Né l’inizio, né la fine

Questa è la versione italiana del racconto che ho scritto in inglese qui. L’ho immaginato, sognato, sentito in inglese. E poi tradotto. E questa è la canzone che potrebbe accompagnarlo.

Aveva vomitato già tre volte quella sera, e lo fece ancora e ancora, l’ultima volta sulle scale che conducevano all’appartamento di lei, mentre lo trascinava dentro, il corpo scosso dai crampi e dalla nausea, come sommerso da ondate di dolore, o da un oceano di disperazione.

Ho freddo, disse.

Lo so, rispose lei.

Un freddo tremendo, gemette lui. Sto gelando, cazzo.

Lo so, disse lei.

No che non lo sai. Come puoi saperlo? Non sai niente di me.

So parecchie cose, di te.

Era stato di volta in volta giudicato l’uomo più onesto del mondo o un bugiardo matricolato, intelligentissimo o stupido come una scimmia, un amante meravigliosamente appassionato o un pezzo di ghiaccio, timido come uno scoiattolo e triste come il mare d’inverno, o un uragano di parole e allegria. Ma alla fine, era sempre la questione di come gli altri lo vedevano. E lei diceva di sapere qualcosa di lui. Sapeva parecchie cose di lui, così aveva detto. Era la verità? Avrebbe dovuto fidarsi di lei? Di una cosa era certo, che non poteva fidarsi di sé stesso. Si sentì stranamente più forte, perché… sì, perché stava riconoscendo di aver bisogno di aiuto. Era stato in una guerra. Non una guerra in senso stretto, naturalmente. Niente a che fare con armi di distruzione di massa, niente morti o ferite evidenti, incendi e urla di angoscia e terrore. Una guerra più silenziosa, ma non per questo meno mortale. Com’era lui, in realtà? Era felice? Certo che no, altrimenti non si sarebbe trovato in quella stanza, in quel letto, in quel momento e quel luogo. Era tutto sbagliato. Comunque, non era nemmeno infelice. Non era questa la ragione. Com’era, in realtà? Era, e basta.

Sono un relitto umano, disse. Solo un cazzo di relitto. Pronunciò le parole lentamente, quasi assaporandole, in uno strano miscuglio di vittimismo, orgoglio, sferzante autoironia, onestà, rabbia e dolore. Voleva che se ne andasse, che restasse, o nessuna delle due cose? Forse entrambe. Stava forse mettendola alla prova, per vedere quanto era disposta a sopportare? All’inferno, tutto quello che voleva era essere lasciato in pace, e lo esasperava la consapevolezza che voleva altrettanto fortemente averla lì.

Vaffanculo, perché stai facendo tutto questo?

Forse ho la sindrome della crocerossina, disse lei, o una vocazione al martirio, o forse sono semplicemente sola, e pronta ad aggrapparmi al primo uomo che mi capita a tiro. Oppure… sta a te decidere, dopotutto. Puoi scegliere la risposta che ti piace di più.
Già, è quello che faccio sempre. Fanculo, è parte del problema anche questo.
Lei lo guardò dritto negli occhi.
Ti amo, disse. E lo dirò solo questa volta, che tu mi creda o no.
Ti credo, disse lui.
Lei ebbe un sorriso dolceamaro.
Domani non mi riconoscerai nemmeno.
Sì che ti riconoscerò, disse lui.

Ma non la riconobbe.

Dove diavolo sono? E a parte questo, tu chi sei?
E’ importante?
Certo che è importante, cazzo. Penso che dovrei almeno sapere il tuo nome, no?
Mi chiamo… mi chiamo Sandy.
Davvero? Non mi sembri tanto sicura. Io sono…
So chi sei. Conosco il tuo nome e l’anima che c’è dietro, disse lei.

Perché lei sapeva, e questo faceva tutta la differenza del mondo. Prima o poi arriva per ognuno un momento in cui si rende conto che non gli importa niente di niente. O almeno, quel momento era arrivato per lei, e non le importava, non le importava di nient’altro se non delle lacrime di lui, del suo sudore e della sua anima.
Non era stato questo, l’inizio della storia; comunque, non fu nemmeno la fine.

Neither the beginning, nor the end

He had already thrown up three times, that night, and did it again and again, the last time on the stairs that led to her apartment, while she was dragging him inside, his body shaking with cramps and nausea, as if washed over by waves of pain, or an ocean of despair.

I’m cold, he said.

I know, she said.

Awfully cold, he moaned. I’m fucking freezing.

I know, she said.

You don’t. How could you? You know nothing about me.

I know a lot about you.

He had been labelled the most honest man in the world and a ruthless liar, a brilliant man and a stupid monkey, a wonderful, passionate lover and ice-cold, shy as a squirrel and sad as a sunless sea, and a hurricane of words and joy. But it had always been a matter of what others saw him as. And she said she knew something about him. She knew a lot about him, she said. Or did she? Was he to trust her? What he knew for certain was that he couldn’t trust himself. He felt curiously stronger, because… yes, because he was acknowledging he needed help. He had been in a war. Not a proper war, of course. No weapons of mass destruction involved. No deaths, no apparent wounds, no fires or cries of anguish and fear. A quieter war, but none the less lethal for that. What was he, in truth? Was he happy? Certainly not, or he wouldn’t have been in that room, in that bed, in that moment and place. It was all wrong. Yet, he wasn’t unhappy either. This wasn’t the reason why. What was he? He just was, that’s all.

I’m a human wreck, he said. Just a bloody human wreck. He uttered the words slowly, seemed to savor them, a curious mix of self-pity, pride, self-deprecation, sincerity, anger and pain. Did he want her to go, or to stay, or neither? Maybe both. He wanted to be left alone, wanted it like hell, and it enraged him that he also wanted her so badly to stay. Was he testing her, to see how much she would be willing to take?

Fuck you, why are you doing this?

I may have a white knight syndrome, she said, or a vocation to martyrdom, or maybe I’m just lonely, and I latch on to the first man who comes along. Or maybe… well, that’s up to you. You can choose the answer that suits you best.

Yeah, I always do that. It’s part of the fucking problem.

She looked at him straight in the eyes.
I love you, she said. And I’ll say it only this once, believe it or not.
I do, he said.
She smiled. A sweetly bitter smile.
You won’t even recognize me tomorrow.
I will, he said.

He didn’t.

Where on hell am I? And who are you, anyway?
Does it matter?
Oh, yes, it fucking does. I wish I knew your name, at least.
I’m… I’m Sandy.
Are you? You don’t seem so sure. Well, my name…
I know your name. I know your name, and the soul that goes with it, she said.

Because she knew, and this made all the difference in the world. There comes a time in everyone’s life, when they realize they don’t care. Or, however, there had come that moment in her life, when she didn’t care, she didn’t care about anything, except for his tears, his sweat and his soul.

This wasn’t the beginning of the story. It wasn’t the end, either.

 

INCIPIT di tre racconti premiati al Casentino

Questi sono gli incipit di tre miei racconti che – ho saputo due o tre giorni fa – hanno ricevuto il Premio Speciale della Giuria al Premio Casentino. Premiazione il 22 giugno a Poppi (AR), nella bella Abbazia di San Fedele, di origine medioevale (benché molto rimaneggiata, ma riportata quasi all’aspetto originario, almeno all’esterno, dall’ultimo restauro ai primi del Novecento).

I LADRI DEL TEMPO

Parole. Parole scagliate, schiantate come una cascata verso la valle. Come stalagmiti di ghiaccio, bellissime e fredde, scintillanti e feroci. Le parole hanno inventato i sentimenti. Le parole hanno inventato l’uomo, e non il contrario. Le parole disegnano i nostri contorni, sono un seme piantato nella terra, e il grano che cresce, il vento che piega le spighe, la grandine che le schiaccia, il sole che le matura e la falce che le taglia. Oggi non avevo più parole, le avevo finite tutte. E per un istante, quell’istante in cui sono rimasto senza parole, ho smesso di esistere.

IL FIGLIO DELL’OMBRA

So bene che il rapporto tra uomini e lupi non è mai stato facile. Sono un lupo e non sono imparziale, ma non sono qui per dire che i lupi siano creature inoffensive, candidi e dolci come agnellini. Che poi gli agnelli mica sono candidi, sono giallognoli e puzzano, ed è vero che se capita l’occasione ce li mangiamo volentieri… ma questo lo fate anche voi. Di storie sui lupi però se ne sono raccontate e se ne raccontano tante e qualcuna, se me lo consentite, è un po’ esagerata.

NIVES

Nelle città ci sono strade che si incontrano, si intersecano a volte in grovigli e labirinti, in un dedalo che ti disorienta senza un filo per ritrovare la via, perché i fili si sono tutti aggrovigliati e annodati e a sbrogliarli ti ci vorrebbe la vita. Strade fatte apposta per confondersi e smarrirsi.
Altre strade, invece, scorrono parallele, non come rette precise e geometriche, ma di solito come serpentine ondeggianti, che sinuosamente strisciano tra le case e le persone, infiltrandosi in mezzo ai tombini, palesandosi d’improvviso dietro una piazza, eppure senza mai deviare dal tracciato dell’itinerario di sempre.

Da Mesagne con amore <3

IMG-20171203-WA0008[1]

Di ritorno da Mesagne, dove ho ricevuto il primo premio per la poesia inedita (con La metamorfosi delle farfalle) e il primo premio per la narrativa inedita (con I ladri del tempo). Mesagne, come altri che forse non avrei visto senza il “pretesto” di qualche premio letterario, è un luogo sorprendente. Nota per il barocco, nasconde in realtà anche alcuni segreti più antichi. Non c’è forse bisogno di dire che è anche molto ospitale e accogliente!

Lo so, ho saltato il lunedì di Robin, ma spero che mi perdonerete, perché ieri sono stata in viaggio per una bella fetta di giornata e quando sono arrivata ero veramente distrutta. Lui credo che mi perdonerà anche solo per il fatto che La metamorfosi delle farfalle appartiene a lui almeno quanto a me.

 

Qualche foto di Pistoia – premiazione del concorso di Racconti Brevi Il Torrente

20171021_14372720171022_20374520171021_14370420171021_143840

Qualche foto di Pistoia, dove siamo arrivati ieri per la premiazione del concorso di racconti brevi “Il Torrente”. La premiazione è stata questa mattina, e dopo abbiamo mangiato (molto bene) alla Casa del Popolo di Bonelle.

Questa la motivazione della Giuria che ha assegnato il primo premio al mio racconto “Accidia”:

Il racconto trasporta il lettore, con un incipit potente, nella totale indifferenza della protagonista, spiazzando talvolta per il contrasto tra gli aggettivi fortemente negativi legati in modo originale a sostantivi che di solito sono sinonimo di allegria, serenità e pace (il sole, disperatamente luminoso, i silenzi, letali da svegliare).

In maniera sempre più claustrofobica, la protagonista si concentra sul non sentire con una scrittura che segue un ritmo sempre più centripeto compiendo la metamorfosi finale, in un mondo che finalmente la ingloba, la pietrifica, congela il suo sentire al pari dello sguardo di Medusa.

Incipit

Qui di notte il cielo è più grande e più scuro, non puoi chiedergli niente. La volta stellata è magnifica, ma il suo manto nero, lucido e scintillante, la luce pura degli astri, non hanno niente da spartire con le nostre vite confuse, con le nostre penombre intricate. La mappa del suo territorio è perfettamente uniforme, senza sbavature. L’ha creata il Grande Spirito all’inizio del mondo, e nessuna guida ha dovuto disegnarla con i suoi passi, volgendo il naso all’aria in cerca di odori lontani e l’orecchio a terra per incontrare il passato di tutti gli uomini e gli animali che l’hanno percorsa. Gli uomini sbagliano: per quanto abili siano le nostre guide, ogni generazione dovrà correggere qualche piccolo o grande errore di quelle che l’hanno preceduta. Il cielo non ha errori, non ha odore né tracce, da cui nascano intuizioni improvvise su ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. Le stelle non sognano. Non hanno una lingua che un interprete possa decifrare per far da tramite tra i loro pensieri e i nostri. Mi chiamavano Donna Uccello, tuttavia, che il Grande Spirito mi perdoni, io ho sempre preferito camminare che volare, e ho scelto quello che potevo capire coi miei piedi, il mio naso, gli occhi, le orecchie, la bocca e le mani. Ho scelto l’incontro e l’esplorazione, il corpo e le parole, la terra di cui potevo imparare a leggere i segni, perché se impariamo a leggere i segni della terra possiamo forgiarla, dare senso a ogni albero, sasso o corso d’acqua, ma non potremo mai forgiare il cielo. Il cielo non ci appartiene, e noi non gli apparteniamo.

Così inizia la mia prossima storia, e questa è in un certo senso la primissima presentazione della mia protagonista, chissà se qualcuno, sulla base di queste scarne informazioni, capirà di chi si tratta (è realmente esistita, questo va detto).

Qualche novità su premi e segnalazioni

Questa volta unisco un po’ di belle notizie in un unico post, visto che le ho avute tutte nei giorni scorsi. Il mio racconto  I ladri del tempo ha vinto il primo premio al concorso “Città di Mesagne” dell’Associazione Solìdea, e nello stesso concorso ho vinto il primo premio anche per la poesia (sì, l’ho saputo stasera e ancora non ci credo) con La metamorfosi delle farfalle! Oggi  mi ero dedicata alle pulizie casalinghe ed ero sfinita, ma ora sono al settimo cielo! Il racconto Sabbia sporca ha invece ricevuto una segnalazione di merito al Premio I Fiori sull’Acqua, e infine due mie poesie, Un gioco d’amore e vento e Un sonno lieve di conchiglie sono tra quelle inserite nell’antologia del Concorso “San Martino“. Mi spiace trascurare le rubriche del blog, ma bisogna conciliar varie cose… Come sempre, grazie anche tantissimo a voi, che avete contribuito non poco a darmi il coraggio di provarci, e continuate a sostenermi.

E se non siete troppo lontani dalla Toscana, vi ricordo domenica prossima. 22 ottobre, alla 11 la premiazione al Circolo Culturale “La Viaccia” di Bonelle (Pistoia).

 

Primo premio al mio racconto “Accidia”

Un’altra grandissima gioia,  il 22 ottobre prossimo sarò a Pistoia, alla premiazione del concorso letterario “Il Torrente“, organizzato dal Circolo Culturale La Viaccia. È la prima volta che vinco il primo premio con un racconto: benché abbia sempre scritto più in prosa e mi senta davvero poco “poetessa”, fino a questo momento i maggiori riconoscimenti erano andati proprio alle poesie.  Certo, quando quest’estate ho iniziato, al principio quasi per gioco, a mandare i miei scritti “a tappeto” a tutti i concorsi letterari che mi sembravano minimamente seri (e credetemi, ce ne sono davvero tanti), non mi aspettavo questi risultati. Sono un’iniezione di fiducia, e mi hanno spinto a fare sempre più “sul serio”, l’ho preso quasi come un altro lavoro. Non che mi mancassero le cose da fare, ma la scrittura ha la precedenza su quasi tutto. Accidia è uno dei racconti più apprezzati anche qui sul blog, ed è una belle emozione vederlo “crescere”.

Nives

Nelle città ci sono strade che si incontrano, si intersecano a volte in grovigli e labirinti, in un dedalo che ti disorienta senza un filo per ritrovare la via, perché i fili si sono tutti aggrovigliati e annodati e a sbrogliarli ti ci vorrebbe la vita. Strade fatte apposta per confondersi e smarrirsi. Altre strade, invece, scorrono parallele, non come rette precise e geometriche, ma di solito come serpentine ondeggianti, che sinuosamente strisciano tra le case e le persone, infiltrandosi in mezzo ai tombini, palesandosi d’improvviso dietro una piazza, eppure senza mai deviare dal tracciato dell’itinerario di sempre.

E così ti capita di percorrere i budelli stretti di un cruciverba cittadino, orizzontali e verticali che tra loro si aiutano, e se ne risolvi una hai trovato la chiave per l’altra; oppure ti capita invece di lasciarti trascinare tra le onde del serpente, e sai che ha a fianco un altro serpente, e che in qualche modo potresti andare di là e confondere le acque, ma tieni duro, diritto per la tua strada, ovunque ti porti, dovessi anche arrivare all’inferno o perderti nell’aridità di una via senza sbocco, o ritrovarti in un amore sbucato d’improvviso.

Fu così che incontrai Nives, un nome da bucaneve, da antica fiaba, che ti immagineresti candida e pura, con pelle di alabastro, bianca come la neve e rossa come il sangue.

Ma la pelle di Nives era color bronzo, i suoi capelli castani avevano poco o niente a che fare con l’ebano, e anche le labbra, più che rosse come il sangue, erano un color carminio appena accennato, rossetto non ne portava quasi mai.

Aveva nello sguardo una luce velata, come se la parte d’infanzia che anni troppo duri le avevano tolto, se la fosse ripresa negli ostinati sogni di adulta.

Rideva di una risata cristallina e gioiosa, e rideva spesso, senza mai perdere né l’innocenza della bambina segreta che ancora aveva nascosta dentro, né il sottile dolore che l’accompagnava nella sua fuga dal mondo. Ché Nives era sempre fuggita dal mondo, mai dalla vita.

Nives, dicevo, la incontrai un giorno che, dopo essermi ingarbugliato per bene nell’intersecarsi dei carruggi, avevo deciso di prendere uno di quei serpenti dalla coda, e seguirlo.

Il bar non lo avevo mai visto prima, e non era niente di speciale, un locale come tanti, intimità comprata a poco prezzo con un po’ di luce soffusa alle pareti, le tende decorate a fiori di campagna, qualche pubblicità fintamente antica di birre e liquori. Ma c’era una freschezza non poi così comune, una freschezza che sentivi nella cura delle tovaglie di stoffa sempre allegre e pulite ben spianate sui tavolini, nelle composizioni di fiori secchi, e nel sorriso che ti accoglieva quando entravi. Il sorriso di Nives.

Fui banale, come forse si è sempre, quando più vorresti che le tue parole racchiudessero tutte le vite e tutte le storie e i mondi possibili, e invece tutto quello che ti viene in mente è “può un cliente offrire da bere al barista?”

Ebbi fortuna, non c’erano altri clienti nel locale, e lei rise e disse di sì. E dopo, molte ore dopo, ore di parole insulse, importanti e tenere, quando con un’impudenza che non era mai stata mia, le chiesi se mi avrebbe offerto un caffè a casa sua, lei di nuovo rise, e di nuovo disse di sì.

Solo per quella prima volta, si lasciò attraversare con la furia smaniosa che a me sembrava il modo naturale di far l’amore. Ma fu lei ad insegnarmi, un pezzetto alla volta, il prezioso segreto della lentezza, dell’attesa. La pelle esibita alla mia bocca e alle mani, mi sfidava alla scoperta di insospettate sorgenti, causa dell’aridità del palato prosciugato dal desiderio, ma anche l’unica acqua in grado di appagare la sete.

Mi offriva il suo corpo come offriva il caffè ai clienti fissi. Generosa, con naturalezza consapevole. Non senza pensarci. Pensandoci, invece, perché non c’era in lei quasi nulla di involontario. Mi raccontò un giorno una confusa storia, non so quanto genuina, di innocenza perduta, di paure e incubi quotidiani, e di vagabondaggi notturni nell’attesa spasmodica di quello che un giorno, finalmente, aveva ottenuto: la libertà. Da allora, mi disse, tutto quello che le era accaduto, era stato lei a volerlo, sempre. E questo potevo crederlo.

Ma in altre occasioni, parlò di domeniche in cui sua madre faceva la pignolata, così da noi si chiamano i pasticcini secchi ricoperti di pinoli, e del suo profumo di lavanda, e di suo padre che tornava dal lavoro e la teneva sulle sue ginocchia, dondolandola al ritmo di canzoni che lui stesso componeva. Quale delle due infanzie era quella vera? O lo erano entrambe, e magari ce n’erano anche delle altre, infinite sfaccettature, pezzetti di specchio da ricomporre per avere l’immagine tutta intera? Non l’ho mai saputo, e forse non mi è mai neppure interessato. Mi bastava quello che mi regalava lei, quei piccoli doni di parole che mi porgeva nei giorni in cui si fidava di me.

Fu un’estate lunga, quell’anno. Estate di siccità, pochissimi giorni di pioggia da maggio a ottobre. Dovevi rientrare nel garbuglio dei carruggi per trovare luoghi impenetrabili al sole. Ma sempre ricordando che quando più credevi di essere al sicuro, protetto dalla barriera delle case addossate una all’altra, da un’ombra indomita e inviolata che copriva la tua paura dolceamara, ecco, proprio in quel momento la strada si apriva, e di fronte a te trovavi il mare, il morso della sua luce azzurra, il graffio della salsedine nella gola. E quel sole raggiante e ridente, e appena un velo lieve, quasi impercettibile d’inquietudine per quello splendore implacabile.

Fu un’estate lunga, e finché durò l’estate, Nives continuò a fidarsi di me.

Ma le estati finiscono sempre. Quando cominciavo a permettermi di sperare che sarebbe scesa dalla corda su cui danzava i suoi passi di funambola, lei scomparve.

Non intendo dire che se ne andò, che non si fece più sentire. Intendo dire che sparì, si dissolse, si dileguò come se non ci fosse mai stata.

La dimenticai immediatamente, e ancora una volta, non mi fraintendete. Non fu il facile oblio di un amante occasionale, ma la perdita assolutamente involontaria di ogni traccia del suo ricordo.

L’amnesia, nella nostra immaginazione, è vicina alla morte, perché noi camminiamo al passo della nostra memoria. Il fascino che hanno per noi i racconti di chi ha perduto il nome, l’identità, il passato, è il fascino della condizione di chi ha varcato il regno degli inferi. Odisseo che diventa Nessuno, il poeta o l’indovino in grado di vedere oltre il confine, ma cieco a tutto ciò che è sulla terra.

Fu questa la mia condizione per molti anni. Ricordavo, a dire la verità, il mio nome, la mia identità e anche il mio passato, quasi tutto, tranne però quell’estate. E sapevo bene di aver perso sei mesi interi, sentivo il disagio di quello squarcio che aveva inghiottito poco più di centottanta giorni della mia vita, proprio come i raggi del sole inghiottiti dalle scure ombre dei vicoli.

Io che ho sempre fotografato ogni cosa come scusa per conservare i miei momenti, non avevo mai fotografato Nives. Non avevo nulla che lei mi avesse regalato. Non avevamo una nostra canzone, né un nostro posto, tranne il bar in quella strada che non percorsi più, per tutto il tempo in cui durò il mio stato di amnesia localizzata.

Fu un inverno lungo, l’anno in cui recuperai il ricordo di Nives.

Furono le strade, a guidarmi, come era sempre accaduto. Quando nasci in un luogo in cui i monti e il mare decidono l’intrico delle strade, e l’intrico delle strade decide la forma della città, non puoi non sapere che quell’intrico avrà un’influenza anche sulla tua vita.

Ripercorrevo quella zona un tempo nota e mai più rivista, in cerchi concentrici sempre più stretti, e ogni volta recuperando un pezzettino di ricordo.

Il bar però, non l’ho mai più rivisto. Ma forse si tratta solo di aspettare. Anche gli inverni finiscono sempre, e l’amore, dopotutto, è una questione di strade.

 

Accidia (un esperimento)

Image result for accidia

Lentamente lascio che la strada mi porti. Non ho meta né desiderio di guardarmi intorno. L’indifferenza ti salva, ti preserva. Lascio che i pensieri mi scivolino via dalla mente, perché anche i pensieri possono far male. Per vivere bisogna cercare e io non voglio cercare niente. Ah, poter scomparire, così, semplicemente, senza uccidersi né morire, perché anche quella, dopotutto, sarebbe un’azione. Io vorrei solo non esserci. Esserci è dolore, così fingo di essere già scomparsa, dissolta nella sabbia, avvolta in una sciarpa di foglie cadute, confusa in mezzo all’eco delle voci, senza sangue né linfa. Il nulla.

C’è stato un tempo in cui le cose potevano farmi male, i piedi portavano i segni del cammino, veri e propri tagli, a volte, e io ero capace addirittura di amarli, quei tagli, tanto quanto amavo il primo raggio di sole tra le querce del giardino all’alba, le rotaie della piccola stazione in cui passavano due treni al giorno, che da bambina sognavo di prendere senza leggere la destinazione, il colore blu in tutte le sue sfumature, le valigie, i gelati, respirare nella pioggia. La vita, allora, mi camminava dentro. Oggi la guardo passarmi accanto, la osservo con distacco, non provo più niente per lei.

Tra quella che tanti anni fa era la mia casa e le altre quattro o cinque vicine si era creato un minuscolo triangolo, una specie di cortiletto, che ad ogni temporale si impregnava d’acqua, e anche dopo che le pozzanghere si erano fatte via via meno profonde, fino a divenire semplici chiazze umide, per molti mesi tutto il fondo manteneva l’aspetto lucido e scuro del cemento bagnato. Era riparato sui quattro lati dagli alti muri delle case intorno e la luce diretta non lo colpiva mai, né era mai battuto dal vento, o esposto al caldo o al freddo.

Adesso le case intorno non esistono più. Il pavimento del triangolo è asciutto, senza una goccia d’acqua, e luminoso, luminoso in maniera totale, assoluta, non un filo d’ombra, una sfumatura. Uniformemente, disperatamente asciutto e luminoso. Una colonia di formiche si è appropriata degli spazi, vanno avanti e indietro, talvolta in file ordinate, altre volte invece si spandono un po’ dappertutto. Non ci sono briciole da raccogliere, né insetti, o piante, o persone. Niente. Non le vedo portare cibo da qualche parte, non so cosa cerchino, né se cerchino qualcosa. Sto per ore distesa sui gomiti, a guardare i loro piccolissimi corpi neri che coprono zone sempre più vaste. Quella luce disperata in alto, e guardando in basso, invece, quel nero che si estende. Non ho altro da fare. Quelle formiche sono come le persone che un tempo conoscevo. Cercano una linea retta, una geometria che dia senso al loro movimento, poi rinunciano. Nel loro agitarsi torna il caso. Il caos. Questione di anagrammi. Quante saranno? Centinaia? Migliaia forse.

Dopo i tre, quattro zeri qualunque cosa diventa statistica, anche le persone. Non siamo veramente in grado di concepire, con la nostra mente, la reale differenza tra mille, centomila o cento milioni. Prima li contavamo, i bambini in agonia, anche quelli lontani, che passavano attraverso le immagini e non entravano davvero in casa nostra, ma in qualche misura ci appartenevano. Ho smesso di contare, ormai. Tanto tutto è morto, intorno a me e dentro di me.

Non di rado la notte tremavo, con una violenza che mi spaccava il sonno, quel po’ di sonno che riuscivo a rubare, a volte pochi istanti soltanto, interrotti da un silenzio cosi letale da svegliarmi. Un silenzio che mi entrava nei timpani a tradimento, più doloroso di qualunque suono. Dicono che non potrai mai più liberarti dell’ombra di tutto ciò che rifiuti. Se allontani la pena, se nascondi la paura, la tua vita non sarà che dolore e paura. Io so che non è vero. Quei bambini dilaniati nel mio giardino non erano i miei figli, perché dovrei curarmi di loro? L’uomo che hanno trascinato per i piedi, umiliato e sconfitto, non era niente per me. Ho rinunciato a tutto, perché non c’è niente di peggio dei sentimenti. Uno dipende dall’altro. Se ami, hai paura della perdita. La felicità non può esistere senza l’abisso, né la serenità senza il vortice e l’uragano. Infinitamente meglio il nulla. È meglio non cercare un significato.

L’insensibilità ha la grazia del vuoto, di un’assenza che non diventa mancanza. Non c’è nessuno a cui vorrei mancare, nessuno che mi manca. Come un cecchino contemplo la morte dall’alto, con l’esperta cura dei dettagli di chi conosce il mestiere. A quale angolatura sarà puntata l’arma? A chi toccherà questa volta? Fotografo la morte con lo sguardo, senza che possa toccarmi in alcun modo, vedo soltanto la tecnica inimitabile dell’orrore, il suo tempismo perfetto, ma non mi riguarda, non sono vittima né carnefice, né tantomeno intendo mettermi contro qualcosa o qualcuno. È facile affrontare il pericolo, quando ti importa di qualcosa; ma quando tutto è indifferente, non esiste più un pericolo da affrontare, né una speranza. Non c’è più inizio, né fine. Tutto è spento, dimenticato; qui non c’è più nessuno, nemmeno io. Le formiche si appropriano anche del mio spazio, mi camminano addosso, non m’importa, ho smesso anche di tremare di notte. Sono libera. Ero carne, oggi sono pietra.