educava ai beati tempi era tutt’altro che perfetto, e non ho ancora trovato una valida alternativa.

Penso che sia questa una possibile causa comune del nostro malessere, in realtà. Siamo consapevoli che “questa è casa mia e qui comando io”, “ti ho fatto e ti disfo” e i vari “sguardi che non ammettono repliche”, prima ancora di essere non più proponibili, erano sbagliati in partenza. Li abbiamo contestati, discussi, sezionati e rigettati, e adesso ci tocca trovare qualcosa di meglio. Che è una bella fatica. Qui torniamo al punto di partenza: senza fatica, senza impegno, senza tempo dedicato, è possibile arrivare a qualcosa di buono?

Queste parole scrivevo ieri mattina, dopo una discussione di quelle toste (diciamo pure quasi un litigio) col figlio grande, con tanto di parole dure, da parte di uno e dell’altro. Ho pensato che quando sgridiamo un ragazzo adolescente o anche oltre (sui diciotto anni, poco più poco meno), lui/lei tende a mettersi sulle difensive e diventare aggressivo(a). Noi diamo la colpa all’età, alla fase particolare, gli ormoni, la crescita, e sarà tutto vero. Però mi sono resa conto che criticare è spesso più facile che trovare cose positive da dire, anche quando si è convinti che sottolineare il buono sia meglio che evidenziare ciò che non va. A me, almeno, succede. E ho riflettuto che non di rado siamo noi i primi a essere in certa misura aggressivi. E anche che spesso la nostra rabbia di adulti nasconde sia un dolore, sia un senso di inadeguatezza, e per questo non “funziona”. Perché forse, pensavo, gridiamo quando non riusciamo a farci ascoltare, quando, di fatto, ci sentiamo deboli.

Dopo quella “lite” qualcosa di positivo è scattato. In entrambi. E’ come se un piccolo pezzo di muro si fosse sgretolato. Mi sono un po’ lasciata andare, ho spiegato proprio questa mia difficoltà. Quando gli dico che buttano via la vita stando attaccati alla tv tutto il pomeriggio (sì, alla fine quasi sempre quello è l’oggetto del contendere), ho detto, non intendo che la buttano via in assoluto. Ma la vita è bellissima, qualche volta faticosa, dolorosa, difficile, ci sono cose che facciamo perché dobbiamo farle e non perché vogliamo, tutto vero. Ma  resta bellissima, se facciamo in modo che lo sia. E ho parlato, anche con loro, ma molto brevemente, due o tre frasi appena, di quelle mie idee che ho su entusiasmo, passione, fare cose con le proprie risorse.

Mentre lo dicevo a loro, ho sentito che ci credevo profondamente. E loro mi hanno ascoltato, e ho visto la loro espressione cambiare, aprirsi, e dopo Orsogrande ha cominciato a raccontarmi piccole cose, a interessarsi a quello che faccio. Granellini, ma ci sono. E in fondo, va detto anche, la lite era stata una lite tra genitori e figli, senza ulteriori qualificazioni, e anche questo è importante. Perché a volte ci si blocca al pensiero che loro sono adottati, hanno sofferto, che certe cose potrebbero prenderle male, che se gli dici… poi pensano… E invece la cosa bella è essere se stessi nelle risate, nelle arrabbiature, nella tristezza e nell’amore e loro lo sanno. E mi sono resa conto che anche quando mi sento un po’ goffa e penso che vorrei cambiare, poi in realtà dentro di me so che mi voglio bene, anche perché i miei principi sono realmente miei, e penso che sia vero per entrambi, come genitori, e che è quello l’importante. Anche se a volte non è facile comunicarli, ce li abbiamo dentro l’anima, e quindi non serve il “perché lo dico io”, ma serve il “perché è questo che migliora la tua vita e quella degli altri”. La strada è tutta da costruire, tra contestazioni, porticine che si aprono e si richiudono e poi si riaprono di nuovo. Si continua a cercare, che poi è l’essenza della vita, dopotutto, no?

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Ieri sera, devo dirlo, ho un po’ sclerato. Sì, lo so, capita più o meno a tutti e quando ci si confronta su queste cose ci si sente meno soli perché presto o tardi il nostro lato più da strega o da orco emerge, specialmente con gli adolescenti.

Quando ti prepari per l’adozione ti fanno moltissimi discorsi sulla responsabilità, sul fatto che questi ragazzi, specie se arrivati già abbastanza grandi (come ormai è la regola) hanno storie dietro le spalle di cui bisogna sempre tenere conto, perché poi ti metteranno alla prova e tu, a quella prova, dovrai reggere.

Poi, qualche tempo fa, hanno detto che forse hanno talmente sottolineato questo aspetto da farci sentire “fin troppo” responsabili. Responsabili di tutto, sempre. Con quell’idea che bisogna arrivare a tutto, mentre a tutto non si arriva, mai.

E insomma, comunque ieri sera il mio lato isterico si è preso tutto lo spazio che di solito non gli lascio perché? Perché non mi sentivo abbastanza considerata. Dopo ovviamente stavo (molto) peggio di prima e direi che la mia considerazione non era messa meglio di me. Il fatto è che ancora cerco un po’ troppe conferme. Ho detto qualche tempo fa che non sono nata per essere autorevole e forse non devo sforzarmi esageratamente per esserlo. Forse è così, in effetti, ma la convinzione che quello che diciamo ha un valore, quella non deve essere messa in discussione. Per timore dei conflitti, io a volte non mi faccio valere e questo non vale solo in famiglia ovviamente.

Dopo ho trovato un modo credo un po’ migliore, ho parlato con la Bertuccia e lui si è tranquillizzato, ha capito che non stavo affermando una mia presunta superiorità morale, ma che i genitori devono fare i genitori, e i figli devono fare i figli, che l’organizzazione della casa (orari del sonno, nella fattispecie) è compito dei genitori, pur senza negare dialogo e flessibilità, perché i genitori sono più grandi e hanno imparato cose che i ragazzi stanno imparando, altrimenti sarebbero i figli ad andare al lavoro e mantenere i genitori (per esempio) e non il contrario. Lui è molto saggio e maturo per la sua età in alcune cose, però a volte ha la capacità di tirare fuori il peggio di me.

Morale? Questo sarà l’anno in cui perfezionare, da parte mia, tre o quattro cose: autostima (dici niente!), ascolto, determinazione (io devo essere profondamente convinta delle cose che dico, mica le ho tirate fuori un minuto fa dal cappello, ci sono delle ragioni dietro); e fiducia (in sé e negli altri, e in particolare: fare in modo che i figli facciano quello che gli chiediamo per fiducia in noi e non perché imposte, e che però sappiano che comunque le regole della casa, poche ma buone, si rispettano.

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Ieri c’è stata, come direbbe Montalbano, una bella sciarratina, una lite coi fiocchi, tema: la fiducia. Argh. Noi (papà e mamma) convinti nella maniera più assoluta che il nostro Bertucciapiccola avesse combinato una marachella e lui, che aveva avuto una giornataccia, ha reagito male. Prima i conti con un razzismo neanche troppo velato che ogni tanto salta fuori nei momenti meno opportuni (non che ci siano momenti opportuni); e poi questa “accusa” che lo ha spinto a una reazione per noi “eccessiva”, ma frutto evidentemente di un sovraccarico di emozioni. E qui entrano in gioco un sacco di cose, almeno due particolarmente importanti: la prima, appunto, è la fiducia, che è un tasto delicatissimo, per me fondamentale e di una complessità di cui ci si rende conto quando ci si deve avere a che fare in concreto. Perché gli adolescenti combinano cose di cui poi si vergognano, hanno segreti che non vogliono raccontare, dicono piccole bugie per le ragioni più impensate e a volte senza ragione, o almeno così sembra, e poi però stanno malissimo se sentono il venir meno di quella fiducia. La fiducia, dico io, bisogna conquistarsela e però in certi casi, quando è stata tradita, bisogna anche che qualcuno ti aiuti a costruirla perché solo così, poi, puoi imparare a non tradirla a tua volta. E quando si tratta di credere o non credere, verità o non verità, si cammina sempre un po’ sulle uova.

La seconda cosa che a me personalmente mette in difficoltà è la gestione delle crisi, che ci stanno tutte, e ne parliamo per fortuna, però c’è sempre il momento che ti trovi lì e le cose vanno in crescendo, si crea una spirale di tensione che non sempre si riesce a interrompere al momento giusto. E forse è in quello che consiste l’autorevolezza. Non l’urlo, non il pretendere un rispetto formale dovuto al ruolo, ma la capacità di contenere, smorzare, tranquillizzare, stemperare le situazioni. Senza giustificare, ma aspettando di essere più calmi tutti per parlarne con altri toni. Tante volte, sdrammatizzare rende più credibili e non il contrario, almeno, questo vedo che succede nei rapporti con la Bertuccia. Non è facile perché intervengono fattori come il nostro stesso nervosismo magari dovuto alle nostre, di giornatacce, la stanchezza, a volte però anche l’orgoglio, un bisogno di essere “riconosciuti” e ubbiditi che raramente ha effetti positivi (forse mai). Leggerezza, parola magica, apparentemente facile, in realtà non tanto. Ma ha tanti di quegli effetti positivi, che vale la pena comunque continuare testardamente a cercare di applicarla…

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Oggi prendo spunto da una conversazione avuta con i miei due ragazzi riguardo al loro Paese. L’occasione era stata abbastanza curiosa, il maggiore ha notato che una persona che conosce aveva un oggetto con un riferimento alla scuola che aveva frequentato laggiù. La cosa è insolita, dato che non si tratta di università note o simili istituzioni che possono trovarsi anche citate nei souvenir. Comunque, insomma, da lì è venuto il discorso sul passato, il fatto che il “piccolo” frequentava ancora l’asilo ai tempi e aveva orari diversi, un abbigliamento diverso, ecc., le vacanze, i festeggiamenti per l’ultimo giorno di scuola, l’usanza di andare a scuola anche in estate, e così via.

Non è la prima volta, naturalmente, che si parla del passato, visto che sono qui ormai da circa sei anni e mezzo (a volte mi sembra ieri, altre volte mi sembra che siano stati sempre qui). Ma l’argomento “Paese d’origine” è sempre delicato. In generale si consiglia di parlarne nel nodo più spontaneo possibile, senza pressioni, idealmente, anzi, aspettando che siano i figli a prendere l’iniziativa.

Talvolta però succede che i bambini (o i ragazzi) si chiudano molto sul tema e sembrino addirittura avere un atteggiamento di rifiuto. Che ci può anche stare, per qualche tempo. Il rischio, però, è che i genitori reagiscano, senza volere, mettendosi in certa misura “sulle difensive” ogni volta che si accenna al “prima”; e che i figli percepiscano qualche tensione e per questo motivo siano in seguito restii ad affrontare il discorso. Così come può accadere che si abbiano, consapevolmente o meno, certe idee di partenza che non è sempre facile scalzare. Non ultima, quella che i bimbi fossero sempre necessariamente infelici prima di incontrarci e abbiano vissuto un lungo ininterrotto periodo di tristezza e sofferenza. Il che, per fortuna, non è, e accettare la loro storia significa anche accettare che abbiano avuto amici, affetti, momenti di allegria, se non di vera e propria felicità. Accanto, certo, a tanta rabbia e tanta solitudine (e magari tanta sporcizia…). Ma non aiuta né noi né loro pensare che quei primi anni siano stati “solo” quello.

Forse può esserci di conforto pensare che può essere proprio grazie a quei momenti che i nostri figli non hanno disimparato né l’affetto, né la felicità. A volte un profumo, un frutto che si trova solo in una certa terra, un oggetto, una canzone o un cartone animato pescato su Internet nella lingua di origine può risvegliare in loro la parte buona dei ricordi. E sono questi, probabilmente a permettere loro di far pace anche con quelli meno buoni. C’è tutto un pezzo di vita fatto di molte cose; la scelta migliore non sarà certo strapparlo via da sé fingendo che non sia mai esistito. Questo significa anche sentirsi a un tempo parte di due terre, anche di due culture, per quanto una la si sia vissuta meno (ma i bambini arrivano sempre più grandi e la parte vissuta altrove non è quasi mai insignificante). Significa anche, quindi, potersi sentire in qualche misura divisi, lacerati persino, comunque in difficoltà. Ma è importante per noi custodire tutti i frammenti perché possano essere poi uniti a formare un tutto integrato e complesso.

Depositare parte della propria memoria nelle mani dei genitori, del resto, è un grandissimo segno di fiducia. Vuol dire “sono qui, adesso, e posso esserci con tutto me stesso, i miei ricordi, quello che sono stato, quello che sono ora”. Quindi, in queste come in altre situazioni, più che parlare noi, l’essenziale è accogliere quello che i bambini hanno da dire. Ma qualche volta, cogliere una palla al balzo può non essere una cattiva idea 🙂

UN LEONE A COLAZIONE -Storie intorno all’adozione – Ai miei figli

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Forse a queste poesie le avevo postate, ma non ne sono certa, la ricerca non me le mostra e nel caso evidentemente è passato un bel po’ di tempo, per cui… avevo pensato a un articolo sull’autostima, ma stasera sono in mood da poesia 🙂

La prima è per il maggiore, il più taciturno, che si difende da un cuore che al fondo è forse fin troppo tenero. La seconda per il più piccolo, che ormai piccolo non è più, ma resta un gran sognatore. Ancora forse non sa dove i suoi sogni stanno andando, ma sono sicura che sia giò pronto a corrergli dietro. Uno sorride più spesso, l’altro meno, ma quando sorridono, tutti e due rendono il mondo un po’ più luminoso 🙂

L’ansia che ti divora pezzi di parole
ti rantola in gola d’amore non creduto
ma restituiremo quella strada tradita
ai tuoi piedi e alle tue ali di ragazzo
perché ogni ferita è una finestra aperta
e noi ci balleremo, vedrai, su quella strada
la stessa su cui portavi al guinzaglio un abbandono
e un impeto di tenerezza dissacrata
noia a difendere un cuore sotto assedio
perché anche le cose possono tradire
e tutti i cancelli ti si son sempre chiusi dietro.
Ma li apriremo, perdio
con una chiave di vento e di aquiloni
lenzuola colorate stese al sole
e un piccolo paese da costruire così, per gioco
per riportare i giorni persi alle tue mani inquiete.
So che avrai la faccia di chi ha preso il treno alla rovescia
non scelgono forse gli uccelli di migrare?
Non per questo è più dolce il sale dell’oceano
il nido è quotidiano intreccio di spine e foglie
ma è la luce mediterranea di un abbraccio
a illuminarti il volo verso casa.

/

Dicono che sorridi, cucciolo d’uomo
del sorriso forte dei bambini, credo,
quando giocano a essere già grandi
o forse di un sorriso allegro e dolce
che non dimentica quel che non sa di ricordare.
Scricciolo mio, tartarughina,
certo avrai occhi neri di cui non so lo sguardo
spalancati di domande che non possiamo immaginare
e piccole dita a stringere le nostre mani grandi
un orsacchiotto, forse, e un pallone a spicchi bianchi e neri
e un amico segreto a cui racconti
i tuoi sogni di vele, di mari e di pirati
a quale vento affidi tutte le cose che vuoi far viaggiare?
con quali colori pitturi cielo e terra?
Tieni stretti i tuoi sogni, abbine cura
quando saprai dove vanno, allora apri le mani
e corrigli dietro!

UN LEONE A COLAZIONE 24. – Storie intorno all’adozione. 24

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Oggi ho letto un po’ di testi che parlano di adozione. Adozione e scuola, adozione e multiculturalità, adozione e apprendimento, tutte cose di cui abbiamo parlato e credo parleremo ancora. Poi, in un articolo che parlava di adozione e identità, del diritto degli adulti adottati di cercare i propri genitori, dei limiti di questo diritto, delle tante emozioni coinvolte, ho trovato questo testo di Michel Quoist, sacerdote e scrittore francese, che mi è sembrato molto bello e ho pensato che forse per questa sera era proprio quello che cercavo.

Ascoltami ancora, si dice infatti che dalla bocca dei bambini viene la verità ; se sono un bambino sfuggito dal carnaio notturno , trattenuto da un filo d’ amore lanciato da chissà dove. Se sono un bambino caduto dal nido,abbandonato da padre e madre, rapiti o mortalmente feriti alle sbarre della loro gabbia. Se sono un bambino nudo, senza panni d’amore o con panni imprestati, ma col diritto di vivere, perchè sono vivo. E se nello stesso istante persone innamorate piangono davanti a una culla vuota, consumati nel desiderio di accarezzare un bambino. Se sono ricchi di amore che ritengono sprecato, e vogliono gratuitamente donarlo, perchè cresca e fiorisca ciò che non hanno piantato. Allora voglio che vengano silenziosamente a chiedermi se desidero adottarli come miei genitori. Ma non voglio dei fanatici del bambino, come collezionisti d’arte che cercano il pezzo raro che manca alla loro vetrina. Non voglio clienti che hanno fatto l’ordinazione e, pagata la fattura reclamano il loro bebè prefabbricato. Perchè non sono fatto per salvare genitori dalle membra amputate, ma loro sono stati fatti, misterioso percorso, magnifico progetto, per salvare dei bambini dal cuore malato, forse anche condannato. E sarà come addormentarci l’un l’altro. Io berrò il latte di cui ignoravo il sapore, ascolterò musiche sconosciute, imparerò nuove canzoni, sulle vostre dita, sulle vostre labbra genitori adottati, decifrerò lentamente l’alfabeto della tenerezza. E l’amore sconosciuto per me prenderà il volo alla luce dei vostri occhi. Voi innesterete le vostre vite sulla mia crescita e grazie a voi io rinascerò una seconda volta. Cosi sarò ricco di quattro genitori, due lo saranno della mia carne e due del mio cuore e della mia carne cresciuta. Voi non giudicherete i miei genitori sconosciuti, li ringrazierete e mi aiuterete a rispettarli . Perchè dovrò riuscire lo so,ad amarli nell’ombra, se un giorno vorrò poterli amare nella luce. E se in una sera di tempesta, adolescente focoso, impacciato di me stesso, io vi rimprovererò di avermi accolto, non vi addolorate, ma amatemi ancor di più : lo sapete, perchè un innesto prenda ci vuole una ferita e, chiusa la ferita, rimane la cicatrice. Ma io sogno. Io sogno perchè non sono che un bambino in viaggio, lontano dalla terra ferma, la mia parola è muta e li canto senza musica. Ciò che vi dico piano non potrò urlarlo, se non il giorno in cui, avendomi voi adottato, mi avreste messo in cuore tanto amore e autentica libertà, sulle mie labbra parole sufficienti, perchè possa dire : papà, mamma, io vi scelgo e vi adotto allora saprete che il vostro amore è dono, e che è riuscito”.

(Michel Quoist – dal testo “Parlami d’amore”)

UN LEONE A COLAZIONE 23. Dialoghi

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Qualche giorno fa, in seguito a una visita per certi aspetti “difficile” (anche se fatta per supporto, e da parte di due persone eccezionali da tanti punti di vista), abbiamo avuto, col mio “piccolo”, uno dei nostri non rari dialoghi intensi, che si è svolto più o meno così:

Figlio: Pensavo che sarebbe stato più difficile, pensavo di non riuscire a guardarle negli occhi.

Mamma: Qualche volta è proprio così, ci si fa prendere dall’ansia, poi ti accorgi che le cose non sono così difficili come pensavi

Figlio: E tu di che cosa hai paura?

Mamma (qui non ci sono cavoli, bisogna rispondere sinceramente): Di perdere le persone che amo

Figlio: Beh, quello tutti (e che ti credevi?)

Mamma (tentando di riprendere terreno e con la mezza idea di essere andata anche un po’ troppo in là con le cose serie): anche di piccole cose, dici? Ho paura dei calabroni, dei fulmini.

Figlio: Ma mi prendi in giro? (ossia: sto parlando di VERE paure io, mica quella roba lì)

Mamma (annaspando): Boh, ho paura delle decisioni importanti, quelle in cui devi prenderti grandi responsabilità. (cioè no scusate ma io sto parlando con un ragazzino di tredici anni. Il quale mi guarda con aria comprensiva e annuisce. Pochi giorni più tardi, in una scena di Karate Kid in cui si parla di passato e del fatto che è impossibile cambiarlo, e sulla fatica che ci vuole a volte per rialzarci quando la vita ci butta giù, guarda fisso il personaggio fisso e commenta: come ti capisco…)

Questi dialoghi sono una delle cose più belle e spossanti della vita familiare. Non sai mai bene cosa è giusto dire e come. Ma dopotutto, sono sempre stata convinta, tra le poche quasi certezze che ho, che l’importante, in questi casi, sia comunque che il dialogo ci sia. Più importante persino che fare attenzione a quello che si dice 🙂

UN LEONE A COLAZIONE 21. – Storie intorno all’adozione

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Dopo tanto meditare e rimuginare e domandarmi se, e come, e cosa, sono arrivata a una (possibile e temporanea) conclusione, ossia che non possiamo chiedere a noi stessi di essere quello che non siamo e che, soprattutto, non vogliamo essere. Che si può cambiare su alcune cose, crescere, smussare angoli, cercare strade diverse, ma non andare contro qualcosa che è profondamente radicato nel centro di noi. Per esempio, se io credo nella leggerezza, posso cercare di avvicinarmici, sia pure a piccoli passi, non sempre riuscendoci, ma posso comunque pensare di de-zavorrarmi in qualche cosa, anche per somigliare di più al tipo di madre (di persona) che fa parte del mio ideale, non del tutto irraggiungibile. Al contrario, se non credo nell’autorità e quelle rare volte che impongo (a farcela, poi!) e punisco, le vivo con un malessere pesante, significa che qualcosa non va. Qualcosa di importante. Vuol dire che sto andando contro una parte di me a cui non posso rinunciare senza perdere pezzi di identità.

E’ vero, bisogna essere consapevoli che i limiti sono necessari, perché la libertà in cui si sbanda senza meta e senza argini e punti fermi non è vera libertà. Ma alla fine, anche gli argini e i punti fermi dobbiamo crearceli, faticosamente, ognuno per conto suo. Io posso dare l’idea che ti servono, che anche volare richiede il rispetto di alcune leggi essenziali, senza le quali si cade o si sbatte contro un muro. Posso anche cercare di insegnarle, come so. Posso mettere a disposizione la mia esperienza, lasciando che i figli (ed eventualmente altri) ne facciano l’uso che pensano migliore per loro. Ma il castigo, la punizione, l’imposizione stessa, è qualcosa che va contro la mia natura più intima. Questo non rende le cose più facili, tutt’altro. Bisogna pure che in qualche modo passi il messaggio che libertà non è fare tutto quello che si vuole, che esistono la responsabilità e l’impegno, che non sono brutte parole, ma strumenti probabilmente insostituibili per ottenere qualcosa di importante per la propria persona, per la propria vita. Bisogna pure che si capisca che il rispetto di sé e degli altri è – per usare un altro termine che sopporto poco, ma forse in questo caso ci vuole – un valore non negoziabile. Bisogna che si impari a sentirsi dire dei no, per imparare poi a dire dei no, quando sono necessari e “giusti”. Bisogna comprendere che ci sono regole che vanno rispettate sempre, limiti che non si possono violare senza mettere in discussione l’intero castello della propria personalità e del proprio esserci, con sé e con gli altri. E ci sono regole invece, che per lo stesso motivo non si possono osservare, perché si andrebbe contro di sé e contro la miglior parte della propria umanità.

Tutto questo lo si può trasmettere con le punizioni, con le imposizioni? Forse ci sono persone così profondamente carismatiche, nel senso migliore del termine, da essere in grado di far sentire, insieme alla propria autorità, una coerenza, una qualità empatica e una capacità davvero di trasmettere quello in cui profondamente credono, da poter essere  sia temuti che amati, sia autoritari che rispettosi, sia fonti indiscusse di regole ferree che educatori  capaci di insegnare la libertà. Nella mia esperienza queste cose non sono mai andate insieme, in nessuno degli adulti che ho conosciuto durante tutta la vita. O erano l’uno, o erano l’altro. E quelli che mi hanno cambiato la vita in maniera profonda e positiva, non sono mai stati quelli autoritari.

Io stessa penso di non avere tutte queste doti insieme. E forse è arrivato il momento che faccia la mia scelta in modo più consapevole e definitivo, senza troppo tentennare o chiedermi se starò sbagliando. Forse sì, ma è giusto anche dirsi che quello che si è fatto e si fa, è frutto di una decisione che per come siamo noi, in questo momento, non avrebbe potuto – né dovuto – essere diversa.

UN LEONE A COLAZIONE 19. – Storie intorno all’adozione

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La gratitudine, o meglio, la pretesa della gratitudine, è sempre in agguato nei rapporti tra genitori e figli, ma quando si parla di adozione di più. Quando eravamo in Brasile la gente ci fermava e parlava con i nostri figli dicendo loro quanto dovevano essere contenti, quanto erano fortunati. Ma non è così facile sentirsi fortunati quando quello che hai vissuto nel tuo cuore è uno strappo, un’incomprensibile ingiustizia. Tutti gli altri, o quasi, vivono tranquilli con la loro “mamma di pancia” e la famiglia di origine (sì, sì, lo sappiamo che non sono sempre così tranquilli, ma quello che sappiamo è una cosa, le nostre sensazioni istintive sono un’altra). E tu invece… vuoi essere felice, vuoi dare tutto il tuo amore alla tua famiglia di adozione, al tuo Paese di adozione, alla tua lingua di adozione. Ma non ti senti fortunato. E’ vero, è una fortuna avere una famiglia che ti ama, comunque. Ma in fondo non dovrebbe esserci niente di strano in questo. Nessuno sceglie i propri genitori, ma i genitori scelgono di avere dei figli e di amarli. E’ bello essere grati alla vita per tutto ciò che ti dà ma più di tutto è bello essere grati a se stessi per ogni sogno che si insegue, anche quando non si riesce a realizzarlo. Che poi non lo si è realizzato oggi, ma domani, forse. E’ bello imparare a “vedere” le mani tese, l’amore che si riceve, la bellezza che c’è intorno. Vederli per riconoscerli in se stessi. Credo. La lettera che segue (e anche la foto) è tratta dal blog di una mamma adottiva, il blog si chiama  Wonderment, etc., è in inglese, è aggiornato abbastanza raramente ma secondo me è molto bello e vale la pena anche andarsi a guardare gli articoli passati.

i don’t want you to be grateful

I wish so many things for you – the children who have my heart for all of time:
I hope that you will know how to love and be loved.
I hope that you will be happy.
I hope that you will live the life you want to have and not the life anyone, including me, dreams for you.
I hope you will be kind.
I hope you will be brave.
I hope you can view the world as it truly is and still find the strength to believe you can make it better.
And along with all those things I hope with everything in me that you take my love for granted.
People are going to tell you you’re lucky. They already have. They look at you and look at me and know I’m your adoptive mother. And they tell you you’re lucky. Don’t listen to them.
You never have to feel grateful for your adoption. We don’t have to have special gratitude for something that is inherently ours. And my love? That’s yours. It was yours before we met. It will be yours when time is gone. It was, and is, your right to have. My love for you is something I want to be so part of your being that it doesn’t cross your mind to even contemplate its existence. Take it for granted. Assume it will always be there. Because it will.
There were losses in your lives. I know them. I respect them. My love for you does not take away those losses. But those losses don’t mean you owe us some form of special gratitude. Don’t ever believe someone who tells you they do.
I don’t need you to be grateful, I want you to know, to assume, to not even think that there was another option except me loving you. Because there wasn’t. This love? It was here waiting for you all along.

/

Desidero tante cose per voi – I miei figli, che avete il mio cuore in ogni momento.
Spero che saprete come amare ed essere amati.
Spero che sarete felici.
Spero che vivrete la vita che volete e non quella che gli altri, me compresa, sognano per voi.
Spero che sarete gentili.
Spero che sarete coraggiosi.
Spero che sappiate vedere il mondo come è davvero e trovare comunque la forza di credere che potete renderlo migliore.
E oltre a tutto ciò, spero con tutta me stessa che prendiate il mio amore per scontato.
Vi diranno che siete fortunati. Ve lo hanno già detto. Vi guardano e guardano me e capiscono che sono la vostra madre adottiva. E vi dicono che siete fortunati. Non ascoltateli. Non ci sarà mai alcun bisogno che siate grati per la vostra adozione. Non dobbiamo alcuna speciale gratitudine per qualcosa che era già nostro per sua stessa natura. E il mio amore? Quello è vostro. Era vostro prima che ci incontrassimo. Sarà vostro quando il tempo sarà finito. E’ vostro diritto averlo. Il mio amore per voi è qualcosa che vorrei fosse talmente parte del vostro stesso essere, che non vi passi neanche per la testa di riflettere sulla sua esistenza. Prendetelo per scontato. Partite dal presupposto che ci sarà sempre. Perché è così.
Ci sono state perdite nella vostra vita. Le conosco. Le rispetto. Il mio amore per voi non cancella quelle perdite. Ma quelle perdite non implicano che voi ci dobbiate qualche particolare forma di gratitudine. Non credete a chi vi dice questo.
Io non ho bisogno che voi siate grati, voglio che sappiate, che siate certi, che non abbiate neanche il minimo dubbio che ci fosse per me altra possibilità che amarvi, perché non c’era. Questo amore? E’ stato là per tutto il tempo in attesa di voi.
Non avete fatto altro che chiedere quello che era già vostro.

take it for granted

Ci sono poi altre cose che io penso non si debbano prendere per scontate. Quando i ragazzi crescono, il rispetto per il lavoro dei genitori, in casa e fuori, è difficilissimo da ottenere. Ma appunto, parliamo di rispetto e non di gratitudine. Rispettare gli altri e il loro lavoro per essere poi capaci di pretendere rispetto per se stessi e per ciò che si fa. E questo, ovviamente, vale per tutti. Anche se, qualche volta, i figli si confondono, e anche noi.