Le cose che volano,
come la polvere che siamo
portano messaggi al cielo in altre lingue,
un canto d’ali che freme
tra le scapole e il cuore.
Penso a te, padre mio:
raccontami come stai,
come si vive camminando su una fune
trasportando paglia per il nido
da uno spazio a un altro.
E penso a tutti i padri che mi sono costruita,
che ho immaginato e scritto;
i padri d’albero e di lingua,
di casa e di viaggio e di mani e piedi
di penna e di spada, di tenebra e colore.
I padri dei miei libri, della mia voglia inaffermata,
delle cose inanimate che prendono vita
nella mia testa scarruffata
e di quelle che muoiono piano, sottovoce,
perdute senza far rumore e senza drammi.
Padri miei di cielo e terra, oggi
vi amo tutti ad uno ad uno
nella mia lingua, l’unica che so.
Vi sono debitrice di queste pagine di fuoco,
dell’ombra del gatto tra le tende,
degli sbagli scintillanti che ho adoperato ad ogni bivio
perché di andare dritti non è il caso
e per diverse che siano le mie e le vostre ali
tutto quello che vola si somiglia
della mia lingua d’albero voi siete i rami
della mia casa siete le mani e la penna
e siete la voglia dei miei libri, la spada
di tutto quello che non fa rumore,
la terra dove si ritrovano
tutte le cose perdute.
Sto pensando al mio amato Oscar Wilde, all’apparente superficialità che nasconde una visione profonda, al senso morale contrapposto al moralismo, all’eccesso e all’eccentrico che diventano chiave di lettura di una realtà sfuggente, mostrando l’ovvio che altrimenti rischiamo di non vedere più.
In questo momento sento di nuovo fortemente, dopo momenti di sconforto, la pienezza della vita, che si colma di amore per la conoscenza, per l’arte (in senso lato), per la bellezza, e da qui trae linfa per amare gli abitanti del mio piccolo mondo e nei limiti di quanto ci è concesso, quelli del mondo più grande. So che in questi giorni tutti dispensano consigli “sentendosi come Gesù nel tempio”, con quel che segue. Io vorrei solo dire, e temo che anche questo sia banale, ma per me è importante: non lasciamoci spegnere; perché è quando siamo spenti che sentiamo più forte il bisogno di colpevolizzare qualcuno o di lasciarci colpevolizzare. Che è molto diverso dal prenderci le nostre responsabilità – e costringere gli altri a prendersi le proprie. Non lasciamoci fuorviare dai capri espiatori, non lasciamo spegnere il nostro cuore, il nostro pensiero, la nostra capacità di capire, di metterci nei panni, di continuare ininterrottamente a farci domande, di non prendere niente per scontato.
L’emergenza finirà, e sarà per il dopo che ci servirà unirci, resistere, ricostruire insieme. Insieme non perché siamo tutti uguali, ma perché siamo tutti diversi, e ognuno ha le sue fragilità e debolezze e i suoi punti di forza, il suo pezzettino di talento, di ragione, di oscurità e di luce, di paura e di coraggio, la sua storia e la sua strada. Da soli siamo troppo poco; insieme siamo moltissimo. Non tutto, mai tutto, ma moltissimo.
GEOGRAFIA DOMESTICA
La coltre tiepida nasconde la ferita, cicatrizza lo sguardo ammutolito, vagante da una parete all’altra. Io ci parlo, vedi, con i muri, i quadri appesi, lo specchio che riflette sulla forma e sul senso delle cose, sulla loro posizione nella stanza. Parlo con le finestre, con la loro visione del cielo e delle finestre di fronte; col loro angolo di ringhiera, il vaso che guardano di sbieco, da quella inquadratura in soggettiva che mostra al mondo il campo visivo di una finestra. Parlo con la lampada, dopotutto mi somiglia, dà il suo meglio quando fuori è buio, come i rapaci notturni, come gli occhi dei gatti o le increspature dei fiumi alla luce della luna. Parlo con i libri, quello, sai, l’ho sempre fatto, prima che tu m’insegnassi che i libri risplendono e rispondono, con una voce che somiglia, sì, a quella di chi legge, ma non è la stessa, e va ascoltata attentamente, più volte e in solitudine, fino a rinascere daccapo. Parlo con il letto, e mi sorride, con le giunchiglie sul lenzuolo, in questa primavera prigioniera; parlo con l’armadio semiaperto, bocca socchiusa, uno sguardo indulgente sulla penombra dei vestiti. Parlo con me stessa, più di tutto: col rincorrersi di pensieri amari e altri più dolci, con le parole dei fogli che s’accatastano in un disordine testardo; con la penna, ch’è una spada, e con te, la mia lingua ribelle: perché se non la vita, l’anima, almeno, bisogna pur salvarsela, in qualche modo.
Torna a scorrermi dentro il sangue della scrittura. Mi sanguina la voce, il cuore, mi sanguinano i pensieri, le parole. Mi sanguina la parte di anima in cui ti tengo, e finché sanguina quella, all is well, thank you, vuol dire che sono viva, accoccolata sulla tua stella. Le stelle sono fiocchi di cristalli fragili e preziosi e quando si sfiorano forse è pericoloso, ma fanno un suono incredibilmente bello.
La casa è un pezzo di me e io forse sono un pezzo di casa per qualcuno. La casa resta punto di partenza e, volendo, di ritorno, non altro. Non sono mai stata patriottica, di certo non lo diventerò adesso. Siamo i fragili, imperfetti, incazzosi, spaventati, precari abitanti di una minuscola pallina che sta da qualche parte nell’universo o negli universi esistenti (su o giù, è difficile a dirsi, nell’iperspazio… [cit.]), e il nostro viaggio è come l’itinerario segreto delle farfalle, ma anche come le impronte pazienti e grevi di un elefante su una stella di cristallo leggero.
Alla mia gatta sono rimaste solo le scatolette di cibo che odia e dovrà adattarsi, come tutti noi, per qualche giorno. Senza la mia gatta, comunque, le cose andrebbero peggio. I miei figli – il piccolo in particolare – hanno saputo inventarsi un loro equilibrio e reggono e quasi sostengono noi; ma se tutto questo fosse successo due o tre anni fa, quando potevamo uscire di casa per non uscire di testa…. no, meglio non pensarci.
Non dovrebbero esserci eroi, ma persone messe in condizione di fare il loro lavoro in sicurezza e con le risorse necessarie e forse se questo non succede è, sì, in parte responsabilità nostra, e dovremo ricordarcelo anche dopo, quando il tempo degli eroismi passerà. Penso che vorrei scrivere d’altro e non ci riesco.
Vorrei leggere e trovo libri bellissimi, ma ogni volta li inizio, li metto via, ne prendo altri senza finire quelli che avevo cominciato prima, e via così. Il nostro giardino è senza cure, In questo momento nessuno di noi ci si può neanche avvicinare. Dovrei fare un mucchio di cose, ma il tempo comunque continua a scorrere troppo in fretta e alcune, poi, mi sembrano avere così poco senso, in questo momento, anche se so che poi, una volta che la situazione sarà tornata alla normalità, rimpiangerò di non averle fatte, ma del resto al cervello non si comanda più di quanto si comandi al cuore. Pitturo pareti, faccio il pane, ma in fondo sono cose che avevo cominciato a fare anche prima, e meno male. Così non le identificherò con un tempo malinconico, ma resterà un pensiero (e un fare) felice.
Del resto io sono sempre in viaggio, anche ora. Credo che staserà andro su Ork. O in un qualche teatro di San Francisco (Ahi! la California! Ma a quello che vedo, Newsom è all’altezza del compito. Lo spero tanto, perché della California avrò, avremo, ancora bisogno) ad assistere a uno spettacolo del Genio del mio cuore, anche se li ho già visti tutti, ma repetita iuvant (e iuvant un sacco, in questo caso).
Ho in mente il vetro e il cristallo, immagino siano simboli di fragilità, e ho scritto questo:
RESPIRO
I respiri prendono forma,
accadono
passano
come le nuvole sui campi
come l’incrocio dei venti che traccia
l’itinerario segreto delle farfalle.
Io sono di vetro:
quando il mio respiro si offusca
ci scrivo sopra qualche suono,
qualche nome.
Quando il mio respiro tornerà limpido
resterà il tuo nome inciso
sul vetro della finestra,
la tua voce sul davanzale,
come minuscole zampette d’uccello
impresse per sempre nel cemento fresco
di una casa in costruzione.
E quindi io sarei quella che ha capito
che indossa un abito che non fa il monaco:
il destino poi mica lo vedi dal vestito,
semmai da quello sguardo strabico,
da quel magnifico paragrafo retorico…
Ho creduto davvero di poter vedere,
io che senza occhiali non so neanche camminare;
ho creduto di poter sapere,
io che senza i libri non saprei neanche parlare.
Dalle ginocchia il latte mi è sceso alle caviglie
ma per tanti ancora sono Alice
persa nel Paese delle Meraviglie;
c’è chi ancora adesso dice
che più che la testa nelle nuvole, semmai
le nuvole io le ho sempre avute nella testa,
ma io ricordo, sai:
la memoria serve anche se non basta.
La paura, quelle volte, attraversava i muri
le stelle imparavano un alfabeto di fortuna
ma non lo ha mai capito chi guardava da fuori,
convinto che io cercassi il pozzo nella luna:
hanno sempre creduto a chi mentiva meglio,
ma non fa mica meno male se ti sparano per sbaglio.
Io ululavo come i lupi, nascosta nella tana
lui mi strappava a pezzi anche solo con la voce,
mi chiamava stupida, per non dire puttana
l’ingiuria non detta è sempre quella più feroce,
gli occhi più delle mani ti spaccano la bocca
quando gli altri ti guardano pensando ‘non mi tocca’.
Non sono vittima
ma non dimentico
non mi vendico, non mi sacrifico,
è la pietà la mia rivincita,
la calma olimpica
del mio respiro ancora molto vivo:
e in fondo è solo questa la ragione per cui scrivo.
– Il mio silenzio selvaggio stava in bilico sul ciglio dell’abisso è tuo da quella sera che ho incominciato a crederti quando il mio silenzio l’hai sentito in mezzo ad altri scroscianti, striscianti, laceranti in quelle sere, anima nobile, hai vegliato quel poco di umano che restava e il muro piano piano forse ha iniziato a –
Ogni tanto ci provo, a uscire nel mondo, a gettarmi nella mischia, o più semplicemente a cercare di mettermi in gioco, di farmi sentire, di prendere posizione, di lasciare un segno. Forse il problema è che come le chiocciole, il mio guscio ce l’ho sempre dietro, e non potrei neanche liberarmene, senza morire. Forse l’unico segno che lascerò sarà quest’ombra leggera sulle labbra di uno che non sa che l’ho baciato.
il mio silenzio selvaggio stava in bilico sul ciglio dell’abisso è tuo da quella sera che ho incominciato a crederti quando il mio silenzio l’hai sentito in mezzo ad altri, scroscianti, striscianti, laceranti. In quelle sere, anima nobile, hai vegliato quel poco di umano che restava
Come l’amato poeta
mi vedrai vagare
per le strade del porto,
quando a sera il tempo del rientro
riversa tutti i fiumi – d’acqua e di persone
– in un’unica valle, una conca
al centro del nostro piccolo universo.
Gli usci chiusi delle case, vedi,
sono come il nostro mare,
limite ed invito, la soglia
da cui tutto ha inizio
ed ogni cosa pure ha fine.
Ora, ecco,
la sera s’è rabbuiata tutt’a un tratto
il mare, come un cane
uggiola deliziato nel silenzio.
È la notte delle navi
e anche noi, che non sappiamo dove
pure continuiamo a navigare.
Il poeta delle piccole cose, delle “trite parole”. Ieri ho ascoltato parole di e su D’Annunzio. E mi sono ricordata di quanto amo Saba.
Ulisse
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore
Il poeta
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!
L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse; ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!
Scrivo per te,
per raccontarti gli alberi,
le loro vaste braccia che
aprono e chiudono il cielo
per te che se ci fossi
ti terrei tra l’ombra e il vino
tra la ferita del fuoco
e l’altra parte del fiume.
Scrivo per te,
perché la tua vita
si agita nelle mie vene,
per te che se ci fossi
io sarei cambiata lo stesso
ma ci avrei pensato meglio,
perché su una riva o l’altra
tu ti muovi sempre con il vento
per restare saldo in volo,
e io volevo darti il tempo,
dall’inizio dei giorni
fino all’infinito e per un giorno ancora.
E invece.
Dicono che i poeti devono sporcarsi le mani, giusto? E dunque, sia: da poetessa (o poeta?!) e traduttrice a donna di fatica è un attimo. Ho carteggiato e stuccato una stanza, dato la pittura di fondo, svuotato cuffe di carbone per gli operai che ci mettono il “zetto” ossia le rovine della demolizione, sfoderato e prelavato a mano un divano, fatto la lavatrice, lavato i pavimenti (un sacco di volte!), spostato un materasso, iniziato a riordinare il garage, e nel frattempo lavoro anche (inteso nel senso di lavoro pagato…). E ancora non ho messo le mani nella terra… spero domani, il giardino aspetta, e forse la poesia si nasconde anche lì, tra un bruco e un’achillea.
Adesso però mi piazzo sul divano con un bel film, e non ci sono per nessuno!