IL PAESE INFELICE – L’eroe nel mito e nella fiaba – Gli eroi romani

Ben diverso dall’eroe greco è quello romano, il soldato tutto d’un pezzo che non ha altri amori che Roma, che non si pone mai dubbi. L’eroe romano non ha scelte difficili da fare, non ha domande da porsi, non conosce sfumature o ripensamenti.

Si tratta in effetti, più che di uomini con le loro qualità, debolezze e complessità, di personificazioni delle principali virtù che si volevano trasmettere ai giovani, specie patrizi: l’amor di patria, il coraggio militare, la semplicità e la morigeratezza.

Non è un caso, forse, che la straordinaria satira di Asterix abbia colpito i Romani e non i Greci. Con i Greci ci possiamo identificare, possiamo sentirci vicini a questi uomini che hanno dato tanto ma senza rinunciare alla loro umana fragilità. I Romani sono troppo lontani da noi, troppo sicuri di sé e certi della loro incrollabile verità: o sono il nostro incubo, o ridiamo di loro.

Prendiamo Orazio Coclite, che da solo affrontò un intero esercito etrusco, quello di Tarquinio il Superbo, ultimo Re di Roma. Questi, mandato in esilio, voleva tornare e aveva chiesto aiuto agli etruschi (dai quali del resto probabilmente proveniva, come rivelerebbe il suo nome, come quello del suo predecessore Tarquinio Prisco). Gli Etruschi arrivarono fin sulle porte della città; stavano per entrarvi, dovevano solo attraversare il Tevere attraverso il ponte Sublicio. Dopo averli sconfitti da solo (mentre i suoi soldati distruggevano il ponte), Orazio si gettò nel Tevere e, nonostante l’armatura, riuscì ad attraversarlo e a rientrare in città dove fu onorato addirittura con la prima statua mai dedicata a un uomo.

Sempre nel conflitto con gli Etruschi si pone l’episodio di Muzio Scevola. Il giovane aveva ottenuto dal senato il permesso di entrare nel campo nemico per tentare di uccidere Porsenna, re della città di Chiusi e capo della lega dei popoli etruschi. Giunto al campo nemico, dopo aver ucciso quello che credeva il re, si accorse che si trattava in realtà di un suo scrivano; catturato e portato al cospetto del sovrano, Muzio pose sul braciere ardente la “mano che aveva fallito” e la tolse solo quando fu completamente consumata. Proprio per questo prese il soprannome di Scevola (“il mancino”), con cui è passato alla storia. Porsenna, impressionato dal gesto e ammirato, decise di liberarlo. Muzio allora inventò una storia, per spaventarlo: gli disse che c’erano trecento giovani nobili romani intenzionati a ucciderlo, e che se lui che era il primo aveva fallito presto sarebbero arrivati gli altri.

Porsenna, che già aveva visto Orazio Coclite e ora si trovava alle prese con Muzio Scevola, si impaurì, temendo questi Romani così pieni di valore e attaccamento alla patria; decise di proporre trattative di pace, ma come prima condizione chiese alcuni ostaggi. Tra gli ostaggi però c’era qualcuno destinato a dargli ancora filo da torcere: si tratta di una fanciulla, la giovane Clelia; questa riuscì a fuggire, ad attraversare il Tevere a nuoto e a riportare a Roma sane e salve tutte le fanciulle romane che erano con lei. Porsenna se la prese un po’ e minacciò di interrompere le trattative: i Romani allora rimandarono gli ostaggi e a quel punto Porsenna, ancora una volta stupito del loro coraggio e della loro correttezza, decise di liberare gli ostaggi una volta per tutte.

Un altro romano famoso, grazie alla semplicità e all’austerità dei suoi costumi, fu Lucio Quinzio Cincinnato (“riccioluto”); narra la leggenda che, nel momento in cui gli fu consegnata la nomina a console, Cincinnato stava arando il suo campicello; e non perse mai la passione per l’agricoltura: infatti quando fu eletto dittatore per combattere contro gli Equi rimase in carica giusto il tempo di sbaragliare i nemici e riportare una bella vittoria; subito dopo rinunciò a ogni onore e incarico politico, e tornò ad arare il suo campicello. Non disdegnò invece gli onori Marco Furio Camillo, valente generale: con le guerre che condusse portò Roma a raddoppiare il suo dominio territoriale. Era in un momento di riposo lontano dalla città quando venne a sapere che i Galli avevano preso Roma; pronunciando la famosa fraseNon con l’oro ma con il ferro si salva la patria fece immediatamente ritorno e cacciò via gli invasori.

Cneo Marcio Coriolano, così chiamato perché conquistò la città di Corioli, apparteneva alla classe dei patrizi; i plebei non lo amavano fatto, e accusandolo di volerli ridurre alla più totale povertà riuscirono a farlo esiliare dalla città; questo si recò presso i Volsci, e li convinse a dargli in mano il loro esercito per guidarlo contro Roma; la leggenda vuole che dopo i primi successi acconsentì alle preghiere della madre Veturia e della moglie Volumnia, e si ritirò, andando incontro alla morte (i Volsci lo uccisero per averli illusi e delusi) per non mandare la sua città in rovina; però questo personaggio è uno dei più controversi: si dice che sia stato inventato solo per esaltare la classe patrizia e la sua nobiltà d’animo (oltre che per dare una spiegazione alla guerra contro i Volsci).

Possiamo chiudere con due personaggi che forse non sono considerati eroi in senso stretto e tuttavia possono essere considerati per certi aspetti vicini a un più moderno concetto di coraggio, i Gracchi (Tiberio e Caio), tribuni della plebe, uccisi per le avanzate riforme che avevano voluto proporre in favore del popolo.