L’universo mi sta dicendo qualcosa

Libri, film e un giardino. La mia idea di vacanza perfetta. O di vita perfetta.

In realtà ho scritto, letto e guardato film molto meno di quanto avrei desiderato, ma va bene comunque. Il giardino e la casa hanno richiesto molte attenzioni. Sto studiando storia, nomenclatura e modalità di coltivazione di un sacco di piante, note e meno note, con tutte le possibili combinazioni e i possibili usi, esemplari singoli, siepi, alberi, erbacee, rampicanti, da sole, da ombra, da mezz’ombra, piante che fioriscono in inverno, piante da bacca, piante con foglie di forme e colori strabilianti. Da perderci la testa. E non ho un parco, intendiamoci, solo un giardinetto. Ma trovo che progettare sia una cosa meravigliosa. Anche in casa. Ho dato il bianco e insomma, alla mala parata oggi potrei anche inventarmi un nuovo mestiere, vivaista, imbianchina, magari presto anche costruttrice di pergolati e sostegni per rampicanti, vedi mai…

Nel frattempo comunque sto proseguendo con la lettura/ri-lettura costante di “Furore”, libro splendido e coinvolgente, ma difficile per le profondità che ti trovi a esplorare. E qualcosa di simile potrei dire per “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas, diversissimo, introspettivo, la storia di una famiglia e di sentimenti e pensieri contraddittori, talvolta quasi crudeli, spesso poetici, quasi sempre molto intensi.

E mi sono vista un film, il primo della wishlist del 1935, non ne sarebbe valsa per niente la pena se non fosse stato per la sempre magnifica Katherine Hepburn, che fu nominata e perse l’Oscar in favore dell’altrettanto grande Bette Davis, la quale ammise che lo avrebbe meritato lei, non so se fosse solo cortesia, ma comunque K. Hepburn a mio parere vale qualunque film possa capitare di vedere. Certo, questo “Alice Adams” ce la mette tutta per farsi dimenticare. Trama esilissima su una fanciulla di bassa origine, che per farsi accettare dalle amiche altolocate si finge (con scarso successo) aristocratica e finisce per farsi sposare dal principe azzurro di turno, naturalmente bello ricco e gentiluomo. Con contorno di storia strappalacrime sull’imprenditore che da anni mantiene posto e stipendio al padre di Alice, inabile al lavoro, che anni prima aveva inventato una formula per un collante miracoloso per il quale non aveva forse ottenuto tutti i benefici promessi. Quando per amore della figlia, l’uomo pensa bene di sfruttare quella formula e mettersi in proprio, senza nemmeno farne parola con l’imprenditore, questi, invece di fargli causa (che avrebbe vinto a mani basse), lo prende come socio. La protagonista e il regista avrebbero in effetti voluto un finale diverso, maggiormente realistico e aderente al libro, ma non ci fu verso. Eravamo negli anni ’30, forse dal cinema si chiedeva che facesse fino in fondo la sua parte di fabbrica dei sogni, e oltre a convincere la gente che il sistema capitalistico era pur sempre il migliore dei mondi possibili.

Tanti buoni spunti, anche volendo mantenere lo stile da commedia, ci si chiede cosa ne avrebbe fatto un regista come George Cukor. Il rapporto col fratello bistrattato di Alice, ad esempio. O il vergognarsi delle proprie origini. Il lavoro, appunto… Fu invece diretto da George Stevens, che non era certo l’ultimo arrivato e avrebbe in seguito ricevuto anche due Oscar e diverse nomination, ma forse all’epoca era un po’ giovane o forse il film non era nelle sue corde. Il messaggio sembra essere: sei una fanciulla un po’ snob ma tanto carina e tutto sommato tanto una brava ragazza? Beh, tutto è lecito, per te e per la tua famiglia, se il fine è conquistare un buon partito. Fingi pure come se non ci fosse un domani, e non preoccuparti che al resto ci penserà il destino, che è pur’esso gentiluomo. Va beh. Meglio il giardino e la pittura alle pareti.

E poi ci sono sempre i tramonti, i cieli in fiore e i pensieri, le memorie, i nuovi incanti che di giorno in giorno si rinnovano. Un articolo visto di recente spiegava perché fa benissimo invecchiare in campagna. Ecco, sento che l’universo mi sta dicendo qualcosa…

Edit: questo post di un paio di giorni fa mi è uscito fuori datato 7 agosto. Non sarei il motivo, forse l’universo era un po’ stanco, a forza di lanciare segnali a destra e a manca e cospirare per la realizzazione dei sogni di tutti…

 

Spostamenti

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Basta un’influenza a scompigliare un po’ tutto. Sono dieci giorni che non scrivo sul blog e non mi ero resa conto che fosse passato tanto tempo. Quando avevo la febbre e gli altri spiacevoli effetti dell’influenza, ero troppo a terra per lavorare o fare altro che dormire e sonnecchiando guardarmi passivamente qualche filmetto carino ma poco impegnativo (la cosa migliore che ho visto? Kate & Leopold, peraltro era la seconda volta).

Quando ho cominciato a star meglio (in un giorno o due, poi, mica una vita), mi sono messa a scrivere e scrivere. Ho tra l’altro editato ancora un po’ il vecchio romanzo che a suo tempo avevo postato anche qui. Un romanzo di persone colte, mi è stato fatto notare. E di persone molto ragionevoli (come io cerco di essere, ovviamente senza riuscirci bene come loro, che sono pur sempre personaggi, benché voglia loro bene come se fossero persone). La cosiddetta “realtà” di cui si parla (che è poi la realtà nel suo aspetto peggiore, non l’unico) ci entra quasi “di straforo”, attraverso il lavoro della protagonista. In effetti, sì, parlo di persone per le quali la cultura è vita, respiro, movimento. Persone che esistono, e che non stanno nei salotti a guardare il mondo da dentro la loro torre d’avorio, ma che amano, soffrono perdite, tradiscono e lavorano e si contraddicono esattamente come gli altri, forse con un po’ di consapevolezza in più, perché hanno qualche strumento in più per leggere sé stessi e ciò che li circonda. Non sono “lontani dalla gente”, sono “gente” anche loro, anche se non si urlano in faccia, non bestemmiano, dicono poche parolacce, si parlano cercando di comunicare in modo per quanto possibile chiaro e onesto.

Perché io credo che la strada sia questa. L’unica strada per la libertà, per venire a patti con la finitezza della vita, per sopportare il dolore e vivere pienamente la bellezza e la gioia. È la mia utopia, ma è anche quello a cui sono arrivata al termine di una ricerca non facile e fatta interamente sulla mia pelle. Di cose brutte potrei parlarne, eccome. Ho preferito dare spazio a quello che secondo me può rendere la vita migliore, perché i mostri che sono dentro di noi sono già in molti a descriverli, e molto meglio di me.

Sono andata avanti anche col nuovo libro, che c’entra col femminismo, con l’ambiente, con i rapporti tra uomini e donne, con il viaggio e la conquista e anche con le trappole del mondo cosiddetto “civilizzato”, ma sempre per una via (tortuosa e se vogliamo anche molto avventurosa e irta di ostacoli) tutta sua.

Ho iniziato una lista di cose da fare “prima di morire”, o piuttosto diciamo nei prossimi dieci anni, possibilmente anche meno. Al momento sono a tre: provare il deltaplano, nuotare con i delfini e vedere i parchi della California (percorrendo, prima, la rotta del Corps of Discovery almeno dal Dakota in poi). Forse arriverò a dieci, o a sette, o mi fermerò qui. Sono tutti numeri magici. Il mondo possiede davvero una stupefacente bellezza, a cui diamo poco valore per via del fatto che siamo mortali, ma potremmo ribaltare la prospettiva e pensare che questo ci dovrebbe “costringere” a dare valore soltanto a ciò che davvero ne ha, ad appassionarci profondamente e a vivere e morire per l’intensità di quello che facciamo e delle emozioni che proviamo.  E sì, sto pensando tra l’altro a Daniele Nardi, che non conoscevo e che aveva una passione che io non ho, ma la cui vicenda mi ha commossa per un aspetto in cui spero un giorno di poter dire di riconoscermi: decidere che vuoi fare una cosa, prendere e andare, perché nessuno può farla al posto tuo e perché vivere è questo, non c’è altro modo, il resto è restare fermi in un posto dove qualcuno ti ha messo a tua insaputa. e rassegnarsi a star lì fino a quando quello stesso qualcuno, sempre a tua insaputa, ti sposterà.

Cose belle

Esercizio: pensare alle cose belle, piacevoli, quelle che fanno stare bene insieme, ed esprimerle ad alta voce, molto più di quelle che non vanno (che comunque vanno espresse, con chiarezza, prima di arrivare all’esasperazione). Costruire un “alfabeto delle emozioni” che ci aiuti a definire e comprendere meglio come ci sentiamo e perché. Fare domande, più che dare consigli o indicazioni. E comunque, cose belle, tante cose belle. Sento tanto questo bisogno di bellezza. Se la si cerca, la si trova sempre.

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Immagine trovata qui

You damn well did

Ho provato una sensazione incredibile oggi. Camminavo e dentro di me c’era questa completezza, molto più di un pensiero, per quanto nitido. Ho quello che mi serve e so quello che voglio, so chi sono. Tutto quello che mi serve è quello che ho. C’è stato un periodo in cui cercavo la bellezza negli oggetti, ma sento che non ne ho più bisogno. Non che non abbia più desideri, i desideri ci tengono in vita. E come sempre, più di sempre amo le mie emozioni immensamente, tutte. Ho passato tanto tempo a immaginare quello che avrei voluto essere. Oggi so che voglio essere quella che sono, quella che sta scrivendo queste parole, quella che vuole scrivere quasi più di qualunque altra cosa al mondo. I desideri li voglio, li ho qui stretti al cuore e fanno parte dell’orgoglio che ho, di essere arrivata fino a qui, di sapere che arriverò dove sarà giusto per me arrivare, nulla di più e nulla di meno.

E’ tutto il giorno che penso e ripenso a tutto questo, scrivo e cancello e riscrivo. Credo adesso di aver espresso quello che era necessario per me dire. Ho trovato questo video, stasera, un omaggio, un dono, venticinque anni dall’uscita di uno dei film che non solo ho più amato, che ma ha avuto e ha un ruolo importante per la mia famiglia anche adesso, ed è come se quel pezzo che mancava ai miei pensieri fosse andato al suo posto. Le persone speciali fanno questo. Fanno sentire speciali anche gli altri. Oh, you made your life spectacular. You damn well did.

Il senso dell’amore per la vita e della bellezza

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Stasera in un commento si parlava di questa vita che abbiamo in prestito e che non è “nostra”. Il che è verissimo, pensavo, però io la sento molto “mia”, per il tempo in cui mi è data. Non, naturalmente, nel senso di una proprietà di qualcosa che appartiene solo a me ed esclude tutti gli altri, ma nel senso di un’individualità e una universalità che meravigliosamente si sfiorano, poi si toccano, poi s’intrecciano e infine, forse, tornano a distaccarsi, tutto in un modo assolutamente unico per ciascuno di noi.

Sono andata sul mare, ho camminato un paio d’ore, mi sono nutrita ancora una volta di bellezza, perché penso che ogni volta che ascoltiamo musica, leggiamo un libro, scriviamo, andiamo a teatro, al cinema, a una mostra, o semplicemente regaliamo bellezza ai nostri occhi, mettiamo in atto una piccola ma significativa forma di ribellione contro le paure indotte. Non solo siamo vivi, ma ci piace esserlo, riempiamo le nostre giornate di stupore e meraviglia perché non ci sia alcuno spazio per l’odio o il terrore. Certo, questo vale di più per chi fa queste cose dove sono proibite e possono costare persino la vita. Ma ribellarsi ad ansie subdolamente instillate richiede talvolta, se non lo stesso coraggio, un impegno e una fatica simili.

Sappiamo, in fondo, quanto può essere difficile, dovunque, difendere la libertà di ciascuno di amare chi e come vuole (non c’è bisogno che specifichi “se entrambi sono consenzienti”, vero?). Sappiamo quanto può essere difficile difendere la libertà delle donne, la libertà della ricerca scientifica, la libertà di chi intende scegliere una morte dignitosa e non una sofferenza protratta a tempo indefinito che non considera vita. Nessuno di coloro che difendono queste libertà intende imporre la propria scelta agli altri, eppure, spesso, la scelta di altri viene loro imposta.

E allora, il rispetto di sé e degli altri, del modo di essere di chiunque che non limiti l’altrui libertà, resta per me il miglior modo di nom piegarsi. mantenendo fermi quei principi che diciamo essere i capisaldi della nostra civiltà, salvo poi rinnegarli inneggiando alla distruzione totale dei “barbari” e invocando la stessa spietatezza che in loro ci indigna.

Mi chiedevo se sarei capace di dire cose simili se un giorno mi trovassi a sopravvivere a un attentato. Posso dire che spero di sì, che “credo” di sì, ma non ne sono certa. L’altro giorno ho incontrato, per lavoro, un giovane uomo proveniente da uno di questi paesi di cui si parla molto, diciamo. Ho sentito come una piccola sconfitta il fatto che un frammento di me dicesse “speriamo bene”. Ho sentito come una piccola vittoria il fatto di aver fatto il lavoro e preso un caffè con lui come avrei fatto con chiunque, come se nulla fosse, senza che quel fastidioso retropensiero interferisse. i traumi possono forse agire su di noi in modi che non riusciamo a immaginare. Ma io voglio credere che non lascerei a nessuno il potere di cambiare così radicalmente il senso di me stessa, delle cose in cui credo e di quello che rende la mia vita degna di essere vissuta.

E’ buffo, poi, che a urlare con più violenza “guerra, guerra” siano di solito quelli che in guerra sanno che non ci andrebbero mai. “Armiamoci e partite”, come diceva Olindo Guerrini in tempi non sospetti nella sua ode “Agli eroissimi“. E’ tornato di moda disprezzare chi non è convinto delle soluzioni militari, quasi che l’accettazione del senso profondo della vita di cui sono capaci le persone miti fosse indice di debolezza. No, ve lo assicuro, la mitezza richiede una grande forza d’animo, chi è mite conosce il dolore e le ferite ma non le brandisce come armi contro gli altri, chi è mite ha una capacità di sentire su di sé anche la sofferenza altrui come se fosse la propria, ma conosce il confine, pur talvolta labile, tra il dolore e la rabbia. Chi è mite ha saputo diventare adulto, mantenendo magari una parte bambina che permette la leggerezza, ma non ricadendo nell’infantilismo del “tu mi hai dato uno schiaffo e io te ne do due”, che tra i grandi può essere davvero pericoloso. Chi è mite ha principi saldissimi, una identità profonda e così veramente “sua” che nessuno la potrà mai distruggere, radici ben ancorate alla terra e ali che gli permettono di non lasciarsi mai immobilizzare, ma non ha verità da rivelare. Chi è mite non lascerà mai che gli tolgano quella sua preziosa determinazione a vivere senza far male agli altri.