E così, avresti settant’anni. Sì, certo che lo so che il tuo compleanno era l’altro ieri, ma sai, per quanto normalmente cerchi di essere puntuale, questo non è certo il mio primo ritardo, né il più grave, nei tuoi confronti. Avrei dovuto venire a incontrarti prima, e non dopo. Avrei dovuto sapere prima che quelle parole che dicevo non erano uno scherzo. Io mi sentivo molto come Mork, sai, goffa, sempre inadeguata, fuori posto come un piolo rotondo in un foro quadrato. Che Mork sapesse guardare il mondo con l’intelligenza tanto acuta quanto generosa di chi le realtà più crudeli del mondo le conosce benissimo, ma sceglie l’innocenza per mostrarre il lato comico, assurdo, ma anche umanissimo delle nostre scelte quotidiane, beh, anche questo l’ho capito (un po’) più tardi. Ma io volevo trovare, come lui, il modo di essere allo stesso tempo fuori e completamente dentro. Volevo volare come Garp, possedere la dolcezza e il coraggio di Adrian Cronauer, e naturalmente, certo, cambiare il mondo insegnando come John Keating, ma sai, non è che veramente volessi insegnare, è che anche quella era una forma di volo, come l’uovo di Mork (e il suo piccolo amico Bruco), come il deltaplano di Garp, come la polvere di fata di Peter Pan, come quell’amore così grande e così fuori dall’ordinario che era in John e in Adrian, ma anche, che so, nella satirica “guerra” di Jack Moniker o di Jakob il Bugiardo; e anche in Volodya, che volava con il suo sassofono in Armand Goldman; in Chris Nielsen, naturalmente; e in Malcolm Sayer, che volava con la sua testardaggine; era nella rabbia di Henry Altmann, che come te ha deciso di non avere tomba, e nell’affetto sempre un po’ sbagliato del Papà migliore del mondo. Era nei tuoi spettacoli studiatissimi, eppure un po’ reinventati ogni volta, perché tu eri. Il volo e l’amore e tutto il resto. Ed era, continuo a pensarlo, in quella scelta estrema, che era estrema solo per gli altri, non per te, perché tu il tuo anticonformismo lo hai sempre vissuto quasi sottovoce, con umiltà e con quel cuore grandissimo che nessuno dimentica. Ed è un altro volo anche questo, mi piace sperare che non sia comunque l’ultimo, che tu continui, da qualche pianeta chissà dove, a esplorare mondi, a viverli raccontandoli e raccontarli vivendoli. Anche quella biografia bellissima, così bella che dopo sette anni non sono ancora riuscita a finire di leggerla, avrei voluto scriverla io, ma non ero lì, non c’ero, sono arrivata tardi, faccio altro, e comunque vivo, che era quello che tu dicevi di fare, dopotutto. Però, ecco, a un certo momento avevo “dovuto” scrivere, e tu eri nella mia scrittura, e adesso non scrivo quasi più, e so che sei anche nel mio non scrivere, sei il senso e la mancanza di senso, la rabbia e l’allegria e la malinconia e l’immensa dolcezza e questa ferita che non è una ferita, è una voragine, ed è incomprensibile, ma non vuole saperne lo stesso di chiudersi. Ma niente, ogni tanto provo a spiegare le ali, così, sai, giusto per fare un po’ di esercizio. Comunque, camminare nel tuo giardino è davvero un privilegio. Solo che qualche volta, quando le finestre sono chiuse, eppure un soffio leggero viene da chissà dove, penso che tu sei l’unico che possa venir fuori persino dal fondo dell’oceano, e ricominciare a volare.
amore
Forse
Ecco le mie reazioni ancora eccessive, troppo pianto, troppo dolore, rabbia, anche, e tutta quella mancanza, tutta quella mancanza… questo buco che non si riempie mai, perché dopotutto è fatto della stessa materia di cui sono fatta io. Le stesse cellule, lo stesso miscuglio incasinato di ricerca di qualcosa di stabile a cui aggrapparmi e ricerca dell’instabilità come modo di leggere sempre il quotidiano in modo diverso. Forse, se non mi fosse arrivato qualcosa di così simbolico, suggello di un legame esattamente il giorno in cui. Forse, se non avessi aperto proprio quel giornale oggi che è il primo giorno dell’anno e volevo di nuovo ricordare, dopo essermi ripetuta mille volte che era inutile. Forse, se non avessi questa idea balzana dell’indispensabilità dell’inutile. Il fatto è che sei ancora un pezzo della mia mano, della mia caviglia, una qualche parte ribelle del mio stomaco che si ricorda anche quando non ci credo. E allora vorrei dirti che eri sempre tu, sei stato sempre tu, sempre, ma poi penso che forse è solo il mio cuore che batte da solo, e io non lo sento, ma soprattutto, tu non lo senti. Però, finché sei in qualche punto ribelle di me, posso ancora toccarti col pensiero, e sentirne il calore.
Il mio lato pop: Supernatural
Era da un po’ che volevo scrivere di Supernatural, una serie TV che ho iniziato a guardare poco più di un mese fa, in origine perché piaceva – e piace – moltissimo a mio figlio minore. Non sono mai stata una fan del genere horror, anzi, normalmente lo detesto. Eppure, mi ha catturata quasi dall’inizio. Non è stato propriamente amore a prima vista, ma dopo i primi tre o quattro episodi ero a tutti gli effetti stregata (termine appropriato, visto l’argomento). Di certo, le persone coinvolte (attori, sceneggiatori, registi e tutti gli altri) non si prendono mai troppo sul serio, le situazioni e i dialoghi sono spesso comicamente sopra le righe, se non del tutto folli, e nonostante questo io mi ritrovo costantemente senza fiato per la suspense. Insomma, sono davvero bravi.
Naturalmente, sono innamorata di Jared Padalecki e del suo personaggio Sam Winchester, e chi non lo sarebbe? E’ un uomo di rara forza morale, dolce, coraggioso, gentile, attento, un accanito lettore (un nerd, potremmo definirlo, trasuda letteralmente curiosità intellettuale), un po’ narciso ma tendenzialmente altruista e – non ci sarebbe bisogno di dirlo – incredibilmente bello. Soprattutto, è uno che considera tutte le ragioni del caso, senza scagliarsi a spada tratta, o piuttosto precipitarsi ad armi spianate, qualunque cosa succeda e senza curarsi delle conseguenze. Fa degli errori, ci mancherebbe, anche madornali; e nel tempo, è morto e andato all’inferno (letteralmente, intendo) un mucchio di volte, nel tentativo di sistemare le cose e aiutare gli altri. Da lì, è stato sempre salvato dal fratello maggiore ho-il-mondo-tutto-sulle-mie-spalle Dean, bravo ragazzo e tutto, protettivo e generoso, ma un po’ troppo tirannico con suo fratello, convinto di avere sempre ragione, costantemente arrabbiato, macho-ma-sensibile, sciupafemmine e incapace di restare da solo. Succede anche il contrario, vale a dire, Sam ha salvato il posteriore di Dean un gran numero di volte, ma senza vantarsi della cosa fino a rendersi insopportabile.
Comunque, il personaggio a cui mi sono affezionata di più, nel corso delle otto o nove stagioni in cui è apparso, è Crowley, il re dell’Inferno (Mark Sheppard). Se Lucifero è l’Antagonista con la A maiuscola, Crowley è sempre un po’ di qua e un po’ di là, e questo mi piace, essendo io sempre molto favorevole alle vie di mezzo e alle zone grigie. Credo sia la sua totale mancanza di interesse verso la bontà e il senso morale, unita al meraviglioso humour britannico, a una buona dose di ironia e all’evidente (sebbene sempre ostinatamente negato) affetto per i Winchester a renderlo adorabile. Mi è piaciuto un sacco un episodio in cui a un certo punto lui tira fuori il cellulare mentre qualcuno sta chiamando, e si capisce che i numeri della rubrica sono divisi tra “Moose” (letteralmente Alce, tradotto in italiano un po’ debolmente come “Testone“, vale a dire Sam) e “Not Moose” (non testone, in pratica quasi solo Dean, alias squirrel, lo Scoiattolo, in italiano Testacalda). Si tratta forse della prima volta in cui Crowley rivela i suoi veri sentimenti nei confronti dei “ragazzi”. La sua malvagità beffarda (a volte, specie nei primi episodi, quasi sprezzante) e quei curiosi rapporti di amicizia/odio tra lui, sua madre Rowena, l’angelo Castiel, Lucifero e i ragazzi sono tra gli aspetti più gustosi e in generale tra le cose migliori della serie. SPOILER ALERT A quanto pare, non sarà presente nelle ultime due stagioni (ancora non arrivate in Italia, l’ultima dovrebbe essere ancora in corso di lavorazione). Spero che chi ha deciso di eliminare il personaggio definitivamente cambi idea: sarebbe davvero un peccato.
Poi c’è il Castiel di Misha Collins, angelo e Dio, senzatetto disperato e guerriero, idiota dalle buone intenzioni e leader straordinariamente capace, affettuoso protettore dell’umanità e killer glaciale, passa da una personalità all’altra fino a sperimentare, in pratica, tutte quelle possibili, sempre apparentemente imperturbabile, capace di dire le cose più surreali senza fare una piega, eppure sempre esprimendo moltissimo con un indefinibile linguaggio non verbale che rivela più di qualunque parolao espressione facciale.
E che dire della deliziosamente orrida, incantevolmente odiosa Rowena (Ruth Connell)? Che dire di Meg, Ruby, Sarah, Eileen, Hannah, Jody, e tutte quelle donne-demone, donne-donne, donne-angelo, cacciatrici e streghe, dalla volontà d’acciaio, estremamente sicure di sé o piene di dubbi e insicurezze (e talvolta entrambe le cose), piene d’amore e umanità o esecrabili (anche qui, spesso entrambe le cose, nello stesso momento o nel corso del tempo), che hanno amato, odiato, tradito, combattuto e vissuto e sono morte (anche loro, in molti casi, più di una volta) per gli altri o per sé stesse nel corso delle quindici stagioni della serie?
Insomma, cos’è che rende questo programma così speciale, almeno per me? In primo luogo, il fatto che l’horror non è affatto l’aspetto principale. Voglio dire, sono sicura che anche i fan dello splatter possano trovare qui pane per i loro denti. Ma personalmente, quello che mi affascina, specialmente in questo particolare momento, e a parte tutta la follia e lo humour e quella testarda, commovente speranza di cui trabocca, sono le domande che pone; domande universali dell’umanità, onnipresenti e non particolarmente originali, forse: vita, sopravvivenza, libertà e sicurezza, giustizia e vendetta, bene e male, coraggio e incoscienza, senso di responsabilità e senso di colpa, amore, perdita e bisogno – non sano – di qualcuno, scelte terribili fatte “in nome di un bene più grande” e scelte giuste fatte nel proprio interesse. Quali sono i confini? Sento l’esigenza di ridisegnarli, di lavorare su queste idee e ridefinirle in qualche misura, e mi sono ritrovata a far tesoro di questo buon vecchio modo di riflettere grazie a una storia che mi coinvolge, e in cui posso immergermi completamente, anche per tenere la testa tra le nuvole per un po’, che serve sempre.
So che ci sono dei punti deboli (in primo luogo, un po’ tanta propaganda pro-USA e pro-armi, temo), ma l’ho amata e la amo incondizionatamente, punti di forza e punti deboli e tutto quanto e quindi, alla fine dei conti, va benissimo così.
Effimero
Sto pensando al mio amato Oscar Wilde, all’apparente superficialità che nasconde una visione profonda, al senso morale contrapposto al moralismo, all’eccesso e all’eccentrico che diventano chiave di lettura di una realtà sfuggente, mostrando l’ovvio che altrimenti rischiamo di non vedere più.
In questo momento sento di nuovo fortemente, dopo momenti di sconforto, la pienezza della vita, che si colma di amore per la conoscenza, per l’arte (in senso lato), per la bellezza, e da qui trae linfa per amare gli abitanti del mio piccolo mondo e nei limiti di quanto ci è concesso, quelli del mondo più grande. So che in questi giorni tutti dispensano consigli “sentendosi come Gesù nel tempio”, con quel che segue. Io vorrei solo dire, e temo che anche questo sia banale, ma per me è importante: non lasciamoci spegnere; perché è quando siamo spenti che sentiamo più forte il bisogno di colpevolizzare qualcuno o di lasciarci colpevolizzare. Che è molto diverso dal prenderci le nostre responsabilità – e costringere gli altri a prendersi le proprie. Non lasciamoci fuorviare dai capri espiatori, non lasciamo spegnere il nostro cuore, il nostro pensiero, la nostra capacità di capire, di metterci nei panni, di continuare ininterrottamente a farci domande, di non prendere niente per scontato.
L’emergenza finirà, e sarà per il dopo che ci servirà unirci, resistere, ricostruire insieme. Insieme non perché siamo tutti uguali, ma perché siamo tutti diversi, e ognuno ha le sue fragilità e debolezze e i suoi punti di forza, il suo pezzettino di talento, di ragione, di oscurità e di luce, di paura e di coraggio, la sua storia e la sua strada. Da soli siamo troppo poco; insieme siamo moltissimo. Non tutto, mai tutto, ma moltissimo.
GEOGRAFIA DOMESTICA
La coltre tiepida nasconde la ferita,
cicatrizza lo sguardo ammutolito,
vagante da una parete all’altra.
Io ci parlo, vedi, con i muri,
i quadri appesi, lo specchio che riflette
sulla forma e sul senso delle cose,
sulla loro posizione nella stanza.
Parlo con le finestre, con la loro visione
del cielo e delle finestre di fronte;
col loro angolo di ringhiera, il vaso
che guardano di sbieco, da quella
inquadratura in soggettiva che mostra
al mondo il campo visivo di una finestra.
Parlo con la lampada, dopotutto
mi somiglia, dà il suo meglio quando
fuori è buio, come i rapaci notturni,
come gli occhi dei gatti o le increspature
dei fiumi alla luce della luna.
Parlo con i libri, quello, sai, l’ho
sempre fatto, prima che tu m’insegnassi
che i libri risplendono
e rispondono, con
una voce che somiglia, sì, a quella
di chi legge, ma non è la stessa, e va
ascoltata attentamente, più volte e
in solitudine, fino a rinascere daccapo.
Parlo con il letto, e mi sorride, con
le giunchiglie sul lenzuolo, in
questa primavera prigioniera; parlo
con l’armadio semiaperto, bocca socchiusa,
uno sguardo indulgente sulla penombra dei vestiti.
Parlo con me stessa, più di tutto:
col rincorrersi di pensieri amari e altri
più dolci, con le parole dei fogli
che s’accatastano in un disordine testardo;
con la penna, ch’è una spada, e con te,
la mia lingua ribelle:
perché
se non la vita,
l’anima, almeno,
bisogna pur salvarsela,
in qualche modo.
Ricominciare a scrivere
è una priorità.
Stasera mi è tornata la voglia di scrivere di te. Mi suona strano tornare a rivolgermi direttamente a te, come facevo ormai un bel po’ di tempo fa. L’ho fatto per anni, e poi per un pezzo ho smesso, e ogni tanto riprendo, ma non è più così naturale, quasi inevitabile, come mi sembrava allora.
Non vorrei perdere niente, pensavo stasera, né cose né persone, ma le cose si perdono comunque, e poi la mia distrazione è proverbiale. Anche le persone, qualche volta, si perdono.
Non pensavo a te, ché a te non ti ho mai avuto, ma non ti ho mai nemmeno perso, e non intendo certo farlo adesso. A te, non ti perderò mai, niente può cambiare questo fatto. Nel tempo in cui non ti ho scritto, non ho certo smesso di pensarti. Ti ho solo pensato in un altro modo, facendo altre cose, ricordandoti attraverso la costruzione di altre memorie.
Pensavo, invece, alle persone incontrate ed entrate poi, per poco o per tanto tempo, nella mia vita, conoscenze, amicizie, simpatie, persone con cui ho avvertito un’affinità. Persone con cui a volte sono entrata in intimità, e non parlo tanto di amore, quanto di confidenza, di uno scambio di segreti anche minuscoli, ma importanti. E con le quali adesso non ci si sente più, per tante ragioni.
E allora sai cosa pensavo, che in te, in quella strana distanza-vicinanza, in quel non averti avuto e non averti mai perso, ci sono tutte quelle cose e persone mai dimenticate, tutto quello che è stato detto e ascoltato, tutto quell’amore che c’è e che non posso dare a nessun altro, perché può appartenere solo ai protagonisti di quei ricordi perduti e a te, che non sei memoria né presenza, ma che non ho mai potuto fare a meno di amare.
Che non ho mai voluto fare a meno di amare.
R.A.P. (Ricordi a Perdere)
E quindi io sarei quella che ha capito
che indossa un abito che non fa il monaco:
il destino poi mica lo vedi dal vestito,
semmai da quello sguardo strabico,
da quel magnifico paragrafo retorico…
Ho creduto davvero di poter vedere,
io che senza occhiali non so neanche camminare;
ho creduto di poter sapere,
io che senza i libri non saprei neanche parlare.
Dalle ginocchia il latte mi è sceso alle caviglie
ma per tanti ancora sono Alice
persa nel Paese delle Meraviglie;
c’è chi ancora adesso dice
che più che la testa nelle nuvole, semmai
le nuvole io le ho sempre avute nella testa,
ma io ricordo, sai:
la memoria serve anche se non basta.
La paura, quelle volte, attraversava i muri
le stelle imparavano un alfabeto di fortuna
ma non lo ha mai capito chi guardava da fuori,
convinto che io cercassi il pozzo nella luna:
hanno sempre creduto a chi mentiva meglio,
ma non fa mica meno male se ti sparano per sbaglio.
Io ululavo come i lupi, nascosta nella tana
lui mi strappava a pezzi anche solo con la voce,
mi chiamava stupida, per non dire puttana
l’ingiuria non detta è sempre quella più feroce,
gli occhi più delle mani ti spaccano la bocca
quando gli altri ti guardano pensando ‘non mi tocca’.
Non sono vittima
ma non dimentico
non mi vendico, non mi sacrifico,
è la pietà la mia rivincita,
la calma olimpica
del mio respiro ancora molto vivo:
e in fondo è solo questa la ragione per cui scrivo.
–
Il mio silenzio selvaggio stava in bilico
sul ciglio dell’abisso
è tuo da quella sera
che ho incominciato a crederti
quando il mio silenzio l’hai sentito
in mezzo ad altri
scroscianti, striscianti, laceranti
in quelle sere, anima nobile,
hai vegliato
quel poco di umano che restava
e il muro
piano piano
forse
ha iniziato a –
Né l’inizio, né la fine
Questa è la versione italiana del racconto che ho scritto in inglese qui. L’ho immaginato, sognato, sentito in inglese. E poi tradotto. E questa è la canzone che potrebbe accompagnarlo.
Aveva vomitato già tre volte quella sera, e lo fece ancora e ancora, l’ultima volta sulle scale che conducevano all’appartamento di lei, mentre lo trascinava dentro, il corpo scosso dai crampi e dalla nausea, come sommerso da ondate di dolore, o da un oceano di disperazione.
Ho freddo, disse.
Lo so, rispose lei.
Un freddo tremendo, gemette lui. Sto gelando, cazzo.
Lo so, disse lei.
No che non lo sai. Come puoi saperlo? Non sai niente di me.
So parecchie cose, di te.
Era stato di volta in volta giudicato l’uomo più onesto del mondo o un bugiardo matricolato, intelligentissimo o stupido come una scimmia, un amante meravigliosamente appassionato o un pezzo di ghiaccio, timido come uno scoiattolo e triste come il mare d’inverno, o un uragano di parole e allegria. Ma alla fine, era sempre la questione di come gli altri lo vedevano. E lei diceva di sapere qualcosa di lui. Sapeva parecchie cose di lui, così aveva detto. Era la verità? Avrebbe dovuto fidarsi di lei? Di una cosa era certo, che non poteva fidarsi di sé stesso. Si sentì stranamente più forte, perché… sì, perché stava riconoscendo di aver bisogno di aiuto. Era stato in una guerra. Non una guerra in senso stretto, naturalmente. Niente a che fare con armi di distruzione di massa, niente morti o ferite evidenti, incendi e urla di angoscia e terrore. Una guerra più silenziosa, ma non per questo meno mortale. Com’era lui, in realtà? Era felice? Certo che no, altrimenti non si sarebbe trovato in quella stanza, in quel letto, in quel momento e quel luogo. Era tutto sbagliato. Comunque, non era nemmeno infelice. Non era questa la ragione. Com’era, in realtà? Era, e basta.
Sono un relitto umano, disse. Solo un cazzo di relitto. Pronunciò le parole lentamente, quasi assaporandole, in uno strano miscuglio di vittimismo, orgoglio, sferzante autoironia, onestà, rabbia e dolore. Voleva che se ne andasse, che restasse, o nessuna delle due cose? Forse entrambe. Stava forse mettendola alla prova, per vedere quanto era disposta a sopportare? All’inferno, tutto quello che voleva era essere lasciato in pace, e lo esasperava la consapevolezza che voleva altrettanto fortemente averla lì.
Vaffanculo, perché stai facendo tutto questo?
Forse ho la sindrome della crocerossina, disse lei, o una vocazione al martirio, o forse sono semplicemente sola, e pronta ad aggrapparmi al primo uomo che mi capita a tiro. Oppure… sta a te decidere, dopotutto. Puoi scegliere la risposta che ti piace di più.
Già, è quello che faccio sempre. Fanculo, è parte del problema anche questo.
Lei lo guardò dritto negli occhi.
Ti amo, disse. E lo dirò solo questa volta, che tu mi creda o no.
Ti credo, disse lui.
Lei ebbe un sorriso dolceamaro.
Domani non mi riconoscerai nemmeno.
Sì che ti riconoscerò, disse lui.
Ma non la riconobbe.
Dove diavolo sono? E a parte questo, tu chi sei?
E’ importante?
Certo che è importante, cazzo. Penso che dovrei almeno sapere il tuo nome, no?
Mi chiamo… mi chiamo Sandy.
Davvero? Non mi sembri tanto sicura. Io sono…
So chi sei. Conosco il tuo nome e l’anima che c’è dietro, disse lei.
Perché lei sapeva, e questo faceva tutta la differenza del mondo. Prima o poi arriva per ognuno un momento in cui si rende conto che non gli importa niente di niente. O almeno, quel momento era arrivato per lei, e non le importava, non le importava di nient’altro se non delle lacrime di lui, del suo sudore e della sua anima.
Non era stato questo, l’inizio della storia; comunque, non fu nemmeno la fine.
Fortune non scontate
Stasera su Raistoria, canale che mediamente ci piace, davano un programma su De André. E ho pensato, non per la prima volta, che lo ascolto sempre troppo poco, benché conosca praticamente tutte le sue canzoni, che ad ogni ascolto vanno un po’ oltre, danno qualcosa in più. Come succede solo ai più grandi, o a quelli che danno molto di sé e consentono a tanti di identificarsi in maniera più vicina, quasi affettiva: quando muoiono mancano enormemente, li si piange come fossero stati amici, persone care, e al tempo stesso, è come se fossero sempre lì, hanno una forza, un’intensità non comune nella presenza e nell’assenza. Credo sia perché qualunque cosa facciano, la fanno per passione e per amore, ma anche sempre senza prendersi troppo sul serio. Dando l’impressione che avrebbero potuto in effetti tranquillamente fare altro, e facendoti sentire tanto più grato della loro scelta, perché in quel caso, il mondo, o almeno il tuo mondo, sarebbe stato molto meno ricco. De André diceva che le canzoni erano “l’ornamento” di una vita in cui c’era comunque molto altro dentro; Robin Williams aveva scoperto il suo talento per l’improvvisazione casualmente, mentre studiava scienze politiche, e aveva cambiato strada, mantenendo la consapevolezza che comunque di strade ce n’è sempre più di una, che il loro mestiere, per bellissimo che sia, non è “tutto” e non li “identifica”. Allora dentro di me c’è un po’ sempre questa idea, guarda che fortuna hanno avuto, guarda che fortuna abbiamo avuto, e magari nel mio amore c’è anche questo: la bellezza che hanno regalato alla mia vita non era affatto scontata.
Con tutto l’amore che posso
Mio figlio mi passa le cuffie per farmi ascoltare California Here We Come.
Ho creduto che fosse meglio per me rinunciare allo spazio che riservo alla tua ombra, per meglio vivere gli istanti, ripuliti dalla memoria, dal passato, dalla nostalgia. Illusione! Tu sei in tutte le cose della mia vita, e senza te la nostalgia non passa comunque, ma perde ogni intensità, ogni luce. Buon compleanno, mio gentile uragano. Mi manca da.morire la saggia allegria con cui avresti letto il mondo di oggi, con le sue follie e quell’insopprimibile impulso di umanità che ci resta anche nelle circostanze più ostili. Le tue luci formano la strada che dalla mia casa porta al tuo mare.
La lettrice della domenica (e che importa se è lunedì) – Mario Soldati, La sposa americana
Lunedì o no, sempre una lettrice della domenica sono.
Questa volta, come sempre senza nessuna logica o coerenza di genere, periodo o provenienza geografica, ho deciso che era il momento giusto per leggere qualcosa di Mario Soldati. Non conoscevo nessuno dei suoi libri, né i suoi film, ma avendo dato qualche occhiata ai suoi documentari, mi ero fatta l’idea che valesse la pena di provarci. E l’idea mi è rimasta, benché La sposa americana sia stato per molti aspetti una delusione. Probabilmente non il suo migliore (infatti non è citato tra i più importanti nella sua biografia). È la storia di un triangolo in cui non si capisce bene chi ama chi, il protagonista sostiene come una specie di giustificazione di aver amato una sola donna e che proprio i suoi tradimenti, e soprattutto quello più “importante” erano dettati appunto dall’amore, resi da esso inevitabili, addirittura.
Ne esce il ritratto di un uomo estremamente egocentrico, inutilmente tortuoso, che si fa (e ci racconta) un sacco di elucubrazioni mentali senza costrutto e non ama, di fatto, nessuno. Lo stile scorrevole mi ha indotto a proseguire la lettura, ma neanche nei personaggi femminili ho trovato quegli elementi di fascino adombrati nella quarta di copertina. A un certo punto il romanzo sembra virare verso il giallo, ma non dico di più per non svelare troppo. Lo consiglierei? Non se vi piacciono i romanzi con molti dialoghi serrati e i personaggi che agiscono più che pensare, e attraverso le azioni rivelano la propria personalità; sì se invece amate questo tipo di narrazione introspettiva.
La cosa che ho apprezzato di più? Le descrizioni di certi scenari di San Francisco!