Ma queste son parole / del giorno che ti ho perso / chissà che cada a pezzi l’universo…
Citazioni
Citazioni da “Una storia della lettura”
Poi un giorno, dal finestrino di un’auto, durante un viaggio di cui ho dimenticato la meta, vidi un cartello pubblicitario sul lato della strada. Non mi pare di averlo fissato a lungo; forse la macchina si fermò per un momento, forse si limitò a rallentare abbastanza per permettermi di vedere, grandi e distinti, segni simili a quelli del mio libro; ma segni che non avevo mai visto prima. E d’un tratto capii cos’erano; li sentivo nella mia testa, mentre si trasformavano da linee nere e spazi bianchi in una realtà solida, sonora e piena di significato. Avevo fatto tutto questo da solo. Nessuno aveva compiuto la magia per me. Io e i segni eravamo soli l’uno di fronte agli altri; essi mi si rivelavano in silenzio. Da quando fui capace di trasformare semplici linee in una realtà vivente, divenni onnipotente. Sapevo leggere.
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I lettori di libri, famiglia in cui stavo inconsapevolmente entrando (pensiamo sempre di essere soli in ogni scoperta, e che ogni esperienza, dalla morte alla nascita, sia assolutamente unica), estendono o concentrano una funzione comune a tutti noi. Leggere lettere su una pagina è solo una delle molte letture possibili. L’astronomo che legge sulla mappa del cielo la posizione di stelle che non esistono più; l’architetto giapponese che legge sul terreno la disposizione da dare alla casa per proteggerla dalle forze del male; lo zoologo che legge le tracce degli animali nella foresta; il giocatore che legge i gesti del compagno prima di giocare la carta vincente; il ballerino che legge le annotazioni del coreografo, e il pubblico che legge i movimenti del ballerino sul palcoscenico; il tessitore che legge l’intricato disegno del tappeto che sta eseguendo; l’organista che legge simultaneamente diversi brani di musica orchestrata sulla pagina; il genitore che legge la faccia del bimbo per scoprirvi i segni della gioia, della paura, della meraviglia; l’indovino cinese che legge gli antichi segni sul guscio di una tartaruga; l’amante che legge alla cieca il corpo dell’amata di notte, sotto le lenzuola; lo psichiatra che aiuta il paziente a leggere i suoi strani sogni; il pescatore hawaiano che legge le correnti dell’oceano mettendo una mano nell’acqua; il contadino che legge nel cielo che tempo farà; tutti costoro condividono con i lettori di libri l’arte di decifrare e tradurre segni. Alcune di queste letture sono influenzate dalla consapevolezza che la cosa letta è stata creata a questo scopo specifico da altri esseri umani – le notazioni musicali o i segnali stradali, per esempio – o dagli dèi – il guscio della tartaruga, il cielo stellato. Altre derivano dal caso.
È comunque il lettore a leggere il senso; è il lettore che garantisce o riconosce in un oggetto, luogo o evento una certa possibile leggibilità; è il lettore che deve attribuire significato a un sistema di segni, e poi decifrarlo. Noi tutti leggiamo noi stessi e il mondo intorno a noi per intravedere cosa e dove siamo. Leggiamo per capire, o per iniziare a capire. Non possiamo fare a meno di leggere. Leggere, quasi come respirare, è la nostra funzione essenziale.
[Alberto Manguel, Una storia della lettura, Oscar Mondadori, traduzione di Gianni Guadalupi)
A little spark of madness / Una scintilla di follia
Finalmente ho scoperto da dove proviene questa citazione che già amavo tanto e adesso anche di più. Riesci sempre a sorprendermi e sei ancora sempre l’unico che sa farmi ridere e piangere nello stesso momento.
You young people don’t remember the old times. I remember World War III, all forty-five seconds of it. […] You see what I mean, you’ve got to be crazy. It’s too late to be sane. Too late. You’ve got to go full tilt bozo. You’re only given a little spark of madness, Keep some madness in you, yes, just a little touch of it. Just enough so you don’t become stupid. if you lose that, you’re nothing. Don’t. From me to you, don’t ever lose that, ‘cause it keeps you alive. That’s my only law. Crazy. Because there’s no way any government in the world can handle madness, Because you’ve got to fly above it all. Remember angels, they have wings ‘cause they take themselves lightly*. You know, there was an old crazy dude who used to live a long time ago, his name was Lord Buckley**. And he said, a long time ago, he said, ‘People: they’re kinda like flowers, and it’s been a privilege walking in your garden.’. My love goes with you.
Voi giovani non ricordate i vecchi tempi. Io mi ricordo della Terza Guerra Mondiale. Tutti i quarantacinque secondi. […] Capite cosa voglio dire, dovete essere folli, è troppo tardi per essere sani, troppo tardi. Dovete saper andare completamente, energicamente via di testa. Vi è data solo una scintilla di follia, conservatene un po’ dentro di voi, appena appena, quel tanto di pazzia che serve a non diventare stupidi. Se perdete quella scintilla, non siete nulla. Non fatelo, detto tra noi, non la perdete mai, perché vi tiene in vita. E la mia unica legge. Pazzi. Perché nessun governo è in grado di gestire la pazzia. Perché dovete volare al di sopra di tutto. Pensate agli angeli, loro hanno le ali perché si prendono alla leggera*. C’era un vecchio matto che viveva tanto, tanto tempo fa, si chiamava Lord Buckley**. E lui diceva, un sacco di tempo fa, diceva ‘le persone sono un po’ come i fiori, ed è stato un privilegio camminare nel vostro giardino’. Vi voglio bene. [certo, l’originale ‘il mio amore viene via con voi/vi accompagna’ è più bello].
* è una citazione da Chesterton
** in realtà un comico noto negli anni ’40 e ‘50
Il tutto è tratto da Reality What a Concept, o meglio, prevalentemente da Live at the Roxy, che era una delle tappe della stessa tournee, con qualche piccola aggiunta dal disco in mio possesso, registrato al ‘Copacabana‘ di New York e al ‘Boarding House’ di San Francisco.
#Quote challenge Day 3 – film
Per ovvie ragioni ho escluso tutti i film con Robin Williams 😀
Concludo quindi, con i miei tempi bradipeschi, questa carrellata di citazioni, ringraziando ancora una volta Mela, Cose da V e Romolo Giacani per questa oportunità di andarmi a rileggere libri, riguardare amate pellicole, riascoltare canzoni che adoro. Ma con questo, non smetterò certo di importunarvi con altre citazioni quando me ne salterà il ticchio 🙂
1. The Shawshank Redemption (Le Ali della Libertà), regia di Frank Darabont, attore: Morgan Freeman (Andy era interpretato da Tim Robbins)
Red (narrating) I have no idea to this day what those two Italian ladies were singing about. Truth is, I don’t want to know. Some things are best left unsaid. I’d like to think they were singing about something so beautiful, it can’t be expressed in words, and makes your heart ache because of it. I tell you, those voices soared higher and farther than anybody in a gray place dares to dream. It was like some beautiful bird flapped into our drab little cage and made those walls dissolve away, and for the briefest of moments, every last man in Shawshank felt free.
[…]
Sometimes it makes me sad, though… Andy being gone. I have to remind myself that some birds aren’t meant to be caged. Their feathers are just too bright. And when they fly away, the part of you that knows it was a sin to lock them up DOES rejoice. But still, the place you live in is that much more drab and empty that they’re gone. I guess I just miss my friend.
Ancora oggi non so cosa dicessero quelle due donne che cantavano, e a dire la verità non lo voglio sapere. Ci sono cose che non devono essere spiegate. Mi piace pensare che l’argomento fosse una cosa così bella da non poter essere espressa con delle semplici parole. Quelle voci si libravano nell’aria ad un’altezza che nessuno di noi aveva mai osato sognare. Era come se un uccello meraviglioso fosse volato via dalla grande gabbia in cui eravamo, facendola dissolvere nell’aria, e per un brevissimo istante tutti gli uomini di Shawshank si sentirono liberi.
[…]
Certe volte però ero triste pensando che Andy se n’era andato. Ma alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia, questa è la verità. Sono nati liberi e liberi devono essere. E quando volano via ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe dovuto rinchiuderli. Anche se il posto in cui vivi diventa all’improvviso grigio e vuoto senza di loro.
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2. Philadelphia, di Jonathan Demme, attori: Tom Hanks (credo per esclusione che la bibliotecaria fosse Glen Hartell ma non sono sicura)
Librarian: This is the supplement. You’re right, there is a section on… HIV related discrimination.
Andrew: Thank you.
Librarian: We have a private research room available.
Andrew: I’m fine, thanks
Librarian: Sir, wouldn’t you be more comfortable in a study room?
Andrew Beckett: No. Would it make you more comfortable?
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Bibliotecaria: Signore? Questo è il supplemento. Ha ragione… C’è un capitolo sulla discriminazione nei casi di AIDS.
Andrew: Grazie, la ringrazio moltissimo.
Bibliotecaria [restando immobile al suo fianco, dopo qualche secondo]: Abbiamo a disposizione una stanza privata per le ricerche.
Andrew: Sto bene qui ,grazie.
Bibliotecaria: Non sarebbe più a suo agio in una stanza per le ricerche?
Andrew: No, forse lei sarebbe più a suo agio.
3. Much Ado About Nothing (Molto rumore per nulla), di Kenneth Branagh, attori: Emma Thompson e Denzel Washington
Quote challenge Day 1 – Libri
Volevo approfittare prima che la connessione mi lasci a piedi per cominciare almeno il gioco delle citazioni. Mela mi ha precettata, Cose da V e Romolo Giacani (Viaggi ermeneutici) mi hanno nominata espressamente. Sono tre blog molto diversi, uno più bello dell’altro. Ci proviamo, dài. Tanto dice che i tre giorni non devono necessariamente essere consecutivi, che le regole non sono obbligatorie, che si possono dividere per categorie ma anche no e insomma, liberi tutti, che per me va benissimo. Quindi cominciamo, e inizierò con quelle letterarie.
1. “Forse l’avete già indovinato. Sono le mani a risvegliare il potere delle spezie. Hater gun, lo chiamano, valore delle mani. Per questo sono proprio le mani le prime a essere esaminate dall’Antica quanto le ragazze arrivano all’isola. Ecco ciò che ella dice.
“Non devono essere né troppo leggere, né troppo pesanti. Mani leggere sono creature del vento, volano di qua e di là al suo capriccio. E mani pesanti, trascinate giù dal loro stesso peso, non hanno spirito. Sono solo pezzi di carne per i vermi in attesa sottoterra.
Le mani giuste non hanno macchie scure sul palmo, indice di cattivo carattere. chiuse strettamente a coppa e tenute contro sole, non mostrano fessure attraverso le quali spezie e incantesimi potrebbero scivolare via.
Non sono fredde e secche come il ventre dei serpenti, perché le maghe delle spezie devono saper sentire il dolore altrui. E neppure calde e umide come il respiro di un amante in attesa davanti alla finestra, perché le maghe delle specie devono lasciarsi alle spalle le passioni.”
Chitra Banerjee Divakaruni, La maga delle spezie, Einaudi, trad. di Federica Oddera
2. Gli piacevano le parole importanti, belle, grandi, le enfatiche, tonanti, ridonanti parole; con un senso annesso, se riusciva a ottenerlo senza rovinarne il suono, ma non ne caso contrario. Gli piaceva erigersi dinanzi al mondo stordito e vomitare verso il cielo fiamma e fumo e lava e pietra pomice, e creare i propri tuoni sotterranei, e scuotere se stesso con terremoti e rendersi maleodorante con fumi sulfurei. […]
V’è una strana sorta di originalità, in McClintock. Egli imita gli stili di altre persone, ma nessuno può imitare il suo, neppure un idiota. Altre persone possono essere pompose, ma la pomposità di McClintock ha la violenza di un uragano; altre persone possono piagnucolare il sentimento, ma McClintock lo vomita; altre persone possono servirsi a vanvera delle metafore, ma soltanto McClintock fa di questo una vera e propria arte. McClintock è sempre McClintock, è sempre coerente, il suo stile è sempre esclusivamente suo; egli non commette l’errore di essere pertinente in una pagina non pertinente in un’altra; non è mai pertinente in nessuna delle sue pagine. Non commette l’errore di essere lucido in un punto e oscuro in un altro; è sempre oscuro. Non commette l’errore di servirsi qua e là di un nome estraneo al carattere del suo lavoro; adopera sempre nomi esattamente e fantasticamente adatti alla sua pazzia. In fatto di coerenza egli domina incontrastato il campo delle lettere”.
Mark Twain, Come curare la malinconia, Passigli Editori, trad. di Bruno Oddera
3. Cominciò che mi dissolsi. E’ così che deve sentirsi il vapore quando fuoriesce dal liquido bollente e sale nell’aria rinfrescante. Per la prima volta in vota mia mi sentii libero, davvero libero da tutte le costrizioni terrene, libero dal mio corpo, sfuggito al mio stesso pensiero.
Poi divenni suono, e chi diventa suono diventa onda. Oso sostenere che colui che sa di essere un’onda si è avvicinato di un bel po’ alla soluzione dei misteri dell’universo. E a quel punto capii se non altro il mistero della musica, capii perché la musica è così immensamente superiore a tutte le altre arti: perché è incorporea. Una volta staccatasi dallo strumento che la produce, appartiene solo a se stessa, è una creatura del tutto autonoma fatta di suono, senza gravità, senza corpo, perfettamente pura e in perfetta armonia con l’universo.
Così io mi sentivo: ero musica e danzavo con il cerchio ardente, alto su tutto. La Terra era laggiù da qualche parte, e laggiù erano il mio corpo, le mie preoccupazioni che non contavano più niente. Contava solo la ruota infuocata, contava la sua presenza. Ruotava, continuò a ruotare fino a quandola sua luce multicolore sembrò fluire al suo interno, seguendo tre percorsi curvi che si univano al centro. E poi lo vidi. Il tricerchio.
Il tricerchio, il misterioso segno che spiccava sull’ingresso delle librerie antiquarie di Lo Sbircio e di Inazea Anazazi. Splendeva davanti al mio occhio interiore, evocato dalla potenza della musica delle trombùccine, che ora rintronava in tutta la sua potenza. […]
Poi tutto cessò di colpo. La musica finì, il sogno svanì e io precipitai. Piombai giù a lungo, verso la Terra, verso Zamonia, verso il mio sembiante, e… zac! – ecco il mio spirito dianzi ancora scatenato di nuovo spietatamente prigioniero del mio corpo, incastrato fra i miei atomi.
Spalancai gli occhi. I nebbiolinesi avevano abbassato le trombùccine e si apprestavano a riporle negli astucci. Il pubblico si alzò. Non un solo applauso. Mi guardai in giro, confuso. Che strana conclusione per un concerto così sensazionale! Avrei voluto fare qualche domanda al nano, ma era già sparito. Vidi Lo Sbircio e la shockkia allontanarsi in fretta nella folla. Gli spettatori uscivano incespicando dalle file dei sedili, io ero l’unico ancora seduto, come rincitrullito, sulla mia sedia da giardino nel parco municipale di Librandia.
Allora mi fu chiaro: neanch’io avevo più tempo da perdere! Dovevo andare, urgentemente! Come avevo potuto dimenticarlo: l’unico scopo della mia vita era quello di mettere le mani sul maggior numero di libri che avessi potuto arraffare. Presto, presto, per non dare agli altri il tempo di precedermi! Libri! Libri! E dovevano essere naturalmente libri sognanti, di librerie antiquarie contrassegnate da tricerchio. Mi precipitai dietro gli altri”.
Walter Moers, La città dei libri sognanti, Salani Ed., traduzione di Umberto Gandini