Confini

È difficilissimo a volte stabilire i confini tra noi stessi e gli altri; i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni, di cui siamo responsabili, e quello che provano gli altri, i loro comportamenti. Per quanto amore possiamo provare per una persona, e per quanto empatici possiamo essere, non possiamo realmente metterci al suo posto. I confini sono essenziali, per essere di sostegno senza che questo diventi per gli altri una “scusa” per addossarci un dolore e una rabbia che non sanno dove rivolgere. Mi può addolorare profondamente vederti triste, ma il mio dolore deve restare separato dal tuo, altrimenti mi travolgerebbe, e io voglio avere la forza di aiutarti a uscire dell’abisso (fermo restando che devi uscirne tu), non il dubbio coraggio di buttarmici dentro insieme a te.

Miti da sfatare sull’adolescenza

Condivido, sì, e mi ha fatto davvero un immenso piacere questa conferma di quello di cui, tra mille dubbi e timori, sono comunque convinta, proprio in questo momento in cui mi prende a volte lo sconforto. Mi spiace non poter tradurre l’articolo ora, se riesco e se siete interessati cercherò di farlo. A grandi linee, comunque, il succo è questo: gli adolescenti non si comportano volutamente in modo da portarci all’esasperazione, ma i cambiamenti psicologici e ormonali a cui sono soggetti rendono difficilissimo per loro controllare i propri impulsi. Per questo motivo cercare di “portarli alla ragione” con prediche e simili è del tutto inutile, mentre è utilissimo comportarci, noi adulti, in modo “ragionevole/razionale”, perché questo mostra loro che siamo capaci di trovare strade e soluzioni. Essere amorevoli e dare attenzioni e abbracci, senza fermarsi alla prima rispostaccia, può sembrare in alcuni casi un eccesso (“dopo tutto quello che abbiamo già fatto per loro!”), ma se il criterio è vedere che cosa funziona, bene, questo funziona. Più di qualunque punizione (che nel caso va comunque mantenuta entro limiti molto modesti, tanto una maggiore severità non ottiene risultati migliori).

Does this scenario feel familiar? Marisa is 12-and-a-half years old. She has become moody and irritable, wants much more private time alone in her room, but spends it all socializing with friends on social media. She has little time for the family. She will “agree” to eat dinner with her mother, father and younger brother…

via 3 Myths About Your Teen’s Bad Attitude — TIME

E questa è fatta!

Image result for bird learning to flyAdesso è ufficiale: ne eravamo certi ma ho voluto aspettare i quadri, e posso dire che Figlio Junior ha passato l’esame di terza media! Dopo quasi tre anni di fobia scolare (certificata) era tutt’altro che scontato, anche solo il fatto che si presentasse non era certo al cento per cento. Devo dire però che abbiamo trovato un ambiente splendido, come insegnanti e come compagni, che abbiamo tifato tutti per lui, che è stato accolto, sostenuto e da parte sua ce l’ha messa tutta, adesso siamo tutti orgogliosi e felici… anche se lui si sta già facendo venire le ansie per le superiori, ma in realtà è abbastanza propenso a godersi l’estate in relax come tutti gli stiamo consigliando, a essere fiero dello scoglio superato e a guardare avanti con più fiducia. Piano piano, le ali crescono…

Darsi tempo

La pazienza, la fiducia… a volte sembrano solo parole, sai? Non mi rimproverare, se metto su una faccia forte e tranquilla per il mio piccolo e dentro piango, e lo faccio anche fuori, quando lui non mi vede (a volte anche quando mi vede, benché non vorrei). Ce la sto mettendo tutta, lo sai. So quello che ho, ne faccio tesoro e sempre più spesso dico senza troppo timore che sono felice. Sono felice perché sento che mi sto avvicinando a essere me stessa. Ma il mio ragazzone, così grande all’esterno e così ancora cucciolo a volte, e tuttavia non più interamente cucciolo, perché fa così tanta fatica? E perché facciamo così fatica noi a mettere passione nell’essere genitori, a riconoscere e trasmettere la gioia? Oh, non sempre, questo è vero. Quando balliamo e saltiamo e ridiamo insieme e tutto sembra improvvisamente lieve. Faccio la strega e non l’avrei mai pensato, di lasciarmi andare così. Non del tutto, ma dammi tempo. Amo tanto farlo ridere, o vederlo e sentirlo ridere per qualunque cosa. Se sono le tue poi… allora davvero tutto mi sembra possibile, l’ansia si allontana e sento che ce la stiamo facendo. Ma come è difficile dare tempo, a sé e agli altri. Come è impegnativa la pazienza. Come è dura quando tu sai che attraverso tante prove difficili sei arrivato a diventare la persona che sei, e la ami la persona che sei, ma ti sembra di non riuscire a tirarla fuori questa cosa, nel modo giusto perché possa essere d’aiuto. Ok, hai paura, lo so perché l’ho avuta anch’io, ma so anche che puoi farcela. Perché ci sono passata. Senza che suoni come una predica o una lezione di vita, come mi ha detto oggi. Sono cose che vengono dal cuore, perché vengono dalla mia esperienza, non da cose che ho letto, gli ho risposto. Ma è così tanto più facile insegnare quello che si sa che ascoltare e aiutare un altro a trovare la sua voce.

Essere genitori (frammenti di un’intervista)

Posto qui un piccolo segmento dell’intervista a Robin Williams di cui parlavo ieri, mi serve a fissare meglio quei pensieri che del resto somigliavano ai miei già da prima, e non poteva essere altrimenti, ma non espressi in maniera così limpida.

Era stata fatta in occasione di Jumanji, film d’avventura per i bambini, criticato talvolta perché fa “troppa” paura ed esplora emozioni come la solitudine e la paura dell’abbandono. L’intervista indaga quindi temi molto profondi legati a questo.

Primo tema: riconoscere la paura, perché molti padri, come quello di Alan nel film, si limita(va)no a dire ‘se temi qualcosa, alzati e affrontalo’. I bambini, sottolinea lui, hanno paure e incubi, così come sono certi che strane creature vivano sotto i loro letti e che la mobilia di casa possa essere altrettanto minacciosa di un enorme albero nella giungla. Pretendendo di tenerli al sicuro si finisce per non riconoscere la loro paura, appunto, fargliela quasi pesare. Perché possano vincerla devono accettarla, e in questo possiamo aiutarli, raccontare magari la paura che abbiamo avuto noi per tanto tempo (come Alan nel film), per trasmettere il messaggio che c’è ed è giusto che ci sia, ma si può affrontare. Magari esagerando a tal punto i motivi dell’ansia, mettendoli in scena in modo così bizzarro da renderlo buffo e così, alla fine, ridimensionarlo (e no, l’incantesimo Riddikulus non era ancora stato inventato).

Secondo tema: la solitudine, l’abbandono e la costruzione delle relazioni. E’ proprio questa una delle angosce maggiori, dice lui nell’intervista, ed è abbastanza evidente che sta pensando a sé (ma non potrei essere più d’accordo, è una cosa che ho vissuto sia per esperienza diretta che indiretta). Infatti la domanda arriva puntuale, tuo padre somigliava molto a quello del film? Sono momenti molto delicati e commossi, nel ricordo di quel padre (già morto da anni all’epoca) severo ed elegante, spesso lontano per lavoro, e del proprio timore di non riuscire a stabilire un contatto. Invece, erano diventati molto uniti prima della sua morte, anche perché, essendosi trovato a non poter realizzare un proprio sogno, lui aveva “visto” l’amore e la passione di Robin per la recitazione e lo aveva sostenuto, per non permettere che gli succedesse la stessa cosa. Il film, dice ancora nell’intervista, lavora sulla consapevolezza dei bambini che quando un legame si interrompe per qualche motivo, si può tornare indietro e riaggiustare le cose. E questo è un punto di non secondaria importanza per me in questo momento.

Terzo tema (ovviamente sono tutti collegati): cosa significa essere genitore. La domanda era: qual è la più grande avventura per te? Risposta: crescere dei bambini, perché richiede tutto te stesso, perché loro ti permettono di viaggiare nel tempo, perché in qualche modo puoi tornare indietro e rivivere, o rielaborare, diciamo, il modo in cui sei stato cresciuto tu e sperimentare tutto di nuovo, quando vedi il loro senso di meraviglia per ogni cosa, e le loro paure e fragilità, e in qualche modo devi far fronte a questo.
Quasi come crescere un’altra volta, osserva l’intervistatore.
Sì, questo ti succede per forza, devi, in certa misura, ma devi essere anche l’adulto… se ti limiti a tornare bambino con loro, ti metti in competizione, non è il tuo ruolo.

Quanto amo scorribandare tra i suoi pensieri…

Giornata fruttuosa

Gran parte della giornata, oggi, fruttuosamente trascorsa guardando e ascoltando alcune delle tue fantastiche interviste online, che amo almeno quanto i film e gli spettacoli. E ne ho scoperta una (con te la meraviglia è sempre dietro l’angolo anche in questo, nella quantità incalcolabile di materiale preziosissimo da setacciare, che per me è di grande conforto) secondo me tra le più belle. Diversamente dal solito non l’hai trasformata in una corsa folle e sfrenata attraverso il mondo contemporaneo, quello passato, quello immaginario e tutti i libri letti e le persone incontrate, archiviati insieme nella tua incomparabile mente. Hai lasciato emergere invece il tuo aspetto più serio, acuto, intelligente e spiritoso, con quel cuore trasparente che non smetterà mai di commuovermi; senza comicità e senza malinconia, con il tuo pensiero inconsueto, mai banale, su qualunque cosa. Compresa l’educazione dei figli, che in questo momento… diciamo solo che mi serve ancora più del solito. Me la rivedrò domani mattina, perché voglio essere sicura di capirla completamente, so già che ne condivido ogni parola, ogni sfumatura.

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione – I genitori non sbagliano mai

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Titolo provocatorio, non perché io pensi che esistano genitori perfetti, non parliamo poi di me, ma perché ci facciamo sempre un bel po’ di problemi. Noi genitori, in generale, noi genitori adottivi, in particolare. Qualunque comportamento un po’ fuori dalla norma del nostro pargolo viene sezionato, analizzato, studiato al microscopio, ma più che altro nell’ottica del “che cosa abbiamo fatto di sbagliato?” Appunto. Ci sentiamo responsabili di tutto, anche di ciò che comunque non possiamo cambiare.

Ce lo ha confermato persino la Signora dei Boschi (qualcuno forse ricorderà, era il nome con cui indicavo la psicologa del Centro Adozioni quando raccontavo in forma un po’ fiabesca delle nostre vicissitudini).  Potrebbe sembrare non solo “naturale”, ma anche tutto sommato persino una bella cosa, ci si preoccupa, ci si fa carico del dolore e dell’ansia dei bambini. E lo è, entro certi limiti. Ma quello che noi dobbiamo imparare adesso, e che credo non sia facile per nessuno, è a fare un passo indietro. A trovare un confine.

Chiedersi troppo spesso dove si sta sbagliando finisce per ingigantire i problemi, drammatizzare e appesantire. quando poi, spesso non si tratta di errori. E’ che ognuno di noi è fatto in un certo modo e pensa, agisce, affronta le cose, positive e negative, perché quello è il suo modo, e non è né giusto né sbagliato. E’ il suo modo.

Detto questo, siccome siamo tutti diversi, il nostro modo di prenderci cura di quello che preoccupa i nostri figli potrebbe non essere quello che desiderano. Anche se è quello che magari noi, nella loro situazione, avremmo voluto con tutte le nostre forze. Confrontarsi con altri, cercare alternative e possibili soluzioni è sempre importantissimo e migliorare non solo è possibile ma è una bella sfida densa anche di possibili esperienze positive.

Cambiando, però, quel pensiero che, anche se non espresso con quelle parole, è sempre presente col suo fastidioso ronzio: non “che cosa stiamo sbagliando” ma “cosa possiamo fare di buono per te?”. Consapevoli anche che nemmeno i nostri figli spesso lo sanno perfettamente (anche se “potrebbero” saperlo meglio di noi, ma non è detto). E consapevoli che per accettare una mano tesa, una disponibilità, un sostegno potrebbe anche volerci del tempo, a volte sembra che i bambini e i ragazzi “non vogliano” il nostro sostegno. Possiamo anche farci un po’ da parte, rimanere per qualche tempo dietro le quinte, osservare da non troppo vicino.

Gli errori poi si fanno, certo, ma c’è una cosa sicura, ed è che a “esserci”, con tutto ciò che siamo e che sentiamo, non si sbaglia mai.

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Lo so, è esagerato, non c’entra, è un paragone che non sta in piedi. Ma le critiche alla (vergognosa? si può dire?) campagna pro-fertilità che ho letto in questi giorni hanno più di un difetto: sono intelligenti, ironiche, ragionate, moderne. Quindi non credo che possano aver presa su persone capaci di ideare questo tipo di pubblicità-regresso. Appena ho visto manifesti e slogan, l’accostamento nella mia testa è scattato immediatamente. Per una volta, reagisco di pancia e posto, con tutte le iper-semplificazioni del caso e senza filtri.

Comunque la campagna ha già ottenuto almeno un risultato, quello di spostare l’attenzione da altri temi più urgenti, più importanti e che non si possono risolvere con qualche slogan improvvisato e un paio di foto dalla rassicurante aria un po’ antiquata (tipo le orecchiette della nonna, per dire, i campi verdi e le spighe di grano stampate su una confezione di pappa bell’e pronta).

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Una cosa non capisco: questa nostra società che ci piace tanto poco è il risultato del modo in cui ci hanno cresciuti i nostri genitori, nonni e bisnonni e vari antenati ai quali possiamo risalire. Perché ci intestardiamo a credere che i buoni, vecchi valori tradizionali fossero meglio, che ci fosse più umanità, che i tempi irrimediabilmente peggiorino? Tralasciamo il fatto che i nostri ascendenti vicini e lontani hanno causato o partecipato a un bel numero di guerre, alcune delle quali di crudeltà inusitata; e tralasciamo anche le dittature che hanno funestato la vita di alcuni, ma nelle quali tanti altri hanno vissuto tranquilli come i famosi topi nel formaggio. A parte questo, dicevo, dobbiamo alla indiscussa autorità della cinghia un bel numero di danni, e altri danni li dobbiamo a quel principio per cui quello che fai bene è tuo dovere, ti punisco per quello che fai male, per cui non aspettarti lodi, mai.

Ci mancano dei punti fermi, questo è vero, e quindi non li sappiamo trasmettere. Ci pensavo in questi giorni perché non riesco a trasmettere ai miei figli (l’Orso Grande in particolare, perché la Bertuccia Piccola queste cose le ha dentro, per fortuna sua) l’impegno, il tempo da dedicare alle cose, la voglia di fare, ma prima di tutto questo l’entusiasmo, da cui nasce tutto il resto. E viceversa, veramente, perché è un circolo virtuoso, se una cosa ti piace le dedichi tempo e impegno, e quel tempo, quell’impegno, trasformano il piacere in passione, in entusiasmo. L’atarassia io non la concepisco, forse già l’ho detto, senza passione non potrei ma soprattutto non vorrei vivere. In pratica, so che il modo in cui si educava ai beati tempi era tutt’altro che perfetto, e non ho ancora trovato una valida alternativa.

Penso che sia questa una possibile causa comune del nostro malessere, in realtà. Siamo consapevoli che “questa è casa mia e qui comando io”, “ti ho fatto e ti disfo” e i vari “sguardi che non ammettono repliche”, prima ancora di essere non più proponibili, erano sbagliati in partenza. Li abbiamo contestati, discussi, sezionati e rigettati, e adesso ci tocca trovare qualcosa di meglio. Che è una bella fatica. Qui torniamo al punto di partenza: senza fatica, senza impegno, senza tempo dedicato, è possibile arrivare a qualcosa di buono?

Queste parole scrivevo ieri mattina, dopo una discussione di quelle toste (diciamo pure quasi un litigio) col figlio grande, con tanto di parole dure, da parte di uno e dell’altro. Ho pensato che quando sgridiamo un ragazzo adolescente o anche oltre (sui diciotto anni, poco più poco meno), lui/lei tende a mettersi sulle difensive e diventare aggressivo(a). Noi diamo la colpa all’età, alla fase particolare, gli ormoni, la crescita, e sarà tutto vero. Però mi sono resa conto che criticare è spesso più facile che trovare cose positive da dire, anche quando si è convinti che sottolineare il buono sia meglio che evidenziare ciò che non va. A me, almeno, succede. E ho riflettuto che non di rado siamo noi i primi a essere in certa misura aggressivi. E anche che spesso la nostra rabbia di adulti nasconde sia un dolore, sia un senso di inadeguatezza, e per questo non “funziona”. Perché forse, pensavo, gridiamo quando non riusciamo a farci ascoltare, quando, di fatto, ci sentiamo deboli.

Dopo quella “lite” qualcosa di positivo è scattato. In entrambi. E’ come se un piccolo pezzo di muro si fosse sgretolato. Mi sono un po’ lasciata andare, ho spiegato proprio questa mia difficoltà. Quando gli dico che buttano via la vita stando attaccati alla tv tutto il pomeriggio (sì, alla fine quasi sempre quello è l’oggetto del contendere), ho detto, non intendo che la buttano via in assoluto. Ma la vita è bellissima, qualche volta faticosa, dolorosa, difficile, ci sono cose che facciamo perché dobbiamo farle e non perché vogliamo, tutto vero. Ma  resta bellissima, se facciamo in modo che lo sia. E ho parlato, anche con loro, ma molto brevemente, due o tre frasi appena, di quelle mie idee che ho su entusiasmo, passione, fare cose con le proprie risorse.

Mentre lo dicevo a loro, ho sentito che ci credevo profondamente. E loro mi hanno ascoltato, e ho visto la loro espressione cambiare, aprirsi, e dopo Orsogrande ha cominciato a raccontarmi piccole cose, a interessarsi a quello che faccio. Granellini, ma ci sono. E in fondo, va detto anche, la lite era stata una lite tra genitori e figli, senza ulteriori qualificazioni, e anche questo è importante. Perché a volte ci si blocca al pensiero che loro sono adottati, hanno sofferto, che certe cose potrebbero prenderle male, che se gli dici… poi pensano… E invece la cosa bella è essere se stessi nelle risate, nelle arrabbiature, nella tristezza e nell’amore e loro lo sanno. E mi sono resa conto che anche quando mi sento un po’ goffa e penso che vorrei cambiare, poi in realtà dentro di me so che mi voglio bene, anche perché i miei principi sono realmente miei, e penso che sia vero per entrambi, come genitori, e che è quello l’importante. Anche se a volte non è facile comunicarli, ce li abbiamo dentro l’anima, e quindi non serve il “perché lo dico io”, ma serve il “perché è questo che migliora la tua vita e quella degli altri”. La strada è tutta da costruire, tra contestazioni, porticine che si aprono e si richiudono e poi si riaprono di nuovo. Si continua a cercare, che poi è l’essenza della vita, dopotutto, no?

UN LEONE A COLAZIONE – Storie di genitori e figli

pc5rrebni

Potrebbe anche essere un “Leone a colazione” fuori tempo, questo, ma in realtà credo siano semplicemente riflessioni abbastanza comuni di un genitore qualunque (o quasi qualunque).

Vedo spezzoni delle fiction, delle sitcom e dei cartoni che i miei figli guardano abitualmente e c’è sempre qualche genitore esasperato che ripete quello che noi ci sfiniamo a ripetere ai ragazzi, più o meno con le stesse parole, lo stesso tono irritato e irritante, e non so se mi dà sollievo o se aumenta il mio sconforto. Per la legge del mal comune mezzo gaudio, può esserci d’aiuto sapere che anche ad altri succede di brontolare, mugugnare, intonare litanie monocordi e poi anche di sclerare e persino di urlare istericamente. Non siamo soli, è vero. Ma siamo così banali, così noiosi? Beh, è ovvio che i nostri figli lo dicano, ci sta. Però fa un po’ male. Poi l’altro giorno il “piccolo” (la Bertuccia) mi chiede di fargli una faccia arrabbiata che gli faccia paura. Tento una smorfia spaventevolissima tale da incutere terrore anche negli eroi dai nervi più saldi e lui mi dice ‘sembri un troll’. ‘Beh’ tento una difesa in corner ‘in effetti i troll fanno abbastanza paura, no?’ ‘Sì, ma tu sembri la caricatura di un troll’ è la risposta. Ottimo. No, non credo che siamo sempre così banali e noiosi, dopotutto.