Addio al sassofono

Un momento davvero intensissimo sotto ogni punto di vista. Tippete ancora manca, specialmente in certi momenti, quando gli avrei preparato da mangiare, o quando si sentono certi rumori e ci voltiamo di scatto, quasi aspettandoci davvero di vederlo saltar giù da una sedia, o saltarci sopra, muovendo nel processo tutto quello che può esserci intorno.

I premi letterari sono soddisfazioni enormi, viaggi bellissimi e sfiancanti, desideri che si realizzano e desideri nuovi.

Col figlio “piccolo” si parla, lo si tiene tra le braccia, si sta a distanza quando è il caso, si protegge e si lascia andare, si culla quando sembra davvero più “bambino” e si accompagnano i momenti in cui la crescita diventa evidente tutt’a un tratto e intravedi l’uomo che speri diventerà, difficile, inquieto e splendido.

Col figlio grande si parla, si ascoltano soprattutto i suoi silenzi, il non detto, si guardano i gesti, le cose pratiche che per lui sostituiscono quasi sempre le parole, si cerca un raro sorriso, la traccia di un dolore che forse non c’è, o forse tiene dentro.

Negli ultimi dieci giorni ho stralavorato, a compensare il lavoro che era mancato per quasi un mese, tra ricoveri e altro. Aspetto quella piccola operazione, e l’attesa, si sa, è snervante. Mi sento spesso più debole, come se l’età che prima non contava, se non molto poco, adesso si prendesse il suo spazio, ho meno energia, giornate meno lunghe.

Però scrivo, in questi due ultimi giorni, perché per una settimana è stato impossibile, non riuscivo neanche a vedere dieci minuti di film, niente. Ma adesso scrivo, tanto, e in questi momenti c’è una magnifica sensazione di fluidità, come se tutto andasse come deve andare, tutto si trovasse nel posto dove deve essere, almeno interiormente, che poi il mondo è un casino ma questo lo sappiamo.

E poi ci sei tu, che racchiudi ogni assenza e ogni presenza, ogni poesia e ogni piccolo passo, ogni stanchezza e ogni parola, ogni paura e ogni momento felice, la felicità dell’inizio e l’addio di un amico e di tutto quello che si lascia indietro, tutto in un unico sguardo, e in quel brivido che era quasi scomparso dalle mie labbra, e che ho ritrovato stasera. Un tuo sguardo, e io mi sento come se mi fossi persa e ritrovata nello stesso momento. Com’è bello guardarti. Perché a volte vorrei avere il coraggio di non farlo? Lo so, a volte costa fatica, ma il mio piccolo universo è tutto nel tuo sguardo.

UN LEONE A COLAZIONE 23. Dialoghi

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Qualche giorno fa, in seguito a una visita per certi aspetti “difficile” (anche se fatta per supporto, e da parte di due persone eccezionali da tanti punti di vista), abbiamo avuto, col mio “piccolo”, uno dei nostri non rari dialoghi intensi, che si è svolto più o meno così:

Figlio: Pensavo che sarebbe stato più difficile, pensavo di non riuscire a guardarle negli occhi.

Mamma: Qualche volta è proprio così, ci si fa prendere dall’ansia, poi ti accorgi che le cose non sono così difficili come pensavi

Figlio: E tu di che cosa hai paura?

Mamma (qui non ci sono cavoli, bisogna rispondere sinceramente): Di perdere le persone che amo

Figlio: Beh, quello tutti (e che ti credevi?)

Mamma (tentando di riprendere terreno e con la mezza idea di essere andata anche un po’ troppo in là con le cose serie): anche di piccole cose, dici? Ho paura dei calabroni, dei fulmini.

Figlio: Ma mi prendi in giro? (ossia: sto parlando di VERE paure io, mica quella roba lì)

Mamma (annaspando): Boh, ho paura delle decisioni importanti, quelle in cui devi prenderti grandi responsabilità. (cioè no scusate ma io sto parlando con un ragazzino di tredici anni. Il quale mi guarda con aria comprensiva e annuisce. Pochi giorni più tardi, in una scena di Karate Kid in cui si parla di passato e del fatto che è impossibile cambiarlo, e sulla fatica che ci vuole a volte per rialzarci quando la vita ci butta giù, guarda fisso il personaggio fisso e commenta: come ti capisco…)

Questi dialoghi sono una delle cose più belle e spossanti della vita familiare. Non sai mai bene cosa è giusto dire e come. Ma dopotutto, sono sempre stata convinta, tra le poche quasi certezze che ho, che l’importante, in questi casi, sia comunque che il dialogo ci sia. Più importante persino che fare attenzione a quello che si dice 🙂

Di madri, figli, topi e parole

Mamma: Ciao Topezio

Figlio: Ti sembro forse un topo?

Mamma: sì…

Figlio: Ok, grazie per essere stata sincera con me, ora lasciami solo che devo lenire il mio dolore.

L’abilità del mio figlio (tredicenne) di beccare sempre la frase giusta dal patrimonio cinematografico che ha nella zucca e ritirartela fuori a tradimento nel momento perfetto (e con un vocabolario invidiabile)  è ormai nota in famiglia e nel circondario, scuola compresa. Ma riesce sempre a sorprendermi. Ha sempre avuto un’ironia che a me sembra fantastica, fin da quando, ad appena sei anni, mi passò lo spazzolino da denti con un inchino e le parole “questo è il tuo premio, congratulazioni”. Riesce a farmi ridere nei momenti più impensati (e anche più inopportuni, a volte). Insomma, in certi momenti riesce persino a farmi quasi pensare che anche nell’adolescenza. con tutti i suoi casini (che non sono pochi), le GDE (Grandi Domande Esistenziali), la ASSS (Autostima Sotto le Suole delle Scarpe) e tutto quello che volete, c’è del buono. Spero proprio che questa ironia rimanga sempre una sua caratteristica. Darà del filo da torcere a un sacco di gente, eh, me compresa. Ma va bene così. Poi protegge pure i ragazzini più piccoli presi di mira da alcuni bulletti, così mi è stato detto.

Scrivere stasera fa un po’ male, ma questi momenti sono ottime riserve di energia!

Lettera a mio figlio

Hai spalle forti, piccolo mio, più forti di quanto tu possa pensare in questo momento. E piedi grandi, che puoi scegliere se farne radici per ancorarti alla terra e a un luogo in particolare o mezzi per esplorare il mondo, o più probabilmente entrambe le cose, perché è vero che le scelte sono inevitabili nella vita, ma è importante anche sapere che possiamo scegliere più cose, avere più passioni, coltivare più talenti. L’importante è accogliere e nutrire la nostra curiosità, sempre.

Hai occhi grandi e scuri, con cui fai domande e troppe volte ti dai anche le risposte, del resto quando si è piccoli le risposte sono più importanti delle domande. Quanto siano preziose le domande, tanto più, a volte, nel loro essere insolubili, lo si impara col tempo, quando si scopre che è quello che ti spinge a cercare che importa, per dare senso alla vita,molto più che trovare quello che cerchi.

Hai braccia che stringono con quel bisogno immenso che hai di affetto, tenerezza, sostegno, perché sono tutte cose che per quasi sette anni hai dovuto trovare in te stesso, ma un bambino non può trovare queste cose in sé stesso senza aprire delle voragini di bisogni e desideri insoddisfatti. resta una paura che se dovesse capitarti di cadere, non ci sia nessuno sotto a tenerti, e allora poi diventa difficile lasciarsi andare. Ma tu ricorda che anche se è stato così difficile e ti ha fatto così male, quella capacità che hai avuto di abbracciarti da te, di darti appoggio e conforto anche da solo, nessuno potrà mai togliertela, e sarà quella che ti permetterà anche di cercare e trovare l’amore e il sostegno degli altri.

Hai una testolina (neanche più tanto “ina” in effetti) piena di pensieri, idee, ricordi, paure, emozioni di cui racconti solo dei frammenti, quando e nel modo in cui sei tu a volerlo, come è giusto, ma forse più di quanto spesso le persone siano abituate a fare, specialmente poi persone ancora così “piccole”, e questa è una cosa importante che penso ti potrà essere di grande aiuto. Lasciala sfogare quella testolina. Fidati di lei, ci sono tante cose dentro e so che adesso sicuramente sembreranno anche un po’ caotiche, ma se glielo lasci fare, si districheranno, poco a poco. Datti il tempo, ché senza il tempo non maturano neanche le nespole.

E fidati del tuo cuore, che hai un cuore grande, ma proprio grande grande, tanto che sembra troppo, quasi da far male, sproporzionato persino per quel tuo fisico da cestista che ti sei trovato tra capo e collo senza averlo chiesto, e di cui devi imparare a essere un po’ orgoglioso o anche soltanto a sentirlo tuo e sentirtici dentro. Quel tuo cuore che forse sembra voler scoppiare da un momento all’altro, in certi momenti, e a volte sembra fermo, ma è lì che batte, tu magari non ci pensi, non ci fai caso, ma lui batte al ritmo giusto per te. Anche i tuoi polmoni, dopotutto, se ci pensi, respirano al ritmo giusto per te, senza bisogno che tu faccia nulla. Ci sono molte cose che funzionano e sono buone per noi, anche se non le controlliamo, forse questo potrebbe essere un sollievo, che ne dici?

Fidati della tua voglia di libertà, non lasciarti ingabbiare né dalle persone, né dalle paure. Anche quella va accudita, innaffiata, concimata e fatta crescere. Non è facile, alla tua età, capire la differenza tra fare tutto quello che si vuole ed essere pienamente sé stessi. Accetta le regole che ti permettono di vivere con gli altri e stare bene dentro, quelle che vengono dal rispetto. Mettile pure tutte in discussione, anche qui bisogna darsi tempo, poi s’impara quali sono le leggi che non vanno accettate mai, prendendosene però anche la responsabilità e accettandone le conseguenze. Forse è meglio chiamarli principi, ideali. Perché è dal vivere secondo i principi in cui credi che parte tutto il resto.

Non lasciare mai che ti facciano sentire in colpa. Se hai fatto un errore, dillo a viso aperto, chiedi scusa se pensi che sia giusto farlo. Senza vergogna o imbarazzo, che non sono necessari né utili, quando sai di aver fatto del tuo meglio, perché gli errori li commettono tutti e quindi non c’è bisogno di preoccuparsene troppo. Ma chiedere scusa, spesso, serve semplicemente a dire ok, ho sbagliato ma ti voglio bene e ho voglia di provare a fare ancora meglio, sapendo comunque che se sbaglierò di nuovo, tu capirai.

Perché noi capiamo, sai. Anche quando non ci credi troppo, noi ci siamo. Col nostro modo a volte un po’ goffo, inadeguato, ma ci siamo. Non sei solo. Ecco, soprattutto vorrei che tu sapessi questo, che ne fossi convinto fino in fondo, sicuro, in ogni momento. Non sei solo. Non più.

Il Bosco – Parte I – Capitolo I – V

VI (1963)

La strada si dipanava diritta come il filo di un gomitolo teso a indicare il cammino nel groviglio labirintico che partiva dal porto e giungeva chissà dove. Elisa camminava a fianco di sua madre, con Cristina dall’altro lato. Il vento appiccicava il vestito al corpo della mamma, i fiori gialli, piccoli e freschi, aderivano alle sue gambe, alla pancia che così, vista di profilo, prendeva una forma leggermente arrotondata che non aveva mai notato prima. Più tardi le sarebbe parso di aver intuito tutto, prima ancora che dal rigonfiamento del ventre, dai suoi occhi, da quello sguardo che già andava oltre loro due, verso qualcuno che si sarebbe appropriato di una fetta più larga del suo cuore. Ma fu Cristina a parlare per prima. A gridare, anzi: “Tu aspetti un bambino!”

Elisa si stupì. Cristina non gridava mai. “Io non voglio nessun altro bambino.” continuò la sorella, con un tono ancora più denso di rabbia, ancora meno riconoscibile.

“Beh, mi dispiace, signorina, ma che tu lo voglia o no, dovrai abituartici”, rispose sua madre, secca. Questo non la stupì, invece. Sua madre era sempre stata insofferente di fronte a qualunque espressione di rabbia, dolore o allegria che considerasse eccessivi, ed era allergica alle conversazioni importanti, nelle quali si sforzava inutilmente di rendere semplici le cose complicate e riusciva invece benissimo a rendere complicate quelle più semplici.

Elisa si disse che non le sarebbe dispiaciuto avere un fratellino. Però forse quello che provava era sbagliato, forse lei stessa era tutta sbagliata. Ancora adesso, a sprazzi, odiava Fabrizio. Lo odiava perché in fondo sarebbe stato naturale, quasi un suo dovere odiarlo, era la cosa giusta da fare. A volte lo aveva odiato ancora di più perché le era simpatico, gli aveva rivolto contro la rabbia di un affetto che non era riuscita a impedire e che non gli aveva mai perdonato.

E adesso … chi sarebbe stato esattamente quel bambino? Un fratellino avrebbe significato in un certo senso accettare che Fabrizio facesse parte della famiglia. E perché questo non le suscitava accessi di furia incontenibile? Perché non provava l’irrefrenabile impulso di picchiare tanto lui quanto sua madre, di far pagare a entrambi la confusione dei suoi sentimenti? Anche se non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura, in realtà sapeva di voler bene a Fabrizio molto più di quanto avrebbe dovuto. Questo voleva dire che stava cominciando anche lei ad abbandonare suo padre?

Elisa guardò sua sorella cercando di capire cosa ne pensava lei. Cristina era sempre stata così adattabile, sembrava che le andasse bene tutto, si preoccupava poco di quello che le succedeva intorno, come se nulla potesse toccarla, in fondo. Dopo lo sfogo di poco prima, il suo viso si era come richiuso, assumendo l’usuale espressione indecifrabile.

“A me piacciono i bambini”, si arrischiò a dire, con una certa cautela.

Cristina ebbe un’altra esplosione e questa volta non si contenne. “A me, a me, io, io”, gridò, con tutto il fiato che aveva in gola, così parve. “Ma di quello che provo io importa a qualcuno? Io sono solo la scema che fa sempre quello che le dicono, che si comporta come una signorina ammodo, che non crea mai problemi. Ma forse qualche problema ce l’ho anch’io, forse non mi piace essere perfetta, ci avete mai pensato? Forse in realtà sono cattiva, maleducata e incosciente e magari mi piace anche, essere così”.

“Ma cosa ti prende, Crissy?” Chiese Elisa, con una voce più dolce di quella che usava di solito parlando con la sorella.

“Cresce” disse asciutta Viviana. Aveva letto da qualche parte che i ragazzi, non avendo più riti di passaggio all’età adulta, vivevano negli anni dell’adolescenza una confusione ben maggiore di quella che avevano vissuto i loro genitori. Effettivamente a lei non sembrava di essere mai stata adolescente. Non aveva potuto permetterselo. C’era la guerra, allora, e poi l’immediato dopoguerra. Niente male come rito di passaggio all’età adulta.

Elisa intuì d’improvviso qualcosa che non aveva mai capito. Se era così difficile capire cosa passava nella sua testa, forse era perché Cristina stessa non lo sapeva.  Cristina era carina, era spiritosa, andava bene a scuola, piaceva alla gente e lei aveva sempre pensato che le piacesse essere così, che fosse quello che voleva anche lei. Invece forse la vera Cristina era nascosta da qualche parte, ma era troppo abituata a comportarsi come gli altri si aspettavano da lei – o come lei credeva che si aspettassero – per sapere come ritrovarla. Che cosa davvero le piaceva o non le piaceva, questo Elisa non avrebbe saputo dirlo. Pensò che forse, dopotutto, si somigliavano più di quanto le fosse mai sembrato. Si sentì solidale con lei, una sensazione quasi nuova, e la stupì che non fosse accaduto più spesso.  Le venne voglia di abbracciarla, forse non era il momento giusto ma lo fece lo stesso. La sentì ritrarsi un momento e poi, un po’ rigidamente, Cristina le posò la testa sulla spalla e scoppiò a piangere, e allora pianse un po’ anche lei, senza sapere se fosse perché si sentiva triste, o perché si sentiva felice.

Dialogo mamma-figlio / A mother & son conversation

Dialogo svoltosi qualche giorno fa, ultime battute, in realtà, di un fuoco di fila di domande esistenziali, racconti di sogni e delle loro relazioni con la realtà (tipo: qualche volta succede che quello che sogno poi si realizza; ma se sogno di volare significa che posso raggiungere qualcosa di bello?), riflessioni sulla solitudine…/ A conversation we had a few days ago, the home straight, actually, of a barrage of existential questions, accounts of dreams and their link to reality (such as: it sometimes happens that what I dream happens in real life. If I dream of flying, does it mean I can achieve something?), thoughts on loneliness…

Figlio (dodicenne) / Son (twelve years old): mamma, qual è la cosa vuoi di più di più nella vita, quello che ti piacerebbe tantissimo ottenere? / mum, what is that you want most in life, that you really really want to get?

Io (mamma) (dopo un momento spiazzamento) / Me (mother) (taken aback for a moment, then): essere felice e rendere felici altre persone / be happy and make some other people happy

Figlio / son : io vorrei più di tutto una vita normale / me, I want a normal, life, most of all

Io /me: cosa è normale per te? / What is “normal” for you?

Figlio / son: non so, è che mi sento diverso a volte / I don’t really know, it’s that I feel different (from others) sometimes…

Io (un po’ a corto di parole) / me (a bit at a loss for words): cosa significa “diverso” per te? / what is “different” for you?

Figlio / son:  non lo so di preciso…. però possiamo fare una pausa adesso? / I don’t exactly know… but can we take a break now?

Io / me: Sì, certo, possiamo fare una pausa (retro-pensiero: meno male!) / Yeah, sure we can (while I was thinking to myself: thank goodness!)

Ma… continua… (ne sono certa)

But… to be continued… (I’m pretty sure of it)

🙂