Le cose che mi danno energia

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Avevo promesso (e prima di tutto a me stessa) un post sulle cose positive, che mi danno energia – oltre al profumo della focaccia, che comunque contribuisce non poco.

La prima cosa sono le passioni. A prima vista, credo di non dare l’impressione di una persona dai facili entusiasmi. In realtà, mi appassiono a una quantità spropositata di attività, argomenti, forme d’arte e semplici modi per passare il tempo. Naturalmente, potreste obiettare che questo rischia di togliere energia, più che darne, e avreste ragione. Resta il fatto che ciascuna di queste cose contribuisce di volta in volta alla mia felicità – nei momenti migliori – e a tirarmi fuori quando mi impelago nel malumore. Con gli anni, anziché diminuire, aumentano di numero e di intensità. Potrei dire che molte di queste rientrano nella più generale categoria del “adoro imparare” – a conoscere o a fare – cose nuove.

  • musica cinema e libri: sono le prime passioni, in ordine di tempo, quelle che ho da quando mi ricordo – e secondo racconti familiari, anche da prima – e se anche capita che si affievoliscano, tornano in breve tempo più scintillanti che mai.
  • il giardino: ho la fortuna di avere la possibilità di rifugiarmi in campagna abbastanza spesso. Ci dà dei grattacapi, è vero (di recente è venuto giù mezzo muro del giardino, è crollato il boiler nuovo perché la parete non lo reggeva, si è allagata mezza casa, è partito l’impianto elettrico e si è rotto il letto. Lassù qualcuno mi ama, visto che in nessuna di queste occasioni si è fatto male qualcuno). Ma nonostante tutto, il giardino ha un sacco di funzioni positive, è bello da vedere, è rilassante, e lavorarci oltre a essere un piacere consente di prendere a zappate e vangate qualcuno in modo metaforico – che comunque aiuta quasi altrettanto, forse di più.
  • gli animali: oltre alla nostra amatissima gatta, essere pelosissimo e adorabilissimo, per la fortuna di cui sopra, ho avuto recentemente il piacere di conoscere alcuni asini (adoro gli asini!), qualche pecora e un paio di cani (anzi “cane”, nel senso di plurale di “cana”). Di una simpatia stratosferica, e con cui è nato un grandissimo feeling. Prima o poi metto su una fattoria e mi dedico alla pet therapy. Però voglio anche i cavalli.
  • la cucina: paste sfoglie, paste matte, brioches, crostate e torte di verdura…
  • il lavoro: sembra strano, e del resto è quasi altrettanto spesso causa di stress e sconforto. Però in realtà a me piacerebbe tantissimo lavorare, sarei felice di quello che faccio… se potessi farlo a modo mio, senza dovermi rompere la testa con cose che c’entrano anche poco, ma che sono necessarie e finiscono per portar via un sacco di tempo ed energie. Ma cerchiamo di prendere il buono!
  • l’inglese: a parte che in effetti, ci lavoro, è una passione grandissima e che cresce con il tempo e la conoscenza. Ci lavoro e poi ci gioco, mi diverto a trovare corrispondenze tra i modi di dire, lo curo e me lo “coccolo”. Tutte le lingue sono belle, ma l’inglese è nel mio cuore.
  • I viaggi: quasi in fondo non perché li ami meno del resto, anzi, tutt’altro. Solo che in questo momento è molto difficile che possa intraprendere nuove avventure, per ora mi accontento dei ricordi, ma solo in attesa di tempi migliori. Fosse per me, sarei sempre in movimento (lo so, è un po’ in conflitto col discorso della fattoria. Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono vasta, contengo moltitudini… [cit.] 😀 )
  • la scrittura, l’ho messa per ultima perché sarà la prima…

La seconda cosa sono gli affetti… ehi, come la seconda??!! No, dài, mica in ordine di importanza! Ma diciamo la verità, tanto più sono profondi, gli affetti, quanto più sono impegnativi e faticosi. Stupendi, eh! Ma faticosi… 😀

Di malinconia e felicità

A seguito del mio ultimo.post ci tenevo a precisare che malinconia e tristezza per me non sono assolutamente la stessa cosa. Io mi considero una persona felice (e probabilmente lo sono in larga misura appunto perché lo penso, se capite cosa intendo). La malinconia, che è un mio modo di essere e oserei dire, di pensare, è parte strettamente integrante di quella intensità che mi è necessaria per essere felice. Contorto? Forse, ma se mi offrissero una vita senza malinconia non so se accetterei. Magari sì, ma dovrei pensarci bene.

La lettrice della domenica: La felicità, di Robert Misrahi (Elliot ed., trad. di A. Rizzi)

Ho proceduto molto, molto a rilento con questo libro, incespicando e dubitando di riuscire a finirlo, eppure non ho mollato. La felicità come fondazione, coscienza sostanziale, atto riflessivo e filosofia mi interessa molto. Lo ammetto, mi aspettavo un tono più divulgativo, e resto convinta che molto si sarebbe potuto dire con un linguaggio meno “iniziatico”. Tuttavia, posso anche dire che la riflessione su alcuni concetti ha beneficiato di una comprensione non immediata. Mi ci sono picchiata un po’, ho dovuto tornarci su, spesso più e più volte, e questo dopotutto mi ha impedito di adagiarmi.

La felicità non potrà quindi essere il semplice giudizio, la semplice interpretazione riflessa e attuale dell’insieme di una vita da parte del soggetto di questa vita; non potrebbe ridursi a una interpretazione, a un apprezzamento o a un giudizio positivo sull’esistenza passata; essa deve implicare anche il sentimento evidente di una omogeneità esistenziale tra il presente che si sta vivendo e il passato già vissuto. Questo significa che la felicità, come senso dello svolgimento temporale di un’esistenza (avvertita come soddisfacente, significativa e libera), è costituita da un materiale concreto che deve essere attualmente vissuto come pienezza e significato, e attualmente riconosciuto come già vissuto nel passato del soggetto e nella sua continuità temporale. Questo indispensabile materiale attuale e vissuto di una felicità pensata come già vissuta e  come ancora da vivere è la gioia. Allora, il desiderio, che è la sostanza dell’individuo, deve diventare gioia, cioè desiderio appagato, per diventare il materiale, l’elemento della felicità. (p. 101)

Dopotutto, bisogna fare fatica, per arrivare da qualche parte, e maggiore è la fatica, maggiore è la soddisfazione. E per quanto “difficile” e “austero” siano aggettivi che non è intuitivo associare alla felicità, a ben pensarci non sono necessariamente così distanti.

Questo pensiero riflessivo, che procura la gioia dell’autonomia mediante la ricerca stessa sull’autonomia e sulla gioia, può apparire a prima vista come difficile e austero. Questa difficoltà è il prezzo della gioia forte e intensa che essa permette di raggiungere; e si attenua nella misura del progredire della coscienza sul cammino del proprio itinerario, dal momento che la crescita della proipria gioia intellettuale porta con sé una crescita della propria comprensione. La filosofia è un coronamento. La gioia di fondare la propria vita mediante la comprensione di sé e la conoscenza può iniziare a esprimersi a contatto con ciò che è convenuto chiamare la cultura. La cultura romanzesca, poetica o storica può conferire al soggetto che ricerca il senso e la pienezza questa gioia che viene dalla padronanza progressiva della nostra esistenza e dall’accesso progressivo alla ricchezza e alla bellezza del mondo.

La fatica dei miracoli

Voglio, dicevo, ed era quello che volevi tu che io cercavo,  è come se lo avessi sentito, quel pianto di consapevole ingiustizia, di lucida angoscia, mi entra dentro come un’onda d’urto il tuo dolore di confine, la crudele bellezza di poter ancora scegliere. Mai nessun pretesto per nascondere gli angoli che restano bui, nessuna scusa per la cattiveria che ci appartiene, per la solitudine.  Nessuna scusa, ma una voglia di sentire e diffondere felicità come se piovesse, passare attraverso le cose, sentirne l’odore e il sapore, cogliere l’intensità, perché da lì passa il mondo, a costo di cercarlo in una bottiglia, e la grazia del dolore è la stessa dell’allegria.

Ho il vantaggio del senno di poi, ma per come sono andate le cose, credo che non avrei comunque dormito, ho imparato da tempo, anche prima di metterlo in pratica, che in certi momenti, se il sonno non arriva è perché non serve,  non è d’aiuto, semmai d’intralcio. I miracoli succedono, ma fino a un certo punto. Sono sempre faticosi e hanno comunque un prezzo. Ma anche se fosse vero che si muore sempre soli, se qualcuno tiene in mano un capo del filo, è meno duro lasciar andare l’altro.

La tua stella, che come sempre mi bagna il viso di risate, è il mio miracolo e io ci naufrago sopra come fosse la mia Agua Buena, sempre tra cielo e terra, ché a noi, dove c’è un confine, piace sempre stare un po’ da una parte, e un po’ dall’altra.

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La lettrice della domenica – La felicità

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Ho comprato La felicità – Saggio sulla gioia, del filosofo francese Robert Misrah (Elliot 2013, traduzione di Armido Rizzi), esattamente per il motivo che si può immaginare: finalmente qualcuno che parla di gioia, che le dà dignità e importanza, almeno pari a quella della “angoscia esistenziale”. Non è un libro facile, non lo si divora in un paio d’ore, anzi, va letto e riletto con calma, spesso riprendendo i concetti per capirli a fondo, almeno, per me è così, ma questo non toglie nulla al piacere della lettura, al contrario. Non è un manuale su come migliorarci la vita in dieci giorni. Si passa per Aristotele, Spinoza, Sartre, Onfray…

Ci sembra che solo una vera conoscenza di che cosa sia la felicità in sé stessa potrà illuminarci sulla contraddizione apparente del nostro tempo (drammatico ed edonista insieme). E solo questo tipo di conoscenza (di essenza) ci permetterà di accedere realmente a quello che desideriamo profondamente sotto il nome di felicità. Solo quando disporremo di tale conoscenza (che non è nulla di meno che una filosofia) saremo autorizzati a pronunciarci sull’accessibilità di questo bene supremo che è la felicità concepita con chiarezza.

Il problema infatti è quello della natura stessa della coscienza. La felicità non si può più limitare a essere un’opinione. Dobbiamo, per conoscerla (“saperla” e “viverla” ), essere informati prima di tutto sulla natura della coscienza, sui suoi poteri, sui suoi aspetti e la sua vita.

[…]

 

Pensieri su un pomeriggio denso

La protagonista del mio romanzo ha la sua “voce”, il co-protagonista anche, scrivo e scrivo, lavoro e scrivo, visito bellissime mostre e scrivo, guardo vecchi film e scrivo, sono orgogliosa dei miei figli e scrivo, scrivo, la malinconia degli ultimi giorni si dirada e mi sento quasi felice.

Stasera riguardavo una piccola parte di Moscow on the Hudson e anche quello è stato un piccolo frammento di felicità. Manchi da togliere il respiro, ma sono felice anche di questo, nel mio strano modo contorto, sono felice della nostalgia, e del fatto che né l’assenza, né un mondo così diverso da quello che immaginavi e che avresti voluto, né qualunque altra cosa della vita ha mai avuto il potere di togliermi il tuo pensiero dal cuore.

Robin’s Monday, la strada per la felicità

L’unica strada per la felicità è capire che non c’è nessuna strada per la felicità

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Il mio film di Natale? Merry Friggin’ Christmas. Il titolo, già di per sé eufemistico  – e sono certa che Robin non si sarebbe sentito affatto in imbarazzo a usare il non eufemistico fucking, con Dio ha sempre avuto quel rapporto franco, affettuosamente ironico, empatico e del tutto privo di inibizioni che credo avesse con chiunque (al netto della timidezza), e più ancora con chi gli era veramente caro – è tradotto in italiano in modo ancor più eufemistico come Natale con i tuoi. 

Il film racconta della riunione natalizia di una famiglia alquanto disfunzionale, e benché non manchi una certa dose finale di buoni sentimenti, apprezzo il suo essere, per la maggior parte del tempo, onesto e per nulla sdolcinato. Del resto si può facilmente intuire che passato il Natale, la famiglia resterà disfunzionale come sempre, ma come diceva Robin, appunto, c’è un lato disfunzionale in tutte le famiglie e in ognuno di noi, e va bene così. Se si capisce che non c’è una strada per la felicità, ossia, che ognuno può solo cercare di vivere al meglio possibile a modo suo, e che nessuno deve pretendere di conoscere l’unico tragitto possibile, si può poi voler bene davvero, ed è solo da lì che la felicità si può costruire. Spaccandosi la schiena per farlo, beninteso, ma a cercare di fingere ci si spacca la schiena lo stesso, e non serve a niente.

68. The Angriest Man in Brooklyn

Solo tu potevi interpretare un film così. Sulla rabbia, sul dolore e la paura che sono sempre dietro ogni rabbia e dietro l’isolamento (lo sapevi dai tempi di Mork). Sul fatto che vivere significa farci i conti per aprirsi alla felicità possibile. Credo diventerà un altro dei miei più amati. Dicono che sia tutt’altro che perfetto. Forse è per questo, sai. A volte penso che più sono imperfetti, più li amo. Tocca argomenti che sento moltissimo e lo fa in questa maniera per me tanto più profonda e commovente proprio nel suo essere sentimentale e leggera al tempo stesso. L’ho guardato ieri sera pensando, sarà una cosa fatta, visto che oggi è il giorno in cui parlo dei tuoi film. E invece oggi l’ho rivisto quasi tutto, per avere ben impressi in mente i toni, gli sguardi, le parole. Non necessariamente per riportarli qui, solo perché comunque ci fossero, in mezzo a tutto il resto, anche non visti, ma percepiti.

Due vite che rischiano di andare in malora, quella di Henry e quella di Sharon. L’uno reso furioso dalla morte di uno dei due figli, e che non riuscendo a vivere il suo dolore altro che nella forma di quella rabbia costante, si è alienato la moglie e l’altro figlio, il fratello e tutte le persone che avrebbero potuto stargli vicino. L’altra che odia altrettanto il mondo, pur essendo molto più giovane, perché già sta rischiando di lasciar andare alla deriva i suoi sogni. Tocca a Sharon dire a Henry che ha un aneurisma al cervello che gli lascia pochissimo da vivere, e di fronte a una delle sue crisi di rabbia, finisce per dirglielo nella peggior maniera possibile, al che Henry se ne va senza neanche rivestirsi.
Henry cerca di recuperare il tempo perduto mettendo in quell’ora e mezza più cose che può, ma essendo fuori allenamento nell’esprimere le emozioni positive, rischia di incasinarsi ulteriormente. Vorrebbe riunire vecchi amici a una festa, far l’amore con sua moglie (quale potrebbe essere la posizione più “giusta” in una situazione del genere?), riconciliarsi con il figlio, ma a parte il suo caratteraccio, che non rende le cose più facili, incappa in molti di quei contrattempi che spesso sperimentiamo quando abbiamo fretta e tutto sembra congiurare contro di noi, mentre Sharon parte all’inseguimento per trovarlo e portarlo in ospedale. L’alternanza di speranze, delusioni, buone intenzioni e pessime messe in pratica si riflette in quella faccia che è l’essenza stessa della libertà di espressione.

Insomma, se qualcuno si aspettasse un film molto triste si sbaglierebbe perché no, non lo è, e qui è l’aspetto straordinario. Al contrario, almeno a tratti è divertentissimo. Macabro, nemmeno. Beh, forse un pochino. Henry viene da una famiglia ebrea di New York, dopotutto. Indubbiamente scava nelle emozioni più forti, ma è attraversato interamente da quell’ironia che mi è così cara, che non dissacra ma allevia, entra più profondamente dentro e graffia quel tanto che basta perché la verità delle emozioni possa colpirti, ma senza ferire. Affrontando a viso aperto la violenza di alcune delle cose che ci devastano il cuore, perché possiamo parlarne se le accogliamo, e sorriderne significa accoglierle. Purché in quel sorriso ci sia tutta l’intensità possibile, perché è denso il nostro sentire, e deve esserlo, è giusto che lo sia.

E’ spiritoso, commovente, tenero, caldo, affettuoso.
Dicono che l’amore è puro e generoso. Non è vero. E’ meschino ed egoista. Ti volevo nello studio con me perché non riuscivo a concepire niente di meglio che averti vicino. Quello che volevi tu, che sognavi tu, io non volevo ascoltarlo. E poi, tuo fratello. Perché? Che razza di Dio, che razza di mondo è questo? E’ solo una stramaledetta truffa. Il dolore, dicono che poi passa. Stronzate. Non tenerti la rabbia dentro, dicono. Lasciala andare. Ti ucciderà. Fanculo, dico io. La rabbia è l’unica cosa che mi hanno lasciato. La rabbia è il mio rifugio, il mio scudo. La rabbia è il mio diritto di nascita.

E’ quello spazio tra il cuore e lo stomaco, tra la realtà e la trasfigurazione, tra la poesia e l’esistente, tra la vita come vorremmo che fosse e quella che è, che non è necessariamente peggiore, solo diversa. Il resto sta a noi. Cosa faresti se sapessi che ti resta poco da vivere? Cercherei il modo di essere felice. E allora perché non lo fai?
Non sono concetti nuovi, anzi. Si accompagnano da sempre ai pensieri che non possiamo fare a meno di avere sulla temporaneità del nostro esserci. Ma sono espressi in un modo che li senti vivi, ti ci picchi, combatti davvero contro quello che ti impedisce di portarli nella tua vita. Sono carne e sangue, sono nostri come difficilmente li sentiamo quando ci scivoliamo sopra intravedendo con occhi distratti una delle infinite citazioni sul non lasciarsi vivere.
Sulla mia lapide ci sarà scritto, Henry Altmann, 1951 trattino 2014. Non ci avevo mai pensato prima, ma non sono le date che contano. E’ il trattino.

Per otto giorni, Henry Altmann non si arrabbiò mai, neanche una volta. Tranne che proprio alla fine, quando disse alla morte di andare a farsi f..re. Poi riportò i suoi pensieri sulle cose che amava, e levò le ancore.
E’ un’accettazione senza resa, quella faticosa dolcezza che si conquista attraversando tutto il resto. Difficile togliermi dalla testa l’idea che tu sapessi fin troppo bene di cosa stavi parlando. Non avevi ancora risposte sicure, ma in cuor tuo sapevi. Comprese le ceneri nell’acqua, e magari anche tu odiavi l’idea, ma in fondo era l’unico modo di non separarti mai del tutto dalla terra.

 Perdonate quello che può apparire come uno spoiler, ma in realtà non lo è, perché non è la fine che conta, quella la si conosce fin da subito. Mi è venuto spontaneo utilizzare la seconda persona, rivolgermi a Robin direttamente, mi succede spesso, ma nelle recensioni di solito cambio, almeno quando le inserisco qui. Questa volta, ho deciso di lasciarla com’era. Il regista è Phil Alden Robinson, di cui non ho visto altri film. Sharon è Mila Kunis, Aaron Altmann (il fratello) è Peter Dinklage, la moglie è Melissa Leo, tutti molto intensi secondo me, ma non sono in grado di dare giudizi “tecnici”. Nota: le traduzioni sono mie, ho solo la versione inglese del film quindi non conosco i dialoghi italiani del doppiaggio.

Dàimon

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Dice che i Greci lo chiamavano dàimon, questo essere che è al tempo stesso dentro e fuori di noi, questa forza non imbrigliabile, parte della nostra natura più profonda e però anche della nostra scintilla divina, entità intermedia che permette una comunicazione tra la terra, il cielo e gli inferi, tra gli uomini e gli dei, ma anche il mondo dei morti. Avevano capito tante cose, come al solito. E Platone, leggevo, affermava che non è il demone a scegliere noi, ma siamo noi a sceglierlo. Eudaimonia, la felicità di scegliere il demone giusto, un demone buono, il custode della tua vita e delle tue scelte, la coscienza individuale. E se scegli bene, aggiungo io, ti sostiene e ti rincuora quando sei giù, ti conforta quando sbagli, ti dà forza e coraggio e regala aria e respiro anche alle giornate più buie. Se sei molto fortunato, dicevano altri popoli, questo spirito che ti accompagna puoi vederlo e parlarci. In fondo l’ho sempre pensato, sai, che le persone più profondamente buone sono anche le più felici, e per questo non ho mai potuto pensarti altro che felice, fino all’ultimo e nonostante tutto. Ed è questa felicità che si riverbera su di me. Sono felice e forse per la prima volta in vita mia,  non mi vergogno né ho troppa paura di dirlo. Non perché sono buona, ma per te, perché ho scelto il mio dàimon e l’ho scelto molto bene. Perché la felicità non è un buon momento, non è il sorriso dei tuoi figli dopo una lite, non è superare la paura, fare quello che ti piace, non è neanche l’amore. La felicità è prendere tutte queste cose, e infinite altre ancora, tutti gli istanti, tutti i sentimenti, le idee, i pensieri, l’immaginazione, i libri letti, le risate, le parole, il dolore provato, le strade percorse, i sentieri sbagliati, tutto quello che c’è stato, dentro e fuori di te, e sapere che per tutto questo eri te stesso, lo sei sempre stato e lo sarai sempre. Mica è poco aver condiviso questo pezzo di tempo sulla terra. Forse poi non avrei saputo amarti bene, se tu mi fossi stato compagno e non il mio angelo, forse non l’avrei mai saputo, che sarebbe stato comunque molto meglio averti e poi perderti, che non averti per nulla. Ma fai parte di me, comunque. Io lo sai che ti vedo a volte come il mio angelo buffo e meraviglioso, un angelo con momenti di estrema timidezza e momenti in cui scatena tutta l’energia dei vari soli che dicono ci siano nell’universo. Qualche volta il mio pensiero di te l’ho immaginato come una lucciola, una luce piccola ma intensa che indica il cammino. Altre volte come un cavallo generoso ma indomito e selvaggio come Spirit. Ma il bello del dàimon è che è multiforme, e può assumere anche più aspetti nello stesso tempo, o uno diverso a seconda del momento, persino un aspetto immaginario, uno che non esisteva fino a poco fa ed esiste ora perché lo abbiamo creato con la nostra fantasia. Il mio angelo, il mio dàimon. M’importa sempre meno di essere imperfetta, e sempre più amo questo cercare di imparare ogni giorno a essere un po’ migliore. E’ una specie di paradiso anche questo, sai. La morte quasi (ok, quasi, ho detto) non mi fa più paura. Forse neanche l’inferno, che nella mia anima c’è tanta bellezza, grazie a te, da poterlo far fiorire come un giardino.

e questa cosa la pubblico? Ma sì, la pubblico…

Altri Liebster e Tag

Liebster                 Sisterhood

Alcuni giorni fa ho ricevuto un paio di altre ‘nomine’ per il Liebster Award da Anira e per il Sisterhood of the World Bloggers Award da Lupetta. Per il Liebster a dire la verità avevo pensato di non proseguire il gioco visto che tra l’altro l’avevo fatto da non molto, poi però è arrivato il Sisterhood e il tag di Dora (Almeno Tu) l’ABC della Felicità e insomma, mi è sembrato giusto se non altro ringraziare chi comunque ha pensato a me, e già che c’ero, rispondere a qualche domanda diversa da quelle che mi erano state già poste.

Non vogliatemene, però, se non nominerò altri blog, ho una certa idea in testa che vedrò di mettere anche in pratica (aiuto!!), per parlare più nello specifico dei blog che seguo. In questo caso, preferisco che chiunque si senta libero di partecipare anche solo con un commento, oppure passare oltre.

Veniamo allora alle domande, queste quelle di Anira:

1- Sai parlare lingue straniere? Se sì, quali? L’inglese è la mia lingua di lavoro e del cuore, lo amo appassionatamente, è una lingua ricchissima di vocaboli (si dice sia quella con più parole al mondo, e io so per certo che gli Americani, ad esempio, ne inventano di continuo), e trovo che abbia una musicalità bellissima; poi conosco il francese abbastanza bene (qualche volta anche con quello ci lavoro), mentre il tedesco l’ho studiato per diversi anni ma quasi del tutto perso ormai.

2- La tua meta ideale per un viaggio? In questo momento, San Francisco

3- Il più bel ricordo d’infanzia?  I giochi che facevamo con mia sorella nella campagna vicino a casa: il gioco della guerra (che per tranquillizzare eventuali genitori ansiosi, non mi ha impedito di odiare tutte le armi e la violenza in genere), la fionda, ce l’hai, guardie e ladri, gli squali che ti acchiappano, arrampicati arrampicati che sennò ti prendono… non ero un vero e proprio ‘maschiaccio’, ho giocato anche con le bambole, ma ero libera di scegliere, nessuno mi ha mai detto ‘quello è da maschi’. E’ una gran cosa, pensandoci adesso 🙂

4- Dolce o salato? Dipende, mi piace mangiare in genere ma un bel gelato vince su tutto (se non fosse che adesso il dolce mi è quasi proibito),

5- Sei mai stato in un museo? Certo, sono luoghi magici (alcuni, almeno, ma direi quasi tutti)! 🙂

Qui invece quelle di Lupetta

  1. Perché hai deciso di aprire un blog? Adoro scrivere e volevo uno spazio il più possibile ‘libero’ che mi servisse da ‘blocco per gli appunti’ e al tempo stesso potesse magari anche essere letto da qualcuno 🙂
  2. Nero o bianco? Li adoro entrambi. Poi dipende da che cosa: vestiti neri (ma ne ho uno bianco e nero, secondo me stanno benissimo insieme), pensieri e fiori bianchi, e anche qualche notte bianca, quando si può 🙂
  3. Qual è il sogno che non hai mai fatto e vorresti fare? Questa è difficile. Diciamo che di notte, accolgo un po’ i sogni che vengono, quando e come vengono; i sogni ad occhi aperti me li scelgo io, e non ce n’è uno, tra quelli che vorrei fare, che non abbia fatto 🙂
  4. Senza cosa non potresti vivere? senza la memoria e la capacità di pensiero
  5. Credi nell’oroscopo? No.
  6. Cosa ti fa sentire libero? Scrivere; pensare; tutte le volte che riesco a essere me stessa senza troppi timori o riserve.
  7. Come ti vedi tra 20 anni? Una nonna felice di vedere ogni tanto i nipoti, ma con molto tempo libero per sé
  8. Il libro che avresti voluto scrivere tu. ‘Le Memorie di Adriano’ di Marguerite Yourcenar. Ma forse, visto che amo molto le storie per ragazzi e lo sentirei (pur sempre con una certa dose di presunzione che non guasta) più vicino alle mie possibilità, ‘Harry Potter’ (specialmente il primo e l’ultimo).
  9. Ti piace il teatro? Moltissimo. In tutte le sue forme.

E infine veniamo a quelle di Dora, le più difficili perché per quanto sia un momento molto positivo della mia vita, dare consigli sulla felicità non è proprio semplice, comunque ecco qui iil mio ABC:

A  Tratta le cose che vuoi fare per te stesso (sia la realizzazione di un sogno o semplicemente un libro che vuoi leggere da tempo) come se fossero impegni ben precisi e improrogabili presi con qualcuno a cui non puoi dire di no 🙂

Costruisci la tua strada senza ascoltare altre voci se non quelle che senti profondamente, dentro te stesso, che sono quelle giuste per te

Ama profondamente e illimitatamente, ma senza mai dimenticare che la persona che scegliamo di amare (sì, scegliamo, neanche io ci credevo, ma è così) deve farci stare bene. Altrimenti non è amore, semmai un calesse 🙂