Questo rientro non è iniziato bene. Ho il cuore pesante, la lacrima facile e i nervi a fior di pelle. Vorrei gridare e spaccare tutto. Vorrei fregarmene di tutto e prendermi cura di tutto. Non tollero la distanza né la vicinanza. Non trovo il senso. Vorrei saper confortare e sostenere senza essere complice di una malriposta richiesta di attenzioni. Non so più quanto dolore c’è nella mia rabbia, o quanta rabbia nel mio dolore.
Scrivo di altro, di una me diversa, di un amore di carta che pure mi appartiene. Mi scavo dentro. Una volta, ho letto, hai pianto per due ore dopo aver girato una sola scena di un film (che del resto io ho molto amato). Un film che ti ha costretto a non uscire da te stesso, ha richiesto di guardarti dentro a fondo. E proprio quella forza emotiva, quell’urgenza vitale è stata così importante per ritrovare tante cose che avevano rischiato di andare perdute. Quel pianto, il tuo, il mio, è in un certo strano modo un balsamo, perché mi conferma che leggerezza e profondità non si escludono a vicenda.
Gioco è una parola così importante per me, una di quelle che avevo scelto per rappresentarmi, ma non fa parte della mia vita in questo momento. Non so dare fiducia alla vita e alla sua capacità di sorprenderci, alla sfida dei territori inesplorati, cioè, non so dargliela dove veramente sarebbe essenziale.
Il fatto è che non posso continuare ad affidarmi a un uomo che non c’è, per quanto speciale sia per me e la mia vita. Ho bisogno, un bisogno vitale di trovarmi, di sapere chi sono e cosa voglio e posso trasmettere. E a chi.
It’s like drowning, like running for your life. […] It’s all unknown territory. It’s like being in combat. I finished one day of shooting and thought, ‘God, I died.’ Even though it was only a single scene, I had this bizarre feeling, and I wept for a couple of hours after it. When I finally see the film, I’ll look back and say, ‘I did that.’ I’ll be proud. I feel proud now, but I just can’t say it yet because it’s not over.
E’ come affogare, come correre per salvarti la vita. […] E’ un territorio del tutto sconosciuto. E’ come trovarsi in combattimento. Ho finito un giorno di riprese una volta e ho pensato ‘Dio, sono morto’. Benché si trattasse di una sola scena, avevo questa bizzarra sensazione, e dopo ho pianto per un paio d’ore. Alla fine, quando vedrò il film, mi guarderò indietro e dirò, ‘ce l’ho fatta’ e sarò orgoglioso. Mi sento orgoglioso anche adesso, solo che non posso dirlo, appunto perchè non è ancora finito.
(Robin Williams, dall’intervista di William Wolf, Mork meets Garp, The New York Times Magazine, 1981).
E comunque non è un caso che io mi senta esattamente così dopo aver scritto anche solo mezza pagina. O due righe.
Poi non è neanche di questo che volevo raccontare, ma sembra che a volte le parole manchino proprio là dove servirebbero di più, o forse invece no, perché adesso già sto un po’ meglio, rispetto a quando ho iniziato il post, ieri. Le parole sono pietre, ma sta a noi decidere se lanciarle addosso ad altri, ingoiarle e tenercele sullo stomaco, costruirci case o sceglierne una particolarmente grande e vederla come una roccia. Qualche volta serve anche appoggiarsi. Forse le parole, come la vita, reggono più di quanto io riesca ancora a immaginare.