(riflessione personale). Tendiamo a dimenticarci quanto difficile sia stato, crescere, quando è toccato a noi. Quanto sia ancora difficile. Non possiamo chiedere ai nostri figli di essere pronti per qualcosa per cui noi siamo impreparati da molti anni.
figli
A madre complicata…
…figli complicati. È il karma, non posso neanche dare la colpa alle leggi della natura e della genetica, visto che non li ho “fatti” io, e nemmeno all’educazione, ché già erano così fin dall’inizio. Eh, ma a noi la vita complicata “ce piace”. Se le complicazioni non ci sono, ce le andiamo a cercare!
Addio al sassofono
Un momento davvero intensissimo sotto ogni punto di vista. Tippete ancora manca, specialmente in certi momenti, quando gli avrei preparato da mangiare, o quando si sentono certi rumori e ci voltiamo di scatto, quasi aspettandoci davvero di vederlo saltar giù da una sedia, o saltarci sopra, muovendo nel processo tutto quello che può esserci intorno.
I premi letterari sono soddisfazioni enormi, viaggi bellissimi e sfiancanti, desideri che si realizzano e desideri nuovi.
Col figlio “piccolo” si parla, lo si tiene tra le braccia, si sta a distanza quando è il caso, si protegge e si lascia andare, si culla quando sembra davvero più “bambino” e si accompagnano i momenti in cui la crescita diventa evidente tutt’a un tratto e intravedi l’uomo che speri diventerà, difficile, inquieto e splendido.
Col figlio grande si parla, si ascoltano soprattutto i suoi silenzi, il non detto, si guardano i gesti, le cose pratiche che per lui sostituiscono quasi sempre le parole, si cerca un raro sorriso, la traccia di un dolore che forse non c’è, o forse tiene dentro.
Negli ultimi dieci giorni ho stralavorato, a compensare il lavoro che era mancato per quasi un mese, tra ricoveri e altro. Aspetto quella piccola operazione, e l’attesa, si sa, è snervante. Mi sento spesso più debole, come se l’età che prima non contava, se non molto poco, adesso si prendesse il suo spazio, ho meno energia, giornate meno lunghe.
Però scrivo, in questi due ultimi giorni, perché per una settimana è stato impossibile, non riuscivo neanche a vedere dieci minuti di film, niente. Ma adesso scrivo, tanto, e in questi momenti c’è una magnifica sensazione di fluidità, come se tutto andasse come deve andare, tutto si trovasse nel posto dove deve essere, almeno interiormente, che poi il mondo è un casino ma questo lo sappiamo.
E poi ci sei tu, che racchiudi ogni assenza e ogni presenza, ogni poesia e ogni piccolo passo, ogni stanchezza e ogni parola, ogni paura e ogni momento felice, la felicità dell’inizio e l’addio di un amico e di tutto quello che si lascia indietro, tutto in un unico sguardo, e in quel brivido che era quasi scomparso dalle mie labbra, e che ho ritrovato stasera. Un tuo sguardo, e io mi sento come se mi fossi persa e ritrovata nello stesso momento. Com’è bello guardarti. Perché a volte vorrei avere il coraggio di non farlo? Lo so, a volte costa fatica, ma il mio piccolo universo è tutto nel tuo sguardo.
Pensieri su un pomeriggio denso
La protagonista del mio romanzo ha la sua “voce”, il co-protagonista anche, scrivo e scrivo, lavoro e scrivo, visito bellissime mostre e scrivo, guardo vecchi film e scrivo, sono orgogliosa dei miei figli e scrivo, scrivo, la malinconia degli ultimi giorni si dirada e mi sento quasi felice.
Stasera riguardavo una piccola parte di Moscow on the Hudson e anche quello è stato un piccolo frammento di felicità. Manchi da togliere il respiro, ma sono felice anche di questo, nel mio strano modo contorto, sono felice della nostalgia, e del fatto che né l’assenza, né un mondo così diverso da quello che immaginavi e che avresti voluto, né qualunque altra cosa della vita ha mai avuto il potere di togliermi il tuo pensiero dal cuore.
Miti da sfatare sull’adolescenza
Condivido, sì, e mi ha fatto davvero un immenso piacere questa conferma di quello di cui, tra mille dubbi e timori, sono comunque convinta, proprio in questo momento in cui mi prende a volte lo sconforto. Mi spiace non poter tradurre l’articolo ora, se riesco e se siete interessati cercherò di farlo. A grandi linee, comunque, il succo è questo: gli adolescenti non si comportano volutamente in modo da portarci all’esasperazione, ma i cambiamenti psicologici e ormonali a cui sono soggetti rendono difficilissimo per loro controllare i propri impulsi. Per questo motivo cercare di “portarli alla ragione” con prediche e simili è del tutto inutile, mentre è utilissimo comportarci, noi adulti, in modo “ragionevole/razionale”, perché questo mostra loro che siamo capaci di trovare strade e soluzioni. Essere amorevoli e dare attenzioni e abbracci, senza fermarsi alla prima rispostaccia, può sembrare in alcuni casi un eccesso (“dopo tutto quello che abbiamo già fatto per loro!”), ma se il criterio è vedere che cosa funziona, bene, questo funziona. Più di qualunque punizione (che nel caso va comunque mantenuta entro limiti molto modesti, tanto una maggiore severità non ottiene risultati migliori).
Does this scenario feel familiar? Marisa is 12-and-a-half years old. She has become moody and irritable, wants much more private time alone in her room, but spends it all socializing with friends on social media. She has little time for the family. She will “agree” to eat dinner with her mother, father and younger brother…
Lo so, è esagerato, non c’entra, è un paragone che non sta in piedi. Ma le critiche alla (vergognosa? si può dire?) campagna pro-fertilità che ho letto in questi giorni hanno più di un difetto: sono intelligenti, ironiche, ragionate, moderne. Quindi non credo che possano aver presa su persone capaci di ideare questo tipo di pubblicità-regresso. Appena ho visto manifesti e slogan, l’accostamento nella mia testa è scattato immediatamente. Per una volta, reagisco di pancia e posto, con tutte le iper-semplificazioni del caso e senza filtri.
Comunque la campagna ha già ottenuto almeno un risultato, quello di spostare l’attenzione da altri temi più urgenti, più importanti e che non si possono risolvere con qualche slogan improvvisato e un paio di foto dalla rassicurante aria un po’ antiquata (tipo le orecchiette della nonna, per dire, i campi verdi e le spighe di grano stampate su una confezione di pappa bell’e pronta).
UN LEONE A COLAZIONE – Intorno all’adozione / ADOPTION IS NOT JUST AN OPTION – 2
Chi ha letto la scorsa puntata di Un leone a colazione, ricorderà che abbiamo lasciato il nostro re e la nostra regina senza figli a pensare al loro desiderio di avere un bambino, come aveva loro suggerito la vecchia, saggia signora del bosco.
Il re e la regina pensarono a lungo, discussero tra loro. “Io vorrei che nostro figlio ricevesse l’educazione di un principe o di una principessa” diceva il re, “e che un giorno diventasse re o regina al nostro posto, quando saremo vecchi e stanchi. Sarà sangue del mio sangue, gli insegnerò tutto quello che so e così lascerò qualcosa di me nel mondo quando dovrò andarmene”. La regina diceva “Io me lo immagino già, un bel fagottino da coccolare e abbracciare e riempire di baci e carezze”. “Sicuramente sarà bellissimo”, diceva il re, “magari avrà i tuoi occhi”. “Oh”. Rispondeva la regina. “A me piacerebbe che avesse i tuoi”.
A loro piaceva molto fare questi discorsi, immaginare come sarebbe stato il loro bambino, come sarebbe cresciuto, il suo futuro, le qualità e i difetti che avrebbe preso dal papà e dalla mamma. Si divertivano a pensare a chi avrebbe assomigliato di più e al nome che gli avrebbero dato.
Ma quando tornarono dalla vecchia signora e le raccontarono i loro discorsi, lei li guardò un po’ pensierosa e poi disse:
“Manca qualcosa, non credete?”
Il re e la regina si guardarono perplessi.
La vecchia signora sorrise con indulgenza. Ne aveva visti tanti come loro. Erano pieni di buone intenzioni, potevano sicuramente essere dei bravi genitori ma…
“Beh, mi avete raccontato i vostri desideri, come voi lo immaginate, come vorreste che crescesse. Ma che mi dite dei suoi desideri, di come lui o lei potrebbe immaginare i suoi genitori, di come lui o lei vorrebbe crescere? Perché un figlio dovrebbe volere voi come papà e mamma? E se scegliesse per sé un futuro del tutto diverso da quello che voi immaginate? E se non avesse i vostri occhi e non vi somigliasse per niente?”.
Il re e la regina a questo punto si sentirono un po’ smarriti. Chiesero ancora un po’ di tempo per pensarci e la vecchia signora sorrise benevola. “Naturalmente”, disse. “Tutto il tempo che vi serve. La fretta non è mai una buona consigliera, ma in queste cose, meno che mai. Quando vorrete tornare, io sarò qui ad aspettarvi”.
E così si salutarono, per il momento…
Chi volesse leggere la prima puntata la trova qui
Due supereroi col raffreddore
Nevica. Fiocchi lenti, senza grazia, appesantiti da un residuo di pioggia. I musi dei nostri due bambini sono appiccicati ai vetri della macchina con avida meraviglia. E sì che glielo avevamo detto, che a Genova nevicava. Ma in Brasile – 34-36 gradi all’ombra, e una temperatura percepita di 40, un paio di giorni di pioggia fina dimenticati, sommersi da due mesi di sole spietato – era stato difficile per loro crederci. “Nevica nada”, dicevano. Ossia: “non nevica no, non è possibile”. Forse si aggrappavano all’idea che per quanto diversa, l’Italia non poteva essere un mondo agli antipodi, dove l’estate era inverno e l’inverno era un inverno vero, con la pioggia, il freddo e quella strana cosa bianca che poteva sembrare polistirolo, ma a toccarla ti gelava le mani davvero. Che poi in effetti anche a genova nevica di rado. Ma tant’è…
Non so com’è stato, a dire la verità, che a un certo punto si sono abituati ad avere freddo. Forse pensavano, all’inizio, che dovesse essere una specie di inatteso calo della temperatura fuori stagione, o forse credevano di risvegliarsi da un sogno e ritrovarsi in estate, finché a un certo punto hanno realizzato che non stavano dormendo e che l’estate tardava un po’ troppo a venire. O forse è stato quando il più grande, che pensava di essere Ben Ten (personaggio di moda all’epoca sia in Brasile che in Italia, a ridimensionare le distanze), ha improvvisamente dovuto fare i conti con la dura realtà che anche i supereroi possono prendersi il raffreddore.
Nel lungo percorso che va dalla domanda di adozione al momento in cui finalmente incontri i tuoi figli, ti preparano ad affrontare le loro storie drammatiche, il loro dolore, il possibile rifiuto dei primi giorni, la loro aggressività, le tue paure, il tuo senso di inadeguatezza, la fatica di dover essere “l’adulto” e prendere sulle tue spalle tutto quello che loro vogliono scaricarci. Ma c’è sempre qualcosa che ti spiazza, magari la più banale. Per esempio, questa lunaticità termica, questa meteorologizzazione dei sentimenti. Ieri a 10 gradi se ne stavano in canottiera e senza calze, oggi con 26 gradi hanno freddo e chiedono una coperta in più nel letto. E tu capisci che ha qualcosa a che fare con il loro cuore, con la paura e con l’irrequietezza, con l’abbandono e la difficoltà di avere fiducia. O almeno pensi che sia così. E con questo? Cosa fai allora? Devi assecondarli? Devi pretendere che si adeguino alle condizioni climatiche reali? E fino a che punto? Se “il piccolo” si copre troppo perché vuole sentirsi protetto e tu lo costringi a scoprirsi perché fa caldo, gli togli la possibilità di decidere da sé quanto e come vuole lasciarsi andare? E se “il grande” si lamenta del caldo ma pretende lo stesso di tenere il copriletto di quando è arrivato perché magari lo considera rassicurante, gli togli sicurezza se metti quel copriletto a lavare? Magari uno li sgrida e li coccola e li punisce e li consola senza mai pensare alla loro storia, che è, credo, la scelta più giusta, perché un figlio è un figlio. Punto. Per il novanta per cento del tempo. E poi d’improvviso ti ricordi di quante ne ha passate, così, senza una ragione plausibile, solo perché si vergogna di aprire l’ombrello quando piove o al contrario, perché lo apre anche quando non piove, per ripararsi da chissà che cosa.
Questo piccolo frammento risale a un bel po’ di tempo fa, quasi all’inizio della nostra storia di famiglia a quattro. Da allora è caduta molta altra neve e molta acqua è passata sotto i ponti, a volte anche vere e proprie tempeste, in cui l’unica cosa da fare è cercare di tenere la barca in equilibrio tra le onde, aspettando il sole.
I genitori non sono più quelli di una volta
45 anni, un figlio di 15, un bel sorriso e un divorzio alle spalle. Queste erano le cose che ti saltavano agli occhi quando pensavi a Eleonora. Si potrebbe aggiungere, per i curiosi, che era commessa ai Grandi Magazzini Coin e amava le troffie al pesto, ma erano dettagli inessenziali, pennellate di colore a completare il quadro, diciamo.
Suo figlio Maurizio ogni tanto la faceva ammattire, come quando era uscita la prima volta con Fulvio, l’uomo che per adesso era ancora nella sua vita.
– Dove vai? – Le aveva chiesto con aria indifferente, vedendola uscire in gonna e camicetta discretamente sfiziose, catenina al collo e una scia di profumo. Impiccione.
Fulvio aveva fatto un po’ di confusione con degli acquisti, lei gli aveva risolto qualche minuscolo inconveniente, davvero niente di che, ma c’era stato un incontro di sguardi solitamente sfuggenti. In quegli occhi di uomo senza particolari attrattive lei aveva visto qualcosa. E lui forse anche. Banale così, proprio, ma anche le cose banali qualche volta funzionano. C’era da sperare che quella fosse una di quelle volte.
– Chi è questo Fulvio, sei sicura che ti puoi fidare? – Ancora Maurizio. – Senti, portati il cellulare, e semmai mi chiami che ti vengo a prendere, ok?
– Ehi, ma chi è il genitore qui? Non pensi che alla mia verde età dovrei sapermela cavare?
Sguardo beffardo. O geloso.
Ma poi, il giorno che con Fulvio avevano festeggiato il primo mese insieme, era tornata a casa e l’aveva trovata invasa dai fiori.
– Cazzo – aveva detto, ormai non sentiva più il bisogno di trattenersi davanti a quel figlio disinibito.
– Ma… sono tutti di Fulvio?
– No – le aveva risposto lui, piccato. – Sono miei. Non posso farti gli auguri?
Ma certo che sì. Solo perché le aveva fatto scenate di gelosia fino a mezz’ora prima che uscisse, non significava che non potesse farle gli auguri. Così come il fatto che si fosse tatuato un drago sul braccio e indossasse un’aria perennemente strafottente come se avesse fatto parte da sempre dell’abbigliamento quotidiano, non significava che non avesse i suoi momenti di tenerezza. E il fatto che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che farsi vedere a leggere un libro, non significava che non stesse di notte con la lucina accesa sotto le lenzuola. Almeno, c’era da crederlo, perché tutti quei libri che avrebbero dovuto essere nuovi e mai toccati, presentavano sospetti segni d’uso.
Eleonora ripensava a queste cose mentre, a duecento metri da casa, aspirava voluttuosamente la seconda sigaretta della giornata. Mica fumava tanto, mai più di due. Ma se l’avesse vista Maurizio…
Finì di fumare che mancavano ancora cento, centocinquanta metri. Masticò perfino una caramella alla menta. Tutto inutile, lui aveva antenne da radar.
– Ah ma’, sei vecchia, guarda che fumare non è più di moda, non lo fa più nessuno. Che vuoi, ammazzarti prima del tempo?
Arroganza a nascondere un segreto terrore.
– Cosa dovrei fare, secondo te, farmi uno spinello? Magari sei capace pure di dirmi che fa meno male delle sigarette.
– Può darsi – improvvisamente serio. – Ci sono studi che lo dicono.
Un pensiero improvviso.
– Non è che te li fai anche tu, gli spinelli?
– Ma no ma’, uno solo l’anno scorso, sennò quelli poi mi prendevano per il culo per il resto della vita.
Lei fu tentata di dargli un ceffone, lo scrutò, aveva la faccia innocente, forse stava dicendo la verità. Speriamo. Gli lanciò uno sguardo pieno di rabbia affettuosa, lo stesso modo in cui lui la guardava quando lei fumava. Forse si capivano più di quello che credevano.
– Ehi campione, invece che fare le ramanzine a tua madre, vedi di metterti un po’ a posto quello schifo di stanza. Ah e poi guarda che domani sera sono fuori a cena.
– Di nuovo fuori a cena? Non ti sembra di esagerare? E a che ora torni?
– Questi sono fattacci miei ragazzino.
– Ah – grugnì lui. Una smorfia, esasperazione subito stemperata in un mezzo sorrisetto. – Proprio così – fece, alzando gli occhi al cielo. – I genitori non sono più quelli di una volta.