Miti da sfatare sull’adolescenza

Condivido, sì, e mi ha fatto davvero un immenso piacere questa conferma di quello di cui, tra mille dubbi e timori, sono comunque convinta, proprio in questo momento in cui mi prende a volte lo sconforto. Mi spiace non poter tradurre l’articolo ora, se riesco e se siete interessati cercherò di farlo. A grandi linee, comunque, il succo è questo: gli adolescenti non si comportano volutamente in modo da portarci all’esasperazione, ma i cambiamenti psicologici e ormonali a cui sono soggetti rendono difficilissimo per loro controllare i propri impulsi. Per questo motivo cercare di “portarli alla ragione” con prediche e simili è del tutto inutile, mentre è utilissimo comportarci, noi adulti, in modo “ragionevole/razionale”, perché questo mostra loro che siamo capaci di trovare strade e soluzioni. Essere amorevoli e dare attenzioni e abbracci, senza fermarsi alla prima rispostaccia, può sembrare in alcuni casi un eccesso (“dopo tutto quello che abbiamo già fatto per loro!”), ma se il criterio è vedere che cosa funziona, bene, questo funziona. Più di qualunque punizione (che nel caso va comunque mantenuta entro limiti molto modesti, tanto una maggiore severità non ottiene risultati migliori).

Does this scenario feel familiar? Marisa is 12-and-a-half years old. She has become moody and irritable, wants much more private time alone in her room, but spends it all socializing with friends on social media. She has little time for the family. She will “agree” to eat dinner with her mother, father and younger brother…

via 3 Myths About Your Teen’s Bad Attitude — TIME

Il Bosco – Parte II – Capitolo 2 – continua

immagine_boscoViviana non aveva mai dato troppa importanza all’apparenza delle persone, non notava certo i vestiti e le acconciature con l’ostinata pignoleria di alcune delle sue amiche. Naturalmente si era accorta che quei ragazzi che Elisa aveva appena conosciuto avevano i capelli un po’ più lunghi dei suoi compagni di classe, e questo, senza sapere perché, le aveva procurato una punta di irritazione. Ma coi mesi i loro capelli erano ancora cresciuti, e non era più possibile ignorare gli allarmi lanciati dai giornali contro quei ribelli zazzeruti che andavano in giro spaccando vetrine, si inebetivano con quella musica straniera dal ritmo indiavolato che chiamavano beat, o con le insulse canzonette yè-yè e non erano più in grado di pensare, rifiutavano la famiglia, la società, il lavoro e si mettevano a fare gli hippy. C’erano di mezzo anche delle droghe, aveva letto.
Proibire la infastidiva, e qualcosa in quei ragazzi le piaceva, ma non sapeva come comportarsi.
Quel giorno era successo qualcosa – o meglio era successo il giorno prima, ma lei lo aveva saputo solo quella mattina – che l’aveva spaventata ancora di più. Quali sarebbero state le loro reazioni? Che cosa sarebbe accaduto adesso?
Era il pomeriggio del 10 ottobre. Elisa stava uscendo con la sua compagnia – ormai era un’abitudine consolidata, anche se quella non era una giornata come le altre. La fermò, incurante delle sue occhiate all’orologio e della sua evidente ansia di scappare.
“Senti ma questi ragazzi… Spiegami un po’ di che cosa parlate e perché non possono vestirsi e pettinarsi come le persone civili”.
“Cioè?” domando Elisa, sbalordita. Lei proprio non aveva mai fatto caso che il loro aspetto avesse qualcosa di insolito.
“Cioè perché devono andare in giro con quei capelli ridicoli, lunghi fino al collo, e perché devono andare all’università e a scuola coi jeans e le ragazze addirittura con le gonne sopra al ginocchio. Non mi sembra affatto un abbigliamento adeguato”.
Elisa la guardò con tanto d’occhi. Ma da quando sua madre era così snob, da quando proprio lei, di tutte le persone, era diventata così conformista?
“Non saprei… io… non gliel’ho mai chiesto – quasi balbettava per lo stupore. – ma è così importante?”
“Non voglio che tu ti metta con quella strana gente che vive ai margini, chissà come… io…”
“Ai margini? Mamma, non sono hippy, anche se tante idee degli hippy non sono affatto sbagliate, come la non-violenza, la voglia di pace o la paura di questo eccesso di consumismo. Ma voglio dire, insomma, vanno tutti a scuola, all’università, mica sono degli spostati. Che cosa ti prende?”
Viviana si aggrappò a quell’accenno agli hippy, per dare una forma e un nome ai suoi timori.
“Credo che siate terribilmente confusi. Ascoltate le canzoni americane e quando parlate infarcite i vostri discorsi di parole americane ma poi gridate ‘no America’ e ‘l’impero è finito’ e cose del genere. L’America la odiate o l’amate? Io ho paura che se date ragione agli hippy su certe cose poi finirete per diventare come loro.”
Elisa represse la tentazione di ridere, ci pensò su un momento.
“Sì, credo che davvero siamo confusi. Ma penso che sia un bene, sai. L’America è grande, è fatta di tante cose. L’America è Bob Marley e Kennedy e Martin Luther King e Che Guevara, però è fatta anche della gente che manda dei ragazzi a morire in Vietnam. L’America è libera o vorrebbe esserlo, e riconosce il diritto di cercare la felicità, ma per la libertà degli Americani di essere come vogliono loro fanno anche le guerre e tolgono la libertà agli altri. Come si concilia l’idea di uguaglianza con il modo in cui trattano gli indiani e le persone di colore? Siamo confusi perché questo è un mondo confuso. Noi prendiamo quello che ci piace e contestiamo quello che non ci piace. Vogliamo che il mondo sia diverso da com’è adesso, però non abbiamo un’idea precisa di come vogliamo che diventi. Così ognuno può dire la sua, costruire un pezzo della tela. Alla fine magari verrà una cosa strana, una specie di patchwork, ma così sarà anche più colorato e più allegro, non credi?”
Colorato, allegro. Era questo che loro credevano, ma i colori e l’allegria stavano già cominciando a scomparire anche dai loro orizzonti. Era già successo, appena quattro anni prima, quando la ventata di speranza dell’America kennediana era stata spazzata via a Dallas, con tre colpi di pistola. Viviana aveva a malapena sentito parlare di Che Guevara, ma aveva in qualche modo intuito che incarnava il simbolo dei loro sogni, proprio come era accaduto, per la sua generazione, con John Kennedy.
“Ernesto Che Guevara è morto” disse, e non seppe mai perché le parole le fossero uscite così, proprio in quel momento e con quel tono freddo, neutro, che non rispecchiava affatto il suo stato d’animo. Aveva sentito la notizia alla radio quella mattina, un comunicato glaciale. Il guerrigliero Ernesto Guevara, soprannominato il Che, era stato ucciso in un’imboscata in Bolivia. Non l’aveva lasciata indifferente, perché Guevara era una figura con cui si doveva fare i conti in qualche modo, fosse pure per detestarlo e magari per ucciderlo.
Che Guevara è morto. Che Guevara è morto. Quelle parole risuonarono come un’eco infinita nella mente di Elisa, prima che si rendesse conto di quello che significavano. E del resto avrebbe riudito il suono di quelle parole ancora molte volte nei giorni a venire. Con rabbia, con dolore, con scherno o soddisfazione, mai con indifferenza. Ma neanche sua madre era indifferente, questo lo capì da subito, forse proprio dal modo in cui lo aveva detto, dalla stessa inespressività della sua voce.
Ecco cos’era, pensò, e con sgomento si accorse che nel dolore si insinuava un inopinato brivido di trionfo, che le fece scoprire qualcosa di se stessa, qualcosa di non interamente gradevole. Scoprì che le dava una specie di piacere vedere che per una volta, poteva succedere anche a sua madre di non avere una decisione pronta per tutto, di non saper bene che pesci pigliare.
“Che Guevara è morto – ripeté, inebetita da tutte quelle emozioni che le erano rovinate addosso, e dalla stessa lucidità con cui per un momento si era guardata dentro. – Che Guevara è morto. – Ancora una volta. Ripetere per esorcizzare, non per convincersi. Scosse la testa. – Che Guevara non morirà mai”.
La lasciò così, non convinta ma incapace di trovare altre parole per fermarla.
“Che Guevara è morto” fu la prima cosa che disse, appena vide Monica, Andrea, Matteo e Filippo che l’aspettavano davanti al Balilla, da sempre il loro caffè-gelateria d’elezione.
“Sì” fu la laconica risposta di Filippo.
“Assassinato come un cane”, aggiunse Andrea, che aveva la faccia di chi ha perso un amico.
“Ma dicono che è morto combattendo, in un’imboscata”.
Andrea scosse la testa.
“Le ultime notizie sono diverse. L’hanno catturato e poi gli hanno sparato. Solo col tradimento avrebbero potuto ucciderlo, il tradimento e la vergogna dell’assassinio di un prigioniero disarmato”.
“Ma non ho mai capito – obiettò Matteo – perché tu, un sostenitore della non-violenza, avessi tanta passione per un guerrigliero, uno che sapeva essere anche molto spietato e non perdonava certo ai suoi nemici”.
“Non sono i suoi metodi a renderlo così amato, ma i suoi ideali. Puoi non approvare il modo in cui lo faceva, ma non puoi non ammirare la sua lotta alle ingiustizie. Ha messo la sua vita in gioco per gli altri, altri di cui in fondo avrebbe anche potuto non importargli niente. Chi erano per lui? Ma invece gli importava, gli importava di tutti come se davvero tutti fossero suoi fratelli, come se davvero per ogni uomo trattato ingiustamente una parte della sua stessa dignità andasse perduta. Come se in ogni essere umano fosse capace di vedere un pezzo di sé, e più di tutti nei deboli, in quelli che erano stati sottomessi per secoli a ogni forma di potere, politico o economico che fosse. Poi nei miti uno ci legge quello che vuole. Ti diranno anche che era un violento, un bandito, un assassino, e magari è anche una parte della verità. Ma io preferisco quella parte di verità in cui posso rispecchiarmi”.
Ognuno aveva un suo Ernesto, un suo Che, un suo Guevara, che li divideva e li univa, perché per tutti era un mito ma per ognuno un mito diverso.
Così una settimana dopo si ritrovarono tutti, temporaneamente uniti e solidali, alle manifestazioni che anche a Genova avevano voluto ricordare il Che. Fu la prima manifestazione a cui Elisa avesse mai partecipato.
Diversi giorni dopo, tra mille altre cose e discorsi, Elisa trovò anche il modo di chiederlo davvero ad Andrea, perché si pettinavano e si vestivano così. Ma la sua risposta le fece sentire una tale vicinanza con loro e una tale lontananza da sua madre, che certo se lei lo avesse saputo non avrebbe mai sollevato l’argomento.
“Ho cominciato un po’ per caso, perché avevo visto dei ragazzi coi capelli sul collo e mi piaceva – spiegò con semplicità. Poi sorrise. – Un po’ anche per far dispetto a mia madre che mi diceva sempre ‘quand’è che vai dal parrucchiere’ appena superavano il centimetro di lunghezza. Non è che avessi pensato a niente di politico, però quando ho visto come alcuni mi guardavano mi ha dato parecchio fastidio. E’ una società libera, ci dicono, però poi ti giudicano da come ti vesti e dai capelli. Fanno le retate contro gli sporchi zazzeruti di Piazza Tommaseo e la gente applaude, perché quello che conta è essere ordinati e bene integrati. E condannano persino Don Milani, da morto, perché aveva difeso i ragazzi che non accettano il servizio militare perché non vogliono imparare a fare i soldati. Ma uccidere non è peccato? O quando uccidi milioni di persone diventa meno grave? Già è una fatica costante combattere coi condizionamenti di chi ti dice che cosa devi desiderare e di cosa hai bisogno e ti fa lavorare per comprarti cose che non avevi mai saputo di volere. La verità è che tutto è politico, tutto quello che fai, che tu lo voglia o no, e persino quando non te ne accorgi. E se porti i capelli così significa che sei contro la guerra in Vietnam e tutte le altre guerre, contro le dittature, i colonialismi, il perbenismo e la polizia che spara sulla folla. E poi il Che… Insomma, è stato quasi senza accorgermene, ma li ho lasciati crescere un po’ di più e poi ancora un po’ di più, e così adesso sono un capellone…” Sorrise di nuovo, si toccò la testa con il gesto giocoso di un seduttore per scherzo.
Elisa fu costretta a trovare qualcosa da poter guardare, per non restare lì a fissarlo come un’ebete. E non trovò niente di meglio che alzare gli occhi a guardare la strada di San Vincenzo che dolcemente s’incollinava nell’ultimo tratto, tra le sue case-presepe e i negozi che sfavillavano.
Era quasi Natale. Gocce di luce, una pioggia dorata e intermittente precipitava dai tetti dei palazzi, dalle statue e dalle fontane in allegra confusione, insieme ai fiori d’oro, agli alberi di Natale d’oro, tutto un mondo ai confini in cui l’oro segnava, come nelle antiche leggende, il limite oltre il quale la notte finisce, il paese dove il sole non tramonta mai, un’isola Eea gentile, senza la crudeltà degli antichi riti del Sole.
E sarebbe stato quel mondo ai confini che Elisa, anche se ancora non lo sapeva, avrebbe continuato a conservare negli anni, riflesso nello sguardo color cobalto di un ragazzo scarruffato, sfrontato e innocente.

Lettera a mio figlio

Hai spalle forti, piccolo mio, più forti di quanto tu possa pensare in questo momento. E piedi grandi, che puoi scegliere se farne radici per ancorarti alla terra e a un luogo in particolare o mezzi per esplorare il mondo, o più probabilmente entrambe le cose, perché è vero che le scelte sono inevitabili nella vita, ma è importante anche sapere che possiamo scegliere più cose, avere più passioni, coltivare più talenti. L’importante è accogliere e nutrire la nostra curiosità, sempre.

Hai occhi grandi e scuri, con cui fai domande e troppe volte ti dai anche le risposte, del resto quando si è piccoli le risposte sono più importanti delle domande. Quanto siano preziose le domande, tanto più, a volte, nel loro essere insolubili, lo si impara col tempo, quando si scopre che è quello che ti spinge a cercare che importa, per dare senso alla vita,molto più che trovare quello che cerchi.

Hai braccia che stringono con quel bisogno immenso che hai di affetto, tenerezza, sostegno, perché sono tutte cose che per quasi sette anni hai dovuto trovare in te stesso, ma un bambino non può trovare queste cose in sé stesso senza aprire delle voragini di bisogni e desideri insoddisfatti. resta una paura che se dovesse capitarti di cadere, non ci sia nessuno sotto a tenerti, e allora poi diventa difficile lasciarsi andare. Ma tu ricorda che anche se è stato così difficile e ti ha fatto così male, quella capacità che hai avuto di abbracciarti da te, di darti appoggio e conforto anche da solo, nessuno potrà mai togliertela, e sarà quella che ti permetterà anche di cercare e trovare l’amore e il sostegno degli altri.

Hai una testolina (neanche più tanto “ina” in effetti) piena di pensieri, idee, ricordi, paure, emozioni di cui racconti solo dei frammenti, quando e nel modo in cui sei tu a volerlo, come è giusto, ma forse più di quanto spesso le persone siano abituate a fare, specialmente poi persone ancora così “piccole”, e questa è una cosa importante che penso ti potrà essere di grande aiuto. Lasciala sfogare quella testolina. Fidati di lei, ci sono tante cose dentro e so che adesso sicuramente sembreranno anche un po’ caotiche, ma se glielo lasci fare, si districheranno, poco a poco. Datti il tempo, ché senza il tempo non maturano neanche le nespole.

E fidati del tuo cuore, che hai un cuore grande, ma proprio grande grande, tanto che sembra troppo, quasi da far male, sproporzionato persino per quel tuo fisico da cestista che ti sei trovato tra capo e collo senza averlo chiesto, e di cui devi imparare a essere un po’ orgoglioso o anche soltanto a sentirlo tuo e sentirtici dentro. Quel tuo cuore che forse sembra voler scoppiare da un momento all’altro, in certi momenti, e a volte sembra fermo, ma è lì che batte, tu magari non ci pensi, non ci fai caso, ma lui batte al ritmo giusto per te. Anche i tuoi polmoni, dopotutto, se ci pensi, respirano al ritmo giusto per te, senza bisogno che tu faccia nulla. Ci sono molte cose che funzionano e sono buone per noi, anche se non le controlliamo, forse questo potrebbe essere un sollievo, che ne dici?

Fidati della tua voglia di libertà, non lasciarti ingabbiare né dalle persone, né dalle paure. Anche quella va accudita, innaffiata, concimata e fatta crescere. Non è facile, alla tua età, capire la differenza tra fare tutto quello che si vuole ed essere pienamente sé stessi. Accetta le regole che ti permettono di vivere con gli altri e stare bene dentro, quelle che vengono dal rispetto. Mettile pure tutte in discussione, anche qui bisogna darsi tempo, poi s’impara quali sono le leggi che non vanno accettate mai, prendendosene però anche la responsabilità e accettandone le conseguenze. Forse è meglio chiamarli principi, ideali. Perché è dal vivere secondo i principi in cui credi che parte tutto il resto.

Non lasciare mai che ti facciano sentire in colpa. Se hai fatto un errore, dillo a viso aperto, chiedi scusa se pensi che sia giusto farlo. Senza vergogna o imbarazzo, che non sono necessari né utili, quando sai di aver fatto del tuo meglio, perché gli errori li commettono tutti e quindi non c’è bisogno di preoccuparsene troppo. Ma chiedere scusa, spesso, serve semplicemente a dire ok, ho sbagliato ma ti voglio bene e ho voglia di provare a fare ancora meglio, sapendo comunque che se sbaglierò di nuovo, tu capirai.

Perché noi capiamo, sai. Anche quando non ci credi troppo, noi ci siamo. Col nostro modo a volte un po’ goffo, inadeguato, ma ci siamo. Non sei solo. Ecco, soprattutto vorrei che tu sapessi questo, che ne fossi convinto fino in fondo, sicuro, in ogni momento. Non sei solo. Non più.

12. Dead Poets Society

Dead Poets Society

Eccolo dunque…

Uno dei tre, quattro film di cui posso davvero dire che hanno forgiato parte del mio carattere e persino della mia vita. Quelli che è una fortuna essere lì al momento giusto e coglierli, come ci fosse un albero da cui piovono cioccolatini ed essere lì, esattamente in tempo perché ti cadano in bocca e ti sciolgano definitivamente qualche nodo fino ad allora insolubile, rendendo più dolce non solo quella giornata lì, ma tutte quelle a seguire.

La trama è fin troppo nota per raccontarla, anche se seguirà qualche (limitato) spoiler. Una scuola soffocata da tradizioni antiche quanto Matusalemme, un gruppetto di ragazzi propensi a piccole, poco significative ribellioni che lasciano immutata la realtà delle cose, un professore speciale.

Ecco, che cosa rende questo professore tanto speciale? Perché sia prima, sia, soprattutto, dopo, di film sulla scuola ne sono stati fatti tanti. Scuole difficili, insegnanti votati alla missione di redimere le pecorelle smarrite… no, nulla di tutto questo, qui. Eppure questo è un film da cui non si può più prescindere quando si parla di educazione (nel senso migliore del termine). Per ironizzare, per celebrare, per ridimensionare, per prendere esempio, per mille altre ragioni possibili. Ma anche per chi non ha visto il film (e se non l’ha visto, probabilmente è perché si è rifiutato, categoricamente e per partito preso, di vederlo), se qualcuno, in qualunque contesto di quel genere, sale su un tavolo, il collegamento è immediato, istintivo. Così come avviene persino se qualcuno, citando magari Whitman più ancora che il film, almeno nelle sue intenzioni, pronuncia le parole “Oh capitano, mio capitano”.

Da qui sono tratte alcune di quelle frasi che ricorrono fino all’esaurimento sui social. Omaggi, certo, ma omaggi malriposti, monchi, persino. Perché fuori dal contesto, quelle frasi perdono la loro importanza, la loro profondità, la loro freschezza. E’ tutto l’insieme che può far venir voglia a qualcuno di pensare è così che voglio essere. Come insegnante, come genitore, come poeta, non importa. Come essere umano. Perché è per questo che scriviamo e leggiamo poesie. Perché siamo membri della razza umana.

Io credo che siano essenzialmente due, le cose che rendono il “Capitano Keating” più memorabile di altri protagonisti anche di film famosi (mi vengono in mente attori anche grandissimi o molto noti, come Sidney Poitier, Michelle Pfeiffer, Kevin Kline, e chissà quanti ne dimentico). La prima è che resta sé stesso sempre, dal momento in cui mette piede in classe la prima volta (anzi, dal momento in cui viene presentato di fronte all’intero istituto) fino alla fine. Non ha intenzione di compiacere nessuno né di mettersi contro nessuno, solo di trasmettere la passione per le cose che ama nel modo che gli è congeniale, che è il “suo” modo. La sua reazione di fronte al collega nella memorabile scena delle pagine strappate, per esempio, è indicativa. La massima tranquillità, la massima consapevolezza, nessun imbarazzo possibile perché non può esserci imbarazzo, quando fai qualcosa che è profondamente in linea con i tuoi principi.

La seconda cosa è che ha certo una grande fiducia nella possibilità degli studenti – quasi tutti gli studenti, quelli che lo vogliono, in effetti – di trovare la propria voce, e dà loro gli strumenti per farlo, ma sempre e solo, rigorosamente, se lo vogliono. La libertà ognuno deve sempre comunque scegliersela per conto suo, anche se può aiutare avere qualcuno che te ne mostra la bellezza.

I ragazzi di questo film hanno ciascuno una propria personalità ben definita, una propria “voce”, davvero. Il modo stesso in cui strappano la famigerata pagina dell’introduzione di J. Evans Pritchard allo studio della poesia è rivelatore del loro carattere.

Charlie Dalton è il più maudit tra tutti, il più trasgressivo, anche se di fatto, inizialmente la sua contestazione si ferma sulla soglia della sua stanza. Un trascinatore, comunque, un leader, forse, tra tutti, il più determinato nelle sue idee. Oggi mi piace più di un tempo. E’ quello dotato di maggiore personalità e forza di carattere.

All’epoca in cui ho visto il film per la prima volta, Il mio preferito era Neil Perry. Romantico, bellissimo e sfortunato, se non ci fosse stato Robin Williams magari un pensierino… Ancora adesso penso che la scena in cui recita Puck sia una grandissima interpretazione e non mi ha stupito vedere che nonostante un modesto successo al cinema, Robert Sean Leonard abbia in seguito fatto due film con Kenneth Branagh. E per una ragazzina indubbiamente Neil aveva molte caratteristiche da far spezzare il cuore, compresa quella passione così trascinante, così poetica, e quella fragilità che gli impediva di difenderla davanti a tutto e tutti.

Todd Anderson (un Ethan Hawke indubbiamente bravissimo, peccato che io abbia un problema con lui, mi sta cordialmente antipatico) come personaggio del film incute molta tenerezza. E’ il più timido, quello meno convinto delle sue capacità, quello che pensa di non poter mai trovare un senso alla sua vita e la sua “voce” ma che poi, quando la tira fuori, mostra una ricchezza interiore profonda, che si esprimerà poi alla fine, quando sarà lui (non essendoci più Charlie Dalton, peraltro), il primo a dare il via a quell’atto di ribellione “vera” che è l’esprimere la propria opinione contro l’autorità.

Cameron è ovviamente il leccapiedi (diciamo eufemisticamente), la spia, quello che non potrà probabilmente mai far parte davvero della classe dirigente, per manifesta mancanza di capacità, e si accontenta allora di accompagnare I potenti restando un passo indietro.

Knox Overstreet è il Romeo, il Leandro innamorato delle commedie goldoniane e Stephen Meeks è il secchione (simpatico, peraltro).

Ma veniamo alla domanda che vi avevo fatto nel teaser.

Avete mai odiato un personaggio di un film, ma intendo proprio odiato visceralmente, con un sentimento ben vivo e reale, come se quella persona avesse un potere nefasto sulla vostra stessa vita e voi non desideraste altro che di cancellarla dalla faccia della terra? Devo dire per fortuna che è qualcosa che mi è quasi sconosciuto riguardo a persone in carne e ossa. Ma ecco, il padre di Neil Perry mi fa esattamente quell’effetto. Capisco l’amore male espresso, ma davvero, a tutto c’è un limite. Sono bravissimi, sia il regista che l’interprete, a evitare l’effetto “villain”. Tom Perry non è necessariamente bieco o interamente cattivo. Non è un padre violento, vuole bene a suo figlio, senz’altro. Solo che è abituato a ottenere sempre e comunque quello che vuole, schiacciando tutto ciò che si mette sulla sua strada né più né meno di un elefante con un ramoscello di cui neanche si cura, semplicemente lo strappa perché si trova lì.

Nella scena iniziale, che serve anche un po’ da presentazione dei principali protagonisti, c’è un piccolo dettaglio che in realtà, come in un giallo, è un indizio significativo. Mentre tutti i genitori salutano il preside con una certa formalità, usando il cognome come sembra naturale, Perry e il preside si chiamano reciprocamente per nome.  Non ci si fa neanche caso, ma a un osservatore attento non sfuggiranno i rapporti di forza tra i due.

Poco dopo, Perry sale a discutere col figlio Neil nella sua stanza (una cosa che avrebbe dovuto essere inaudita già di per sé), lo umilia pubblicamente davanti ai compagni e lo maltratta solo perché cerca di convincerlo a lasciargli fare una cosa per lui importante. Torna umano solo quando Neil si rassegna a fare esattamente come dice lui e gli chiede scusa (manca solo si metta in ginocchio) per aver cercato di essere, almeno in una piccola cosa, sé stesso, invece che il manichino perfettamente ubbidiente che è l’unico tipo di figlio (e di essere umano in genere) che Perry possa accettare.

E’ quel tipo di persone che causano tragedie spaventose, rovinano irrimediabilmente la vita agli altri e riescono poi sempre a salvarsi persino da sé stesse, perché niente e nessuno potrà mai convincerli che possono aver torto, che possono aver sbagliato qualcosa. La responsabilità è sempre di qualcun altro. E loro procedono, comunque, continuando a non guardarsi intorno, continuando a strappare rami fino a che intorno a loro si crea il vuoto, ma tanto non se ne accorgono, perché comunque hanno sempre visto solo ed esclusivamente sé stessi.

Il Bosco – Capitolo 2 – Parte I, IV

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Matteo aveva iniziato a suonare “Vedrai, vedrai”, qualcuno cantava e sull’onda della musica Elisa si lasciava condurre lungo una scia di pensieri.
Le canzoni erano strade da un altrove all’altro, legami sottili di forme tra sogni realistici e realtà immaginate, flussi di corrente e di parole, musica luce oppressione uguaglianza mondo. Kennedy Martin Luther King Che Guevara Vietnam Grecia Cina mondo. Guerra lotta fraternità pace mondo. La politica c’entrava e non c’entrava, era ovunque ma sfuggente, imprecisa nei contorni, scompariva e riappariva come una fata morgana. Le cose che leggeva sui giornali sembravano solo pezzi sparsi e sconnessi di qualcosa che si intuiva più molteplice e meno frammentario, ma che restava nell’ombra del non detto. La musica restituiva coerenza a quelle parole apparentemente sconcatenate. Si capiva di più, quando non si tentava di dare forma compiuta, definitiva, a quel disegno il cui senso stava proprio nei suoi contorni vaghi e mutevoli.
Musica e parole annodavano i fili, rendevano più saldi i legami, davano loro un sapore adulto che avrebbe altrimenti richiesto molto più tempo. Bastarono quei pochi pomeriggi, quelle poche sere di vento e stelle perché Elisa non riuscisse più a immaginarsi senza di loro, né loro senza di lei. Matteo era capace di dare a tutto ciò che viaggiava sulle note della sua chitarra una serietà profonda eppure non priva di una luce di segreta allegria, che raramente mostrava in altre occasioni. Sotto le sue dita, le canzoni yè-yè si trasfiguravano, assorbivano in sé tutto quello che per loro era vita, in quel momento. L’amore, la giovinezza, la paura, il coraggio, la dignità disarmata di chi si batte senza speranza di vittoria. E più di tutto l’amicizia, un vincolo di fratellanza più forte anche della solidarietà, per cui il sangue versato era il sangue di tutti, il sangue della terra.
Erano quelli come loro che i giornali chiamavano zazzeruti perdigiorno, e che sarcasticamente accusavano di protestare contro il consumismo solo perché non potevano permetterselo? Aveva quasi creduto, fino a quel momento, che i contestatori fossero un po’ come i marziani verdi del cinema, magari vagamente pericolosi, ma così lontani da non costituire un problema poi molto pressante. Ma forse erano gli altri, quelli come i suoi compagni tanto ammodino, ad appartenere a un altro pianeta, un pianeta in cui l’universo iniziava da Dante e finiva con Manzoni; la cui geografia si esauriva tra le Alpi e lo Stretto di Sicilia; la cui storia aveva visto l’eroica lotta per l’indipendenza negli anni gloriosi del Risorgimento e là era rimasta, immutata nel tempo. L’attualità aveva un sentore troppo forte di politica, un puzzo, per meglio dire, indegno di varcare le soglie dei sacri templi del sapere.
La riscosse la voce aspra di Lorenzo.
“Che branco di idioti. Voi e quel povero imbecille che pensava di cambiare il mondo con le canzoni e non poteva che finire ad ammazzarsi. Dobbiamo muovere il culo se vogliamo rovesciare il sistema. Come dice Mao, le rivoluzioni si fanno coi fucili, non con l’amore. Non sarà l’amore a buttar giù dalle loro poltrone questi bastardi borghesi, tutti ad applaudire la polizia quando fanno le retate e prendono qualche povero stronzo che non fa altro che starsene seduto per terra. Perché così se ne possono stare tranquilli, rintanati nelle loro casettine con la loro macchinina, e la loro buona figliola, che probabilmente è una puttanella comunque, non rischia di mettersi con un poco di buono, uno che non ha voglia di comprarsela a suon di gioielli e pellicce. Se non gli spacchi qualche vetrina non si svegliano”.
“Tu guardi il mondo con il tuo dolore e la tua rabbia, lo guardi con i tuoi occhi, per questo non vedi vie d’uscita. Perché è per te che non vedi vie d’uscita”.
A Elisa parve che Filippo, con quel suo tono sempre pacato, avesse detto una cosa terribile.
“Io lo capisco”, disse Andrea. “Capisco la rabbia e capisco il dolore. I giornali terrorizzano i benpensanti, dovunque ci sono dei ragazzi che stanno insieme vedono un pericolo. Se poi c’è un campo beat, Dio ne scampi, un covo di peccatori, una nuova Babilonia, peggio del diavolo. Bisogna cacciare via tutti, distruggere tutto e dopo magari disinfestare, come se si trattasse di topi o insetti. Però questi topi, questi insetti, questi giovinastri pulciosi e capelloni, loro, i fucili, non ce li hanno. E non credo neanche che spacchino vetrine”.
“E infatti non vanno da nessuna parte. Se ne stanno lì, nelle loro tende, aspettando la prossima ripulita. Dovunque ci sia un potere, io sto con chi si ribella, con chi esce e scende in piazza, non con chi se ne sta rintanato in casa con le sbarre alle finestre.”
“Anch’io sto con chi esce, ma una ribellione per la dignità e la giustizia non può essere violenta. Non capisci? Ad ogni vetrina sprangata la rivoluzione fa un passo indietro. Serve solo a chi vuole far credere che a protestare siano pochi fanatici disperati. Hanno cercato di fare questo giochetto anche quando hanno parlato dello sciopero generale per l’Italcantieri dell’ottobre scorso. I disordini spaventano e tengono la maggioranza tranquilla, ma ci si dimentica di dire chi è che sta uccidendo Genova. Non sappiamo più quello che siamo e che vogliamo essere, mentre decidiamo se diventare un grande centro industriale, il più importante porto del mondo o il più moderno polo terziario dell’universo, aziende e navi se ne vanno da un’altra parte, l’occupazione scende e tanti non sanno bene cosa li aspetta. Però bisogna mantenere la calma, se si comincia a parlare di fucili, si spiana la strada a un nuovo padrone che garantirà l’ordine e la tranquillità a spese del dissenso. E magari si prenderà lui i fucili e sceglierà lui contro chi usarli”.
“Tutte chiacchiere, il fatto è che non hai abbastanza fegato, non ce n’hai per rompere vetrine, figuriamoci per prendere un fucile”, disse Lorenzo, e c’era più di un velo d’irrisione nella sua voce.
“Fegato? Per rompere vetrine? E cosa c’entra? Ah, vuoi dire il fegato al posto del cervello…”
Andrea e Lorenzo rimasero a fissarsi per diversi minuti con aria di sfida, come due rivali prima di un duello. Elisa era in ansia, avrebbe voluto che Andrea la smettesse di provocare Lorenzo, ma allo stesso tempo lo ammirava per il modo in cui lo faceva, senza sbruffoneria, cioè, forse un po’ sì, ma non sembrava gli interessasse farsi vedere, o piacere ad altri che a se stesso. Era ormai una cosa tra loro due, con gli altri a fare da spettatori.
“Uscire non basta, se non agli scemi. Solo uno scemo può credere che si possa abbattere un regime con l’amore. Faresti meglio a non mescolarti con la feccia violenta, potrebbero confonderti con chi lotta veramente. Tu stai solo lì a giocare, prima di metterti su lo studio da dottore con i soldi di papà”.
“Tu consideri un imbecille chi non spacca le vetrine, io considero un imbecille chi lo fa. Ma sono disposto a correre il rischio di stare fianco a fianco con gli imbecilli, pur di non tradire quelli che hanno le idee e il cuore al posto giusto.
Al tuo Mao preferisco Che Guevara: tutte le rivoluzioni del mondo non valgono una sola vita umana.”
“Cosa parli a fare di Che Guevara? Tu sei solo un rivoluzionario da strapazzo. Perché non molli i tuoi brillanti studi, non rinunci alla tua bella carriera per combatterlo davvero, l’imperialismo? La giustizia! Bah! Solo parole, ma la lotta, oh no, la lotta non fa per te, a te fanno orrore le armi… o ti fa paura perdere la tua preziosa vita borghese?”
“Ammetterò che non mi sento tipo da guerriglia. Mi spingerò addirittura fino a dire che per quanto io ammiri Che Guevara, non sono sempre necessariamente d’accordo con quello che dice. So di darti uno choc, probabilmente, ma si può amare qualcuno anche senza farne un mito. D’altra parte… Guevara èu n medico. E sai qual è la parte che mi piace di più dei suoi discorsi? L’etica del lavoro e della responsabilità. Fare quello che fai con amore, rinnovare di giorno in giorno il tuo entusiasmo, non stancarti, non chiamarti fuori, andare avanti anche quando hai la tentazione di pensare che non serva, che della tua parte si possa anche fare a meno. E sentirti responsabile non solo delle ingiustizie e dei delitti che hai commesso, ma di tutti, tutti i delitti e le ingiustizie del mondo. Tenere gli occhi ben aperti per non partecipare, anche con il gesto più banale e insignificante, allo sfruttamento altrui.”
“Ma voi siete tutti comunisti?” domandò Elisa, con curiosità un po’ diffidente. I partiti erano tutti difficili da interpretare e ancora lei non aveva capito se i comunisti erano davvero pericolosi come a volte sentiva dire. Quello che le sembrava di aver capito era che si occupavano molto di lavoro, di questione operaia, di industrializzazione, capitalismo, licenziamenti e cose simili.
“Ma neanche per idea!”, protestò Matteo.
Andrea sorrise.
“Io non ho nessun problema se vuoi chiamarmi comunista, tessere però non ne ho mai prese, perché se ci fosse un’altra Ungheria, o un’altra Baia dei Porci, da qualunque parte venga, voglio essere libero di prendere la mia posizione senza che qualcuno mi venga a dire che la linea del partito è diversa. Marx aveva le sue ragioni, ma non è l’unico che vale la pena di leggere. Il PCI comunque bmi sta abbastanza simpatico, forse perché i miei ne sono terrorizzati, pensano che adesso che tutti studiano, anche i figli delle domestiche, per forza di cose il mondo va verso il disastro, che queste idee di uguaglianza porteranno i bolscevichi che distruggeranno le chiese e forse uccideranno anche la nostra famiglia perché anche noi siamo dei borghesi, dopotutto…”
“Come quasi tutti noi – osservò Marco. – anche io che sono un terrone, però mio padre fa l’operaio specializzato e mia madre è maestra, io vado all’università e abbiamo la casa e pure la macchina, anche se il mio vecchio deve fare gli straordinari per pagare le rate. Però rispetto a tanti parenti che abbiamo giù, siamo ricchi. Certo, i cartelli “non-si-affitta-ai-meridionali” li abbiamo trovati pure noi e mia madre ci ha sofferto un sacco. I miei adesso vogliono solo integrarsi, essere come tutti gli altri. Io invece non so dove sono e dove voglio essere e così mentre cerco di capirlo faccio un po’ lo scemo che non guasta mai. Ma mio padre, anche se guadagna più di tanti altri, vive per il lavoro e alla sera quando torna non gli puoi neanche parlare. Sta lì sul divano e alle volte si addormenta pure. Io non ci voglio diventare così. Io voglio lavorare, sì, e magari fare un lavoro che mi piace, se posso, però voglio anche una vita mia. Mio cugino lavora alla Fiat di Torino e due anni fa ha fatto gli scioperi per avere l’orario ridotto. Mica ci dobbiamo morire, nella fabbrica. Per questo voto PCI”
“Tutti noi abbiamo una vita abbastanza facile rispetto ai nostri genitori”, disse Filippo. “Sarà che i miei si sono ammazzati di fatica per farmi studiare. Ci lamentiamo ma poveri cristi anche loro fanno quello che possono. E’ che magari vedono le cose che gli cambiano intorno e questo gli fa paura. I miei sono di origine contadina, mio padre a suo tempo ha protetto i partigiani, “pöei figieu”. Ma se sopporta comunisti e capelloni è solo perché teme di averne uno o forse un paio in casa”.
“Già quando le ho detto che intendevo andare all’università, a mia madre quasi quasi le veniva una crisi isterica – Monica fece una risatina. – E adesso esco con la minigonna e tre o quattro collanone di legno alla volta e vado a vedermi i concerti. Si è rassegnata, poveretta. Io ogni tanto provo a parlarle di Che Guevara, di Lumumba, della guerra in Vietnam, del femminismo, degli operai. Mi sa che si aspetta un giorno o l’altro di vedersi la figlia incinta di un qualche morto di fame, magari di colore, stile Indovina chi viene a cena. Però non un bel professorino simpatico e ammodo, no, proprio uno di quelli arrabbiati, tipo Malcolm X, per dire. E pure povero.”
“Quelli del PCI san fare solo i cagnolini da salotto aspettando sotto il tavolo qualche briciola di potere. Stanno lì a mangiare nella stessa stanza coi padroni, quegli stessi che hanno fatto i soldi sulla pelle degli operai. Repressione, licenziamento degli scioperanti e dei sindacalisti, premi ai crumiri, questo succede nelle fabbriche, ma loro neanche se ne accorgono!” Lorenzo quasi gridava il suo disprezzo. Il PCI non era abbastanza per lui, né aveva ancora trovato il posto giusto, anche quelle che i giornali chiamavano forze estremiste, gli sembravano sempre troppo deboli, troppo democratiche, troppo accomodanti.
“Comunisti, fascisti, di qua, di là. Io non vi capisco – disse Matteo. – Se quello che volete è cambiare il mondo mettetevi a farlo, senza stare a chiacchierare e a creare un gruppetto per ogni cosa, ognuno per sé e per la sua purezza, il più maoista, il più leninista, il più marxista…”
“Volete? Perché, tu dove stai? Ti piace così com’è o sei troppo vigliacco per partecipare e mettersi in mezzo?” Lorenzo lo provocò, con l’abituale durezza.
“Vuoi sapere quello che penso io? – ribatté Matteo. – Io penso che da che mondo è mondo è sempre stato il più forte a vincere. Il più forte si fa le leggi, pretende di avere il monopolio delle armi, della giustizia e della morale. E’ questo che è sempre successo e che succederà sempre e non saremo certo noi a cambiare le cose”.
“Ma non credi che sia importante esserci, dimostrare che comunque non accettiamo che le cose stiano come stanno? Forse non possiamo fare una grande differenza, ma anche una piccola conta. Se non altro per quello che noi pensiamo di noi stessi”- osservò Andrea.
No, in realtà Matteo non ci credeva. A dirla tutta, forse non gli interessava poi tanto. Era loro amico, si lasciava trascinare. Si lasciava, nonostante tutto, “mettere in mezzo”, senza voglia e senza il coraggio né per starne fuori del tutto, né per farsi coinvolgere del tutto.
Forse era un paradosso, o forse no, a leggere certi manifesti fascisti lui trovava che certe parole fossero le stesse. E certe ridicole pretese, anche. Contava davvero chi era più antiborghese o più nemico del materialismo del moderno sistema consumistico? Lui non ci riusciva proprio ad appassionarsi a queste cose.
“Prima o poi la gente si incazzerà sul serio, capirà che siamo in guerra e che ci stanno portando via tutto, che ci fregheranno se glielo lasceremo fare.” Ribatté ancora Lorenzo. Le voci cominciavano a sovrapporsi, la polemica prese una piega molto personale e troppo aggressiva, fino a che non intervenne Marisa, proponendo un pomeriggio al cinema, forse solo per fare in modo che la discussione si spostasse dall’ardente e idealistica passione per Che Guevara e Mao Tse Tung a quella altrettanto ardente ma meno idealistica – e dunque meno pericolosa – per Billy Wilder, Bergman e Rossellini.

Il Bosco – Parte I, Cap. 2, III

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III

Estate. Libertà nei vestiti leggeri, nei piedi scalzi. E il mare.
L’assenza di un saldo appoggio le toglieva la paura di sentirselo mancare sotto i piedi. Né era sempre necessario domandarsi che direzione prendere, o sapere dove andare. Guardando i suoi simili da una certa distanza, li sentiva meno lontani. In acqua si sentiva meno estranea alla terra.
In quella settimana di vacanza nell’incanto di Monterosso si era assunta con entusiasmo il compito di insegnare a Raf a nuotare. Le dava una scusa in più per scomparire in acqua per un tempo indefinito. Del resto era un compito che sua madre le aveva scaricato con una buona dose di sollievo. Raf aveva adesso tre anni ed era un adorabile, buffo, pestifero mostriciattolo. Lei e sua sorella, in segreto, lo chiamavano Attila, perché dove passava lui, l’erba certo non sarebbe ricresciuta per un bel pezzo.
In un assolato giorno di luglio, le braccia avvolte intorno al collo della sorellona come le spire di un boa constrictor, Raf rinunciò per la prima volta al salvagente. E subito dopo, tutto felice e fiero, prese a spruzzare ettolitri d’acqua tutt’intorno. Era il suo gioco preferito, quello, per fortuna solitamente le occhiatacce fulminanti delle malcapitate vittime si scioglievano subito in sorrisi indulgenti, non appena Raf spalancava gli occhioni con la sua miglior espressione da agnellino smarrito. Elisa si guardò intorno alla ricerca di un modo qualsiasi per distrarlo. All’improvviso le parve di vedere due gocce d’oceano fuori posto. Precisamente, su una faccia. La faccia di un ragazzo. Una faccia niente male. Sulla quale nel medesimo istante si scatenò la furia inondatrice di suo fratello.
“Ehi, piccolo uragano!”. Il ragazzo tentava inutilmente di proteggersi il volto con le mani, ma con suo grande sollievo, stava ridendo.
“Raf, no! Raf, per favore … mi scusi, io … il mio fratellino è un po’ …”
No, non stava balbettando, proprio no, era solo che … era solo che, ecco, si ritrovava di nuovo il terreno sotto i piedi, adesso. E dunque anche l’idea che potesse scivolare via da un momento all’altro.
Il piccolo uragano si era portato dietro le sue spalle con l’astuzia di una vecchia volpe consumata, e prima che avesse il tempo di capire cosa stava succedendo, Elisa si sentì afferrare per le gambe e trascinare sott’acqua. Annaspando e tossendo, riuscì a uscire,
“Raf, bestiolina mia adorata, questo non si fa, tesoro”, disse con la voce resa zuccherosa dall’esigenza di coprire l’improvviso, irrefrenabile desiderio di strangolarlo. Lui le si avvicinò, le schioccò un bacio su una guancia e lei scoppiò a ridere. “Vai adesso, vai dalla mamma, la lezione per oggi è finita”.
“Sei brava coi bambini!” Le gridò dalla riva il ragazzo dagli occhi marini.
“Già. Sì. Io … voglio dire grazie”, disse lei. Poi si girò e nuotò via, più lontano che poteva, più velocemente che poteva.

Dopo cena, quella sera, Elisa riuscì a strappare il permesso di uscire per un’oretta. Aveva bisogno di camminare.
I vicoli erano avvolti in quella luce imprecisa e instabile che precede il crepuscolo, un azzurro non cupo né luminoso, un color carta-zucchero. Le case erano tutt’uno con il cielo, il mare, il piccolo universo racchiuso in quello scorcio di paradiso, solo per quell’istante perfetto. Tornò verso il mare ma si fermò nel piccolo parco in fondo alla via principale. Non c’era più nessuno. Solo due minuti, pensò sedendosi. C’era qualcosa nel ragazzo della spiaggia che la costringeva a pensarlo per conto suo. Niente confidenze con Cristina a bassa voce nel letto di notte, niente gomitate e risatine complici con le amiche.
Passò mezzora prima che si rendesse conto che era buio da un bel pezzo. Si incamminò a passo spedito.
“Ehi, salve, dove vai così di corsa?”
Era ancora soprappensiero e sobbalzò rendendosi conto che quelle parole erano rivolte a lei. Si girò per rispondere inviperita all’importuno di farsi i fatti suoi, e le gambe le diventarono, come si suol dire, di gelatina. Era il ragazzo della spiaggia!
– Io… sto tornando in albergo. Ho fatto tardi perché ho fatto una passeggiata poi mi sono seduta nel parco a pensare adesso ho visto l’ora e anche se abbiamo già cenato ho pensato che fosse meglio tornare a casa perché non voglio che si preoccupino e poi magari mi fanno una scenata e comunque è tardi è buio ed è meglio che vada… – Elisa non poté andare avanti. Doveva per forza prendere fiato, perché era rimasta in apnea per troppo tempo.
Il ragazzo la guardò con simpatia.
“In che albergo stai?”
“Pensione Marinella”. Questa volta disse solo lo stretto indispensabile, laconica a ogni buon conto.
“E’ proprio accanto a quella dove siamo noi! Posso accompagnarti allora, così non rischi di fare brutti incontri, andando in giro da sola a quest’ora.”
Elisa non si accorse che lui la stava prendendo in giro e prese fuoco come un fiammifero, dimenticando persino di balbettare e di restare senza parole, o di farsi battere il cuore all’impazzata e farsi tremare le ginocchia, insomma, tutto quello che avrebbe “dovuto” succederle.
“Ehi, io vado in giro da sola da quando avevo dodici anni, non ho bisogno della scorta armata. E già che sei spuntato così dall’ombra, chi mi dice poi che non sia tu un “brutto incontro”?
Il ragazzo alzò le mani in un gesto di pacificazione, o forse per parare i colpi. I suoi occhi però ridevano.
“Va bene, va bene, non volevo mancare di fiducia nei tuoi confronti. Sono sicuro che te la sai cavare benissimo da sola, ho solo pensato che visto che siamo praticamente vicini di casa… ma hai ragione, non mi sono neppure presentato, e forse non ho un aspetto troppo rassicurante. Mi chiamo Andrea Bruzzo, e comunque ti giuro che non ho brutte intenzioni. Spero che tu mi creda e mi permetta di accompagnarti? – L’ultima frase era stata detta in un tono che fece tornare in mente a Elisa tutto quello che aveva dimenticato prima sul cuore, le ginocchia, la voce che d’improvviso non esce più, e tutto il corredo classico. Beh, ormai era un po’ tardi. Gli sorrise.
“Non avevo intenzione di presentarmi come un cerbero. Certo che puoi accompagnarmi. A proposito, io mi chiamo Elisa Perasso.”
Accidenti, non le sembrava vero. Non solo lo aveva conosciuto, ma gli stava parlando come… come se non ci fosse niente di strano, come se fossero vecchi amici. Chiacchierarono un sacco, durante la strada e ancora per un altro quarto d’ora almeno davanti all’albergo, anche se a lei era sembrato comunque troppo poco. Per la prima volta si era resa conto che poteva essere altrettanto naturale parlare del Vietnam quanto di musica, di poesia o di qualunque altra cosa, come se non fosse nulla di particolarmente affascinante o misterioso, semplicemente interessante, semmai. Che la politica poteva diventare solo una delle tante cose che c’entravano con la vita.

Il giorno dopo, alle sette Elisa era già pronta per uscire. Era sveglia dalle sei, e aveva persino preparato la colazione per tutti.
Quando infine giunsero alla spiaggia, Andrea non c’era ancora. Per non restare a contemplare l’orizzonte come se non aspettasse altro che di vederlo, Elisa si mise a leggere.
“Che libro è?”
Riconobbe la voce, ma questo non impedì al suo cuore di saltar via dal suo posto almeno per un momento. Lui parve approvare la scelta: “Il Grande Gatsby”, di Fitzgerald. Non certo un libro leggero da portare al mare ma per lei i libri erano oggetto di una passione onnivora: da un paio d’anni era passata senza scosse da Piccole Donne, Il richiamo della foresta e Ventimila leghe sotto i mari a Guerra e Pace, Il Rosso e il Nero e Jacopo Ortis.
Adesso era il turno di Fitzgerald, ma abbastanza casualmente, perché quello che trovava sugli scaffali di casa lo prendeva e lo leggeva senza seguire un particolare filo logico. Tranne che più un libro strappava il cuore, più la tragedia era fosca e il destino straziante e disperato, più lo amava, felice di versare tutte le sue lacrime per la sorte di Natascia o di Andrej, di Julien Sorel, di Jacopo e di Teresa proprio come fino a due anni prima aveva pianto sulla sorte di Beth March e del capitano Nemo e del cane Buck.
“Anche a me piace Fitzgerald. – disse Andrea. – Tutta la letteratura inglese e americana mi piace molto. Hai mai letto Salinger, Il giovane Holden? – Elisa scosse la testa. – E Sulla strada di Kerouac?
“No”, disse Elisa, che questa volta si trovava di fronte al timore, tutto nuovo, non di leggere troppo ma di leggere troppo poco.
“Se vuoi, quando hai finito questo te li presto. – si offrì lui. Poi si rivolse a Viviana. – Mi scusi signora, mi presento. Mi chiamo Andrea Bruzzo. Sua figlia ed io ci siamo già incontrati.
Viviana sollevò un sopracciglio. Si erano incontrati, precisamente, quando? E poi che razza di letture suggeriva? Non certo adatte a una ragazzina di neanche quindici anni. Comunque sembrava gentile, anche se aveva troppi capelli e gusti letterari discutibili.
Una volta esaurite le formalità, Andrea ed Elisa scomparvero. Andrea le presentò sua sorella Monica, poi, man mano che giungevano alla spicciolata, gli altri ragazzi che aveva già intravisto con lui.
Monica somigliava al fratello nella parte superiore del volto, l’attaccatura a punta dei capelli, la forma curiosamente allungata degli occhi, la dolcezza dello sguardo, pur attraversato da lampi d’ironia. Una simile irrequietezza anche, sebbene accolta in modo ben diverso, da lui senza dubbio voluta e coscientemente cercata, mentre s’indovinava più amara quella di lei, vissuta con disagio, male accetta. Bastava guardare quelle mani che non stavano mai ferme, il suo stesso sorriso dolce e fuggevole, come se venisse ogni volta interrotto forzatamente troppo presto. Le somiglianze finivano lì: i lunghi capelli fini e dritti di Monica erano quasi neri, ben diversi dall’arruffata massa biondo scuro di Andrea; il naso di Monica era sottile, diritto, raffinato; quello di lui, pure sottile, si apriva con una curva quasi rapace e terminava allungandosi fino a ombreggiare il labbro superiore, un naso dantesco, come lui stesso lo avrebbe definito, in tono orgogliosamente auto-deprecatorio. Una linea sottile ma netta gli correva dal naso giù fino al mento, il che accentuava oltre misura gli aspetti più duri, quasi spigolosi del volto e al tempo stesso lo rendeva più umanamente imperfetto. Non agli occhi di Elisa però, sempre più incredula di fronte all’inatteso materializzarsi di un sogno, cieca a ogni cosa che non si sovrapponesse completamente all’immagine disegnata nella sua mente. Ogni volta che lui parlava, ogni volta che sorrideva, era come se le porte del mondo le si aprissero davanti.
Si riscosse bruscamente dalla contemplazione. Qualcuno aveva apostrofato l’oggetto della sua adorazione con un poco rispettoso: “Ehilà, scorticagatti!”dandogli una manata sulla spalla, cui Andrea aveva ribattuto “Come va, vecchio scampaforca?”
Il nuovo arrivato era piuttosto piccolo di statura; il naso affilato e quasi impercettibilmente inclinato verso sinistra, il brillio nei rotondi occhi castano chiaro, la bocca sfrontata, tutto contribuiva a quell’impressione di un’allegria quasi ostentata, dell’impudente faccia da schiaffi di un adolescente che ancora giocava a fare il monello.
“Ma perché scorticagatti?!” Chiese Elisa.
“E’ il suo modo di far dello spirito sui dottori, perché studio medicina”, spiegò Andrea. “Potrebbe anche dire ‘aggiustaossa’ o ‘macellaio’, ma immagino che non siano termini sufficientemente pittoreschi per lui. Ripagarlo della stessa moneta non è semplicissimo, studia biologia marina… ‘Vecchio profanatore di abissi oceanici’ non ha proprio la stessa efficacia, trovo. A proposito, lui è Marco Auriemma”.
“Terrore… pardon, terrone del mare, per servirti – declamò lui con uno scherzoso inchino – Giunto dal profondo Sud per solcare gli oceani e stanare le più insospettabili, ripugnanti e apparentemente del tutto inutili forme di vita”.
“Di dove sei?” domandò Elisa.
“Di Sapri”.
“Ma non dirgli ‘quella della Spigolatrice’, altrimenti ti manda a spigolare”.
“A spigolare?”
“A ramengo. A quel paese. A vendere ghiaccio agli Eschimesi…”
“Ah, ok, ho capito”.
“E’ una citazione della Bibbia, libro di Ruth”, intervenne un altro ragazzo che nel frattempo si era avvicinato.
“Filippo, ma da quando leggi la Bibbia? Ti sei convertito?” commentò Andrea, con un che di affettuosa ironia nel sorriso.
“No”, rispose l’altro, “ma la Bibbia è una magnifica opera letteraria. Ogni volta che arrivi a uno strato del significato delle sue storie, scavando trovi sempre un altro strato. Anche quella di Ruth è così. E’ un racconto di solidarietà femminile, di rispetto verso gli ultimi, di amicizia tra diversi, di fede… ve bene, va bene, la faccio finita”, sorrise, intercettando lo sguardo di Marco levato al cielo.
“L’esegeta biblico è Filippo Parodi – riprese Andrea, tornando a rivolgersi a Elisa. “Non studia teologia ma agraria, però se vuoi sapere i come, i dove, i quando e i perché della Terra e dell’Universo Mondo, lui è la persona giusta. Non che sia un secchione, tutt’altro, semplicemente sa tutto, dev’essere nato così”.
“Infatti la prima cosa che disse non fu “mamma” ma cogito ergo sum… o forse era cave canem, non ricordo bene…” intervenne Marco, in una caricatura delle altisonanti celebrazioni di certi Carneade dei quali si vuole sottolineare, fingendo d’ignorarlo, il fatto che siano beatamente ignoti ai più. “Sua madre non glielo ha mai perdonato. A due anni, dopo un approfondito studio ingegneristico dell’arredamento da cucina, riuscì precocemente ad aprire lo sportello dei biscotti, e subito scrisse un dotto trattato: “la fame come stimolo alla creatività e all’azione umana”. A cinque anni lo chiamarono a Oxford, ma rifiutò perché non la considerava alla sua altezza … in effetti, era ancora un po’ bassino. Le migliori università del mondo continuano a contenderselo e lui, non facendo ormai più parte dei sette nani e non sapendo bene se coltivare le sette arti o i sette peccati capitali, ha deciso di coltivare la terra… che se non altro è una sola!”
Filippo era piuttosto alto, con un viso lungo dagli zigomi alti e il mento appuntito, cui l’invidiabile abbronzatura non riusciva del tutto a sottrarre l’aria dello studioso, che lui ironicamente accentuava indossando occhiali rotondi, dalla montatura sottile.
Intanto, poco a poco erano arrivati anche gli altri.
Andrea proseguì con le presentazioni: – Questi sono Lorenzo e Anna. – Non aggiunse altro, ed Elisa trasse da sola le sue conclusioni. Anna era una ragazza minuta, un viso piccolo dai lineamenti regolari e occhi enormi, di un colore particolare tra il grigio e il verde muschio. Ma li alzava raramente da terra, quegli occhi, e quando lo faceva le si leggeva nello sguardo spaurito una rassegnazione al peggio, un desiderio di farsi notare il meno possibile, quasi sperando che ci si dimenticasse che esisteva. Al contrario, la prima cosa di Lorenzo che saltava agli occhi era la sua mole smisurata. C’erano strati di grasso, sui suoi muscoli, eppure s’indovinava che questo non riduceva di molto la sua forza allenata. Gli occhi scuri corrucciati da un broncio perpetuo, l’espressione quasi sempre fissa a mostrare un’incommensurabile noia, le labbra assottigliate dalla stanca, vuota malinconia di chi non trova una sola ragione di curiosità, un solo motivo valido per essere al mondo. Ma sotto quello spleen sembrava intravedersi una furia malamente repressa, un rancore indifferenziato, senza un oggetto preciso, che avrebbe potuto scatenarsi per una qualunque ragione, su chiunque.
“Mi dici che cazzo c’entra con noi ‘sta sbarbina?” – brontolò, e nonostante la parolaccia, non aggiunse all’espressione di noia che un’oncia di sarcasmo appena, senza faticar troppo a cambiare sguardo.
Andrea alzò le spalle. Non si era posto il problema, in realtà. Il loro gruppo era nato del tutto casualmente, e lui sperava che con la stessa casualità avrebbe continuato a crescere. Non avrebbe saputo dire neanche, dopotutto, perché ne facesse parte Lorenzo. O lui stesso, se per questo. Nessuno aveva mai chiesto o preteso nulla. Non c’erano vincoli se non quello, del tutto personale, dell’affetto e del senso di appartenenza, che del resto poteva durare tutta la vita o una mezza giornata, secondo l’indole di ciascuno. Tuttavia negli anni, man mano che altri si aggiungevano e qualcuno invece spariva, era diventato evidente che senza saperlo, si erano in qualche modo “scelti”, in base a qualcosa che avrebbe potuto definire, se gli fosse interessato farlo, come una intransigente determinazione all’onestà, al di là delle differenze anche profonde che potevano esserci tra loro. La stessa determinazione che scintillava dietro la timidezza dello sguardo di quella “sbarbina”, limpido nonostante gli occhiali dalle lenti spesse che portava. Ma Lorenzo aveva letto quasi tutti i libri giusti, quelli che sapevano cosa era davvero rivoluzionario e cosa non lo era. Evidentemente una ragazzina timida, per quanto onesta, non lo era abbastanza.
Andrea non avrebbe potuto spiegare questi caotici pensieri a Lorenzo, e forse non lo avrebbe fatto neppure se avesse potuto. Alzò le spalle e non disse nulla, consapevole che quel gesto avrebbe forse potuto rivelare ciò che gli era indifferente, ma non ciò che gli stava a cuore.
Terminò le presentazioni con Matteo “il nostro esperto di letteratura classica, di musica classica, di abbigliamento classico… come tutto questo si concili con il fatto che studia economia, lascio a te giudicare”, e con “Marisa la saggia”, una bella ragazza dai gesti misurati e lo sguardo mite, i cui fiammeggianti capelli rossi creavano uno strano contrasto con l’aria placida e il suo “mirabile talento nel pacificare i conflitti”, come Andrea lo aveva definito.
Si avvicinavano ormai le undici e il caldo stava diventando opprimente. Elisa sentì un rivolo di sudore colarle dalla fronte e tornò a sentirsi intimidita, a disagio. Un minuscolo granchio uscì dalla sabbia, si fermò a guardarli e pareva come incuriosito, ma forse cercava solo un po’ di fresco. Lorenzo gli si avvicinò e fece per schiacciarlo con una scarpa.
“Lascialo stare! – disse Filippo duramente. Lorenzo parve esitare poi si fermò. L’animaletto tornò a rifugiarsi sotto la sabbia, ma la piccola scena l’aveva inorridita anche più di quanto fosse giustificato. Il sole scottava. Tutt’intorno un vocìo di mamme gracidanti, padri esasperati e bambini inselvatichiti. Forse il caldo e il rumore inasprivano le reazioni.
“Non potremmo andare a fare un bagno adesso? – Propose Filippo, che aveva anche lui l’aria di non poter restare al sole un minuto di più.
Passando, Elisa si accorse che era arrivato Fabrizio e andò a salutarlo.
“E’ quello tuo padre? Non ti somiglia molto”, osservò Matteo. Era probabilmente solo un’osservazione casuale, non tutti somigliano ai loro genitori, ma Elisa pensò che se non avesse colto quel momento, la storia sarebbe venuta fuori ancora una volta da sé, con parole non sue, svelata suo malgrado come una vergogna. Era l’occasione invece di raccontarla lei finalmente, come qualcosa che le apparteneva, perché si sentiva pronta come mai prima, in cambio di quell’amicizia, ad offrire in dote se stessa.
Forse, però, non era stata una buona idea.
Lo sguardo di Matteo si oscurò e lui parve frenarsi a stento, sul punto di dire qualcosa di sgradevole. Lorenzo d’altra parte non si trattenne.
“Una donna che pianta suo marito per andare con un altro – commentò in tono sprezzante. – Bella roba!”
“Già, un vero peccato” osservò Marco gravemente e a lei si strinse il cuore, riflettendo amaramente sull’errore di giudizio che aveva commesso e a quanto, di nuovo, le sarebbe costato. Fino a quando lui proseguì in tono di ben altra leggerezza: “un vero peccato contro l’immoralità. Ah, non ci sono più quelle belle corna di una volta, quelle cui stavano appesi i destini della civiltà occidentale… Ma io l’ho sempre detto, il matrimonio affonda sulla morale… pardon volevo dire si fonda, naturalmente” e le strizzò l’occhio. “Che poi, piantare un marito… suvvia, ci sono semi molto più fertili, non è vero Filippo?”
Filippo sorrise, con una certa aria d’esagerata innocenza.
“Vuoi mettere il seme della discordia…?
Marco colse l’esca al volo.
“Il seme della discordia…? Non ti facevo così malizioso!”
Elisa ci mise un attimo prima di capire perché tutti avessero cominciato a sghignazzare apertamente, ma quando ci arrivò, il suo sorriso un po’ timido, imbarazzato, si allargò progressivamente fino a comprendere qualcosa di buffo e serissimo cui non avrebbe saputo dare un nome, ma che avrebbe posto quella giornata tra i punti fermi cui aggrapparsi sempre, in mezzo ai bizzarri capricci della memoria.

Quella sera Cristina la mise a perdere perché le raccontasse tutto.
– Dai, non farti pregare, raccontami un po’. Ce n’è qualcuno che ti è più simpatico degli altri, diciamo?
– Beh, a dire la verità…
– Ce n’è uno che ti fa il filo?
– Ce n’è uno, in effetti, che mi guarda in un certo modo…
– E com’è, come si chiama?
– Si chiama Matteo, è un bravo ragazzo molto serio, statura media, occhi castani, capelli castani, studia economia…
– Non mi sembri persa per lui. – Osservò Cristina.
– Non lo sono infatti. – Ribatté Elisa. E aggiunse: – Adesso però voglio dormire. Buonanotte.
Non si sentiva ancora pronta a parlarle di Andrea, e Cristina dovette accontentarsi di quello che aveva avuto, benché fosse tutt’altro che soddisfatta.
Per Elisa però non era facile dormire. Non voleva dormire, in realtà, voleva pensare ad Andrea. Era strano quello che provava pensando a lui, una sorta di contrazione allo stomaco che non avrebbe neppure saputo dire se era piacevole o spiacevole. I brividi che sentiva sulla schiena al pensiero delle sue mani la spaventavano, non le era mai successo e non sapeva bene cosa significassero. Le piacevano, le mani di Andrea, e non aveva mai notato questo particolare nei ragazzi. Si chiedeva come sarebbe stato se l’avesse toccata.
Quella notte fece un sogno. Era su un prato insieme con lui, tutto era tranquillo, in lontananza si vedeva lo sfondo violaceo delle colline avvolte dalla foschia. Poi, all’improvviso, comparvero dei cavalli, un branco di cavalli selvaggi che certamente provenivano dalla collina, lei lo sapeva, ma erano sembrati spuntare dal nulla. E adesso era venuto fuori un corso d’acqua che prima non c’era, e poi quasi tutti i cavalli erano scomparsi e ne erano rimasti solo due, e lei e Andrea erano lì a guardarli, ma nello stesso tempo Elisa sapeva che quei due cavalli erano loro. Correvano e si inseguivano nel fiume, avvicinandosi e sfiorandosi come se giocassero. Elisa sentiva, nel sogno, gli spruzzi dell’acqua sulla pelle, e poi ad un tratto il gioco smise di essere un gioco e lei si svegliò ansimante e spaventata dalla forza delle emozioni che le erano rimaste dentro. E allora comprese che era finito il tempo delle gomitate tra amiche quando passava il bello della scuola, delle risatine compiaciute quando qualcuno le guardava, degli ingenui tentativi di “farsi notare”, quando chiunque andava bene, bastava che fosse di sesso maschile. Allora è così essere innamorati, rifletté, e con questo pensiero si riaddormentò.

I genitori non sono più quelli di una volta

45 anni, un figlio di 15, un bel sorriso e un divorzio alle spalle. Queste erano le cose che ti saltavano agli occhi quando pensavi a Eleonora. Si potrebbe aggiungere, per i curiosi, che era commessa ai Grandi Magazzini Coin e amava le troffie al pesto, ma erano dettagli inessenziali, pennellate di colore a completare il quadro, diciamo.
Suo figlio Maurizio ogni tanto la faceva ammattire, come quando era uscita la prima volta con Fulvio, l’uomo che per adesso era ancora nella sua vita.
– Dove vai? – Le aveva chiesto con aria indifferente, vedendola uscire in gonna e camicetta discretamente sfiziose, catenina al collo e una scia di profumo. Impiccione.
Fulvio aveva fatto un po’ di confusione con degli acquisti, lei gli aveva risolto qualche minuscolo inconveniente, davvero niente di che, ma c’era stato un incontro di sguardi solitamente sfuggenti. In quegli occhi di uomo senza particolari attrattive lei aveva visto qualcosa. E lui forse anche. Banale così, proprio, ma anche le cose banali qualche volta funzionano. C’era da sperare che quella fosse una di quelle volte.
– Chi è questo Fulvio, sei sicura che ti puoi fidare? – Ancora Maurizio. – Senti, portati il cellulare, e semmai mi chiami che ti vengo a prendere, ok?
– Ehi, ma chi è il genitore qui? Non pensi che alla mia verde età dovrei sapermela cavare?
Sguardo beffardo. O geloso.
Ma poi, il giorno che con Fulvio avevano festeggiato il primo mese insieme, era tornata a casa e l’aveva trovata invasa dai fiori.
– Cazzo – aveva detto, ormai non sentiva più il bisogno di trattenersi davanti a quel figlio disinibito.
– Ma… sono tutti di Fulvio?
– No – le aveva risposto lui, piccato. – Sono miei. Non posso farti gli auguri?
Ma certo che sì. Solo perché le aveva fatto scenate di gelosia fino a mezz’ora prima che uscisse, non significava che non potesse farle gli auguri. Così come il fatto che si fosse tatuato un drago sul braccio e indossasse un’aria perennemente strafottente come se avesse fatto parte da sempre dell’abbigliamento quotidiano, non significava che non avesse i suoi momenti di tenerezza. E il fatto che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che farsi vedere a leggere un libro, non significava che non stesse di notte con la lucina accesa sotto le lenzuola. Almeno, c’era da crederlo, perché tutti quei libri che avrebbero dovuto essere nuovi e mai toccati, presentavano sospetti segni d’uso.
Eleonora ripensava a queste cose mentre, a duecento metri da casa, aspirava voluttuosamente la seconda sigaretta della giornata. Mica fumava tanto, mai più di due. Ma se l’avesse vista Maurizio…
Finì di fumare che mancavano ancora cento, centocinquanta metri. Masticò perfino una caramella alla menta. Tutto inutile, lui aveva antenne da radar.
– Ah ma’, sei vecchia, guarda che fumare non è più di moda, non lo fa più nessuno. Che vuoi, ammazzarti prima del tempo?
Arroganza a nascondere un segreto terrore.
– Cosa dovrei fare, secondo te, farmi uno spinello? Magari sei capace pure di dirmi che fa meno male delle sigarette.
– Può darsi – improvvisamente serio. – Ci sono studi che lo dicono.
Un pensiero improvviso.
– Non è che te li fai anche tu, gli spinelli?
– Ma no ma’, uno solo l’anno scorso, sennò quelli poi mi prendevano per il culo per il resto della vita.
Lei fu tentata di dargli un ceffone, lo scrutò, aveva la faccia innocente, forse stava dicendo la verità. Speriamo. Gli lanciò uno sguardo pieno di rabbia affettuosa, lo stesso modo in cui lui la guardava quando lei fumava. Forse si capivano più di quello che credevano.
– Ehi campione, invece che fare le ramanzine a tua madre, vedi di metterti un po’ a posto quello schifo di stanza. Ah e poi guarda che domani sera sono fuori a cena.
– Di nuovo fuori a cena? Non ti sembra di esagerare? E a che ora torni?
– Questi sono fattacci miei ragazzino.
– Ah – grugnì lui. Una smorfia, esasperazione subito stemperata in un mezzo sorrisetto. – Proprio così – fece, alzando gli occhi al cielo. – I genitori non sono più quelli di una volta.

Silverwing / Ali d’Argento

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Zitti zitti siamo arrivati al centesimo articolo… E per questo post vi propongo una delle letture più stravaganti ma piacevoli che mi sia capitato di fare quest’estate.

Si tratta di questa saga intitolata Silverwing, di Kenneth Oppel (Ed. Simon & Schuster). L’ho scoperta tramite un blog che per me è una miniera di idee, perché parla di letteratura per bambini e ragazzi, in inglese, ed essendo di taglio anglosassone, la competenza di chi se ne occupa non esclude (anzi, ha come conseguenza naturale) che se ne parli con passione e relativa semplicità, e in particolare senza nessun gergo da addetto ai lavori. Il blog si chiama “The Nerdy Book Club”, lo adoro anche per il nome e la grafica e lo trovate qui.

Perché parlavo di una saga “stravagante”?

Perché sono tre romanzi tutti incentrati sulla storia di un pipistrello.

Ed è evidente che l’autore ha molta simpatia per questi esserini solitamente poco amati e li ha studiati bene. Certo,sono “antropomorfizzati”, ma le differenze tra le varie specie, le sfumature, le abitudini, l’alimentazione, lo sforzo di rendere per iscritto il loro mondo in bianco e nero, denotano qualcosa di più del semplice intento di un qualunque romanzo di formazione per ragazzi (perché di questo si tratta, alla fine).

Non vi dirò moltissimo, anche perché la trama è meno importante, tutto sommato, della capacità di descrivere le emozioni, i timori e i desideri di un “giovane della specie” (pipistrellica o umana che sia). Dirò solo che nel primo romanzo, intitolato come la saga nel suo complesso Silverwing, il protagonista Shade, giovane e gracile cucciolo con “l’insano” desiderio di vedere il sole, resta indietro durante la migrazione e si trova ad affrontare vari pericoli e a conoscere molti personaggi, amici e nemici. Forse questo è il mio preferito, una bella storia di ricerca di libertà, soprattutto nel senso di imparare quando, e come, certe regole possono (e devono) essere trasgredite (e quando no).

Nel secondo, Sunwing, Shade va alla ricerca del padre e finisce in una sorta di paradiso artificiale creato dall’uomo, che forse poi così paradiso non è, e da cui è tutt’altro che facile andar via di propria volontà… e questa è solo la prima delle sue vicissitudini.

Nel terzo, Firewing, gli tocca andare addirittura fino agli inferi, alla ricerca del figlio.

Non credevo che fosse stato tradotto, non ne avevo mai sentito parlare, invece ho scoperto che esiste una versione italiana, Il fantastico volo di ali d’argento, traduzione di Maria Bastanzetti, Ed. Piemme, collana Il Battello a Vapore, illustrazioni (che nell’originale non ci sono) di Michelangelo Miani.

Provo giusto a tradurvi un breve dialogo all’inizio del libro (l’ho tradotto io, perché non ho la traduzione “ufficiale”, ma so che nella versione italiana il protagonista è chiamato Ombra):

“Sì, voi andate,” disse Ombra, sbadigliando con noncuranza. “Io darò appena un’occhiatina al sole.”

La loro reazione fu così soddisfacente, che dovette arricciare il naso per impedirsi di sorridere. Lo fissarono tutti in silenzio, il pelo tra gli occhi corrugato per lo sgomento,

“Di che parli?”, fece Chinook, beffardo.

“Non puoi guardare il sole,” disse Yara, scuotendo la testa.

“Beh, io voglio provarci.”

Era la prima cosa che veniva detta a tutti i cuccioli, e la più importante. C’erano altre regole – troppe, pensava Ombra – ma questa era tra tutte quella che ti inculcavano con più insistenza. Mai guardare il sole. Era semplice. Era indiscutibile.

“Diventerai cieco,” disse Jarod. “Ti brucerà le pupille fino a fartele uscire dalla testa.”

“E poi ti ridurrà in cenere,” aggiunse Osric, con un certo compiacimento.

Il Bosco – Capitolo 2 – II

II

   Una musica mai sentita veniva dallo studio di Fabrizio, una sorta di moto ondoso, l’avrebbe definito Elisa, cantato da una voce piuttosto acuta, stridula, un po’ sgraziata. Qualcosa però in quella voce la incuriosiva e comunque non riusciva a studiare. Non per colpa della musica, no. Era proprio concentrarsi su quegli argomenti del tutto astrusi che le era quasi impossibile in quel periodo. Ogni scusa era buona per distrarsi.

Bussò ed entrò senza troppe cerimonie, con Fabrizio non ce n’era mai stato bisogno.

“Cosa ascolti?”

“Un cantante americano, si chiama Bob Dylan. Ti piace?”.

“Non so se mi piace. Mi fa sentire come se fossi in una barca sul mare in tempesta. Esperienza interessante, ma un po’ inquietante, anche.

Fabrizio sorrise. “Non avrei saputo dirlo meglio. Da’ un’occhiata a questo”. Le porse un block notes rilegato in cuoio blu molto scuro, aperto su una pagina fitta di righe scritte con quella sua calligrafia particolare, lettere alte, un poco inclinate verso destra, con gambe sottili tanto che a un primo sguardo apparivano come lunghe zampe di ragni. Il titolo, al centro in cima al primo foglio era “Blowin’ in the Wind”. Lesse tutto, poi andò oltre, voltò una pagina dopo l’altra, mentre la voce continuava a cantare e non le appariva più sgraziata adesso, ma perfetta, perfetta per quella musica che era l’unica musica possibile per quelle parole.

Quante volte ancora il cannone dovrà sparare, prima che lo cancelliamo dalla faccia della terra? Quante volte un uomo dovrà guardare in alto, prima di poter vedere il cielo? Quante persone dovranno morire perché si sappia che ci sono state troppe morti? E quante volte può un uomo voltare la testa dall’altra parte, facendo semplicemente finta di non vedere? La risposta l’ha soffiata via il vento…

Ho visto un neonato circondato dai lupi selvaggi, e un’autostrada di diamanti che nessuno percorreva, ho visto un ramo nero di sangue che continuava a gocciolare, ho visto una stanza piena di uomini con i loro martelli sanguinanti, ho visto una scala bianca sommersa dall’acqua, e diecimila oratori tutti con la lingua spaccata, ho visto pistole e spade affilate nelle mani dei bambini. E’ una pioggia dura, quella che sta per cadere.

Siete voi a legare il caricatore, perché altri facciano fuoco, poi vi tirate indietro e state a guardare il conto dei morti che sale. Vi nascondete nelle vostre ville, mentre il sangue dei giovani scorre via ed è sepolto nel fango. Voi avete lanciato la paura peggiore che possa mai essere scagliata, la paura di mettere dei bambini in questo mondo. Per aver minacciato il mio bambino, non nato e senza nome, non valete il sangue che vi scorre nelle vene. … Lasciate che vi faccia una domanda, una sola: I vostri soldi valgono così tanto da comprarvi il perdono?

Alla fine alzò gli occhi. Non sapeva quanto tempo poteva essere passato, ma il disco aveva smesso di suonare, adesso. “E’ molto diverso da qualunque cosa abbia mai sentito prima – disse. – Parlano tutte di guerra, c’è dentro una durezza che sembra quasi cattiveria”.

“la guerra è cattiva”, disse Fabrizio.

Qualche volta Elisa ci aveva pensato alla guerra, ma mai troppo seriamente. Adesso però sentiva il bisogno di sapere qualcosa di più su quell’argomento cui Fabrizio aveva fatto solo rari accenni, con un pudore del tutto insolito per lui.

“Tu sei stato partigiano, vero? Mi piacerebbe che mi raccontassi qualcosa. Cioè, solo se ti va”, aggiunse, perché lo sguardo di Fabrizio era sembrato improvvisamente più stanco, persino più vecchio.

“No, hai ragione, è giusto parlarne, anche se è un periodo della mia vita a cui non torno volentieri”.

“Ma perché? Non ne sei orgoglioso?”

“Orgoglioso … immagino di esserlo, in una certa misura. Diciamo che essendo cresciuto come sono cresciuto, essendo quello che sono, non avrei potuto comportarmi diversamente.

Sono stato sulle montagne per due anni, dopo il ‘43, nelle brigate garibaldine. Avevo appena compiuto sedici anni, non avevo mai neanche tenuto un’arma in mano e di guerra non ne sapevo niente … non sapevo niente di niente, dovrei dire. A casa leggevamo ogni giorno la stampa ufficiale ma entrava anche quella clandestina. Sapevo del Manifesto della Razza  e sapevo di Matteotti, di Gramsci, dei fratelli Rosselli, ma a sedici anni comunque non è che del mondo ne capisci poi tanto”.

“Ehi!”, protestò Elisa. Fabrizio sorrise.

“E’ la verità, anche se quasi tutte le scelte che contano devi farle a quell’età, d’istinto, e probabilmente è un bene. Qualcosa dovevo pur fare, però una guerra… una guerra ti uccide anche se sopravvivi, da qualunque parte tu scelga di stare”.

“Però hai continuato a combattere”, disse piano Elisa.

“Qualche volta scegliere da che parte stare significa scegliere per che cosa vivere, o magari per che cosa morire. Puoi accorgerti che cose in cui credevi profondamente possono essere in una tale contraddizione che devi perdere un pezzo della tua coscienza per salvarne un altro.”

“Dicono che la violenza, la crudeltà, ci sono state da tutte e due le parti, che Piazzale Loreto è stato solo una vendetta sanguinaria”.

“I santi non fanno la guerra, Elisa, sono gli uomini comuni a farla. Non ho mai creduto nel ricambiare il male con il male, ma il tempo in cui siamo vissuti era crudele, e per alcuni lo è stato più che per altri. Non riesco a mettere sullo stesso piano la vendetta di poche persone esasperate dal dolore e gli eccidi sistematici, la tortura, i paesi bruciati, ma forse non è neppure questo il punto. Ognuno ha la sua storia e puoi sempre trovare un martire, se è quello che cerchi. Ma gli ideali degli uni e degli altri non mi sono indifferenti. Banditi, ci chiamavano, non solo i Tedeschi, anche gli Italiani che stavano dall’altra parte, perché avevamo tradito la Patria e l’Onore. Onore! Cosa conta di fronte a Dio l’onore di un soldato? L’eroe non è mai un soldato, tutt’al più è l’uomo che c’è dentro la sua divisa. Ancora adesso preferirei essere impiccato come disertore, piuttosto che dover giustificare una mia decisione con il dovere dell’obbedienza. Solo tu puoi sapere a che prezzo vuoi vendere la pelle e per quale ragione, e farmi ammazzare per la superiorità di una razza… non mi sembrava che valesse la pena”. Un breve sorriso, come a ridimensionare con l’ironia il reale peso di quelle parole.

“Ma … cioè tu … voglio dire è mai successo …” Elisa non riusciva a finire, ma Fabrizio completò la domanda per lei.

“Che io abbia ucciso qualcuno? Non lo so, Elisa. La mia benedizione è stata non saperlo. Si sparava, si metteva in conto di poter uccidere come di poter morire. Non ho mai dovuto uccidere un uomo guardandolo negli occhi, ma questo non ha poi tanta importanza. Tutti abbiamo sparato, indipendentemente da chi ha premuto materialmente il grilletto, tutti abbiamo ucciso, così come tutti noi avevamo degli amici che non sono tornati a casa. Era una cosa che sapevi e accettavi fin da subito”.

“Ma cos’era che vi faceva andare avanti, quando … non avevate mai la tentazione di lasciar perdere tutto?”

“Non credo, no. Forse dovrei parlare solo per me, ma credo che per tutti noi, in quella situazione così assurda, così fuori dall’ordinario, essere lì dove eravamo ci sembrasse l’unica cosa normale. Qualcuno aveva avuto un vicino di casa ebreo, un professore che aveva rinunciato all’impiego per non dover prendere la tessera, o magari un capo fabbricato che prendeva troppo sul serio il compito di controllare i coinquilini. Molti, semplicemente, non amavano le manifestazioni di piazza obbligatorie, il partito unico, il pensiero unico. E poi c’erano quelli a cui sembrava che bandito, ribelle o clandestino suonasse meglio che fulgido esempio di eroiche virtù.”

“E tu eri tra questi”.

Fabrizio sorrise di nuovo. “In effetti … mi sono sempre sentito più a mio agio come bandito e traditore che come colonna della società. Ti dirò una cosa, anche se probabilmente ti suonerò come un vecchio pomposo, ho sempre pensato che la vita valga molto più di una patria, o almeno, più di una Patria con la lettera maiuscola. Amo molte cose di questo Paese, altre meno, comunque ci vivo per scelta, avrei potuto andarmene se lo avessi voluto. Ma non morirei per i confini di una nazione. La mia patria, l’unica che ho cercato di difendere, è solo un luogo dell’immaginario”.

Elisa pensò che raramente aveva sentito qualcuno meno pomposo. Mentre lo ascoltava, le pareva che quel tempo che le era sembrato tanto lontano, quella guerra finita anni prima che lei nascesse, tornassero d’improvviso a ridiventare cose vive, la realtà di ragazzi come lo era lei, persone che lei conosceva costrette a scegliere, per dirlo con le parole di Fabrizio, per che cosa vivere e per che cosa morire, persino a dover scegliere tra i loro stessi principi  e ideali, a stabilire quale valeva di più e quale di meno, perché accadeva che per mantenerne vivo uno, un altro dovesse essere sacrificato.

“Mi dispiace, Fabrizio, c’erano un sacco di cose che non avevo capito.”

“Ci sono un sacco di cose che io non ho capito ancora adesso.”

“No, voglio dire, quando sentivo parlare della Resistenza, mi sembrava una cosa un po’… un po’ ammuffita, ecco. La pagina più luminosa della nostra storia, le commemorazioni e tutto il resto. Sapevo così poco delle persone che c’erano dietro tutto questo.”

“Ah, le commemorazioni … di solito si commemorano le cose morte, e io trovo che la Resistenza non sia ancora abbastanza morta per questo.”

“Vuoi dire che il fascismo c’è ancora?”

“Voglio dire che i partigiani erano pochi, erano molti di più quelli che avevano appoggiato il regime per convinzione, per comodità o per paura, e qualcuno di quelli che celebrano il caro estinto forse lo avrebbe volentieri strangolato in vita. Quelli che a suo tempo chiudevano tutti e due gli occhi, e da un giorno all’altro sono diventati i cavalieri della libertà e della democrazia; quelli che pensano di avere una nobile giustificazione per tutto quello che fanno, sia fare affari con la borsa nera, farsi raccomandare per accaparrarsi un lavoro o evadere le tasse, e però poi pretendono punizioni esemplari per chi non rientra nei ristretti binari della loro idea di rispettabilità; quelli che credono sempre che il motivo unico delle azioni umane sia l’interesse personale, e non capiscono che si possa credere in qualcosa, perché attribuiscono a tutti gli altri la propria debolezza morale. E’ lì che si annida il rischio dei fascismi, quando ci si rifugia nell’angolino tranquillo delle proprie certezze e non  si vuole saper nulla della molteplicità del mondo.

C’è tanto bisogno di sentirsi uguali agli altri, che sono ancora in molti ad applaudire quando l’anticonformismo viene punito e questo mi rattrista molto. Non siamo ancora abbastanza affezionati alla nostra libertà.”

Elisa pensò a Diletta, a Stefano, a Nicola. Nessuno di loro sembrava disposto a faticare più di tanto per prendersi quella libertà che davano ormai così tanto per scontata da non accorgersi neppure quando gli sfuggiva da sotto il naso, e per loro stessa mano.

“Ma che cosa potrei fare io? Cosa vorrebbe dire per me, oggi, essere libera?”

“Tu non puoi ricordartelo, ma ancora solo sei anni fa, nel ’60, volevano fare il governo Tambroni coi missini e avevano deciso di fare una manifestazione proprio qui a Genova. Doveva esserci anche Basile. Noi ce lo ricordavamo benissimo l’ex prefetto Basile, uno che collaborava volentieri con i tedeschi, uno che ha sulla coscienza anche molti deportati nei campi di concentramento. E Genova era città medaglia d’oro della Resistenza, li avevamo fatti arrendere noi i Tedeschi, prima ancora che arrivassero gli Alleati.”

“Era una provocazione, allora?”

“Credo che fosse precisamente quello. Una specie di sfida, vediamo adesso questi che fanno. Forse pensavano che ormai fossimo addomesticati abbastanza, invece il 30 giugno un fiume di gente uscì di casa per andare a protestare, c’erano un sacco di ragazzi, li chiamavano le magliette a strisce, perché avevano tutti le magliette così, era la moda. Ma a De Ferrari c’ero anch’io anche se non avevo la maglietta a strisce e non avevo vent’anni ma quasi quindici di più. Non so se quei ragazzi capissero il legame che c’era, però eravamo insieme in quella piazza, e questo voleva dire che alla fine le cose che volevamo e quelle a cui ci ribellavamo erano le stesse.

Per essere libera non devi avere paura di perderti. Anzi, devi perderti negli altri ogni volta, nella loro faccia e nel loro cuore, come se fossero i tuoi. La paura di perdere se stessi è un muro, e dietro quel muro i dittatori costruiscono la loro casa. Se hai paura di perderti basta un nulla per sentirti minacciato. Dimenticare quella paura è l’unico modo che hai per poter davvero costruire te stessa in relazione al mondo. E dopo sarebbe molto più difficile farti credere che il mondo sia qualcosa da cui difenderti, a costo di un pezzo, anche piccolo, della tua libertà.”

“Ma in politica, tra i partiti, c’è qualcuno che difenda la libertà? Tra un po’ dovrò votare, ma mi sento così confusa.”

“E’ una domanda difficile. Né in America né in Russia ho mai saputo vedere il mio paradiso in terra, e neanche il mio inferno, se è per questo. In realtà mi sembra che in politica ci sia un eccesso di paradisi e di inferni. E come puoi ben immaginare, i miei valori sono abbastanza lontani da Dio, Stalin, Patria e Famiglia fondata sul Santo Matrimonio.”

L’abituale sorriso monellesco ricomparve, ma questa volta Elisa intravide quello che c’era dietro, quella punta di amarezza – solo una punta, perché non si sarebbe sicuramente potuto pensare a Fabrizio come a un uomo consumato dall’amarezza – per aver visto sgretolarsi il sogno di un paese davvero nuovo, davvero diverso, percorso da un sogno comune in tutti i suoi strati e i suoi frammentati territori.

“Però di partiti ce ne sono tanti”, obiettò.

“Sì, ma alla fine tutti devono cercarsi il loro angoletto di paradiso, scegliere con chi stare e vedere dall’altra parte null’altro che il Male con la M maiuscola. Mentre io credo che dovremmo lavorarci la nostra terra come terra, un luogo piccolo e bellissimo, abitato da innumerevoli esseri più o meno pensanti, ognuno dei quali contiene in sé una quantità sufficiente di inferno e paradiso, tanto che invece che cercare negli altri le parti celesti o sotterranee, basterebbero semplicemente quelle umane. Intendiamoci, io vado a votare, credo di essermelo guadagnato, ma se vuoi trovare il posto in cui ti senti più a casa dovrai cercarlo da te. L’unico consiglio che mi sento di darti è questo: non rinunciare a volare, ma vola rasente a terra, senza cercare di arrivare al cielo, perché dal cielo tutto il resto sembra sempre troppo basso.”

Il Bosco – Parte Prima – Capitolo 2 – I

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Capitolo 2 (1967-1969)

I

Mezzogiorno era passato da un pezzo. Il portone del venerabile edificio che ospitava il liceo si aprì e la pigra, azzurra quiete di quella tersa giornata di tarda primavera venne rotta bruscamente da uno sciame di ragazzini in uscita, che manifestavano correndo e urlando la gioia di essere infine liberi dagli obblighi dell’ordine e della disciplina.

Anche Elisa correva con gli altri, urlava con gli altri, gioiva della stessa libertà degli altri, o forse di una libertà che non era propriamente la stessa di quella degli altri, o almeno non sempre. Chissà se succedeva anche a loro di celare dietro quell’urlo apparentemente vitale la sensazione di sentirsi staccati da tutto e da tutti, come a guardare da una vetrina qualcosa apparentemente a portata di mano, ma impossibile da toccare. Se capitava a tutti quanti di essere ossessionati dalla propria fragilità e dal senso – o non senso – del mondo.

Vide una delle sue compagne precipitarsi ad accendere una sigaretta con l’aria di aver anelato solo a quel momento per tutta la mattina e dirigersi verso un gruppetto di ragazzi che chiacchieravano. Dimenticò le proprie inquiete riflessioni e la raggiunse. I maschi erano piuttosto interessanti, in genere. Non per il loro fascino erotico, che non avevano proprio, ma per i loro discorsi, per il modo che avevano di sfiorare la politica come se fosse un argomento avventuroso. Qualche frase lanciata qua e là ad arte come un’esca in una sorta di sussurro clandestino, stando ben attenti a farsi vedere senza farsi sentire, trasudando mistero e aria d’importanza, consapevoli che più ancora del sesso quelli erano i veri frutti proibiti, e che se alle ragazze quasi mai interessava affatto il soggetto delle loro discussioni, erano però attratte come api al miele dalle loro pose da ribelli ma non troppo, figli di buona famiglia in giacca e cravatta, appena un po’ scapestrati ma pronti a rimettersi in carreggiata non appena la faccenda rischiasse di farsi troppo seria. Ma quanto a lei, era proprio il soggetto che la interessava.

“… dovrebbero ritirarsi dal Vietnam”, stava dicendo uno di loro, “la più grande democrazia d’occidente e un pugno di rossi morti di fame gli stanno facendo mangiare la polvere. Niccolò, cosa ne dice tuo padre? Lui che è nell’esercito come la vede la situazione?”

“Mica ci parlo con mio padre, io, di queste cose, Sté. Mi sa che se fosse per lui, cancellerebbe direttamente il Vietnam dalla carta geografica.

“Secondo me l’America ha sbagliato fin dall’inizio. Perché uno dovrebbe andare in un altro Paese e dirgli o fai quello che ti dico io, o ti dichiaro guerra?” disse Elisa.

“E tu cosa vorresti, ritrovarti i comunisti vicino a casa? – ribatté Niccolò. – Magari il Vietnam sarà pure lontano, ma è strategicamente importante. Ci sono i Russi che armano i Vietcong. E i gialli pure, i Cinesi, sai, sono anche peggio. Fa bene Franco in Spagna, pugno di ferro e niente grilli per la testa.”.

“Sì, però… – Stefano esitò, quasi non osasse esprimere un pur blando dissenso, ma si decise a proseguire. – Insomma, ho letto che in Spagna la polizia è stata molto dura con gli studenti, ragazzi come noi, in Italia persino un giornale monarchico ha criticato gli eccessi. Cioè io non so se …”

“Quindi tu daresti ragione gli studenti – disse NJiccolò, in tono critico. Poi alzò le spalle: – comunque voglio dire, se uno non vuole guai non ci va alle manifestazioni, punto. No?”

“Io non so dove lo trovate il tempo di occuparvi di questa roba. Che c’importa di tutti ‘sti paesi che manco sappiamo dove stanno. Io non ci capisco niente e non m’interessa proprio. – intervenne Diletta con aria scocciata.

“Ognuno ha il suo modo di occupare il tempo” osservò Elisa. Non aveva nessun intento polemico, o forse sì. Per la prima volta voleva capire esattamente da che parte stare, o forse, invece, aveva solo atteso l’occasione di una piccola vendetta meschina.

“Io con quelle come te non ci parlo – sputò Diletta.  – Chi ti credi di essere? Tu non sei nessuno. Nessuno, capisci? Quello che devi fare è solo stare zitta, nasconderti e farti notare il meno possibile. Non sai che i tuoi non possono neanche farsi vedere in chiesa, perché li caccerebbero fuori come si meritano? Dovresti vergognarti!”

Ancora e sempre la stessa storia, dal giorno in cui Fabrizio era entrato per la prima volta nelle loro vite. Da allora erano passati quattro anni, la bambina era diventata una ragazzina di quasi quindici anni, quel settembre aveva cominciato il secondo anno al ginnasio e la tiritera era sempre quella. Elisa si sentì soffocare, non solo e non tanto da quella frase, ma da quella vita che le avevano cucito addosso. C’era sempre una parte da sacrificare. Difendere la sua famiglia strana, rinunciando alla parte di sé che voleva essere del tutto normale, oppure rinunciare agli affetti per le amicizie, diciamo forse per dei simulacri di amicizia. Pensò alle parole di Fabrizio. Ragione, torto, il punto non era quello. Il punto era un Dio libero, un Dio che non aveva inferno. Forse c’era un’altra strada. Pensò, per la prima volta in vita sua, che avrebbe dovuto essere, che poteva farcela ad essere, semplicemente tranquilla.

“Dovrei vergognarmi? E per cosa? Ti invidio, sai, se Dio ti ha scelta come confidente, magari quello che vuole lo sai persino meglio di Lui. Dovrei vergognarmi per chi? Per te che ti senti una ribelle perché dai due boccate a una sigaretta e poi sei così bacchettona che neanche il mio trisnonno? Io non lo so se a Dio piace mia madre e se gli piace Fabrizio, Lui a me non lo ha mai detto, purtroppo. Però a me piacciono. Preferisco mille volte mia madre separata e Fabrizio che si limita a darci affetto senza chiedersi se sia giusto o no, a certa gente bigotta che vive la religione come un modo per condannare, invece che per avvicinarsi a capire, e ragiona soltanto con le idee degli altri, stando ben attenta a non fare mai un pensiero con la testa sua”.

Poi le voltò le spalle per tornare in classe, mentre suonava la campanella per la ripresa delle lezioni, non senza notare con la coda dell’occhio le bocche spalancate dei suoi tre compagni. Piccola ma significativa soddisfazione.

Le tornò alla mente l’estate di tre anni prima, l’estate in cui era nato Raffaele. Ricordava sua madre sul letto della clinica, circondata di fiori, che teneva tra le braccia l’essere umano più piccolo che avesse mai visto. Lo aveva visto muoversi, e aveva pensato a un pesciolino che si fosse allontanato per la prima volta dal suo nido (avevano un nido, i pesci?) e si trovasse in un ambiente sconosciuto, diviso tra la curiosità e la preoccupazione.

Ricordava Fabrizio frastornato, stregato, rapito, ogni padronanza di sé spazzata via da una felicità assoluta, e l’’ondata di affetto che aveva provato per lui e che non si era più spenta.

Le allusioni, le cattiverie, l’avevano ferita per tanto tempo perché era lei a vergognarsi senza nessuna ragione. Non si sarebbe vergognata mai più. Quella era la sua famiglia, e se avesse potuto scegliere le persone che ne facevano parte, le avrebbe volute esattamente com’erano.