IL BOSCO – Fine

Siamo alla puntata conclusiva di questo romanzo, se qualcuno fosse incuriosito dalla parte precedente della storia, la trova tutta sotto la categoria “romanzo” nell’intestazione della home page, o cliccando qui. La numerazione dei capitoli e paragrafi è un po’ da rivedere ma voi non fatecitroppo caso… 🙂

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Il sole colpì l’orizzonte marino, creando una lama d’oro sulla superficie grigia dell’acqua, proprio sulla linea che la divideva dal cielo. La felicità è impossibile solo come concetto astratto, eterno e universale, pensò Matteo. Ma una felicità molto più modesta, molto più piccola, incerta e quasi sempre temporanea può avere la stessa forza di quella lama d’oro sulla linea dell’orizzonte, che rende un piccolo pezzo di vita così luminoso da essere quasi insopportabile, e persino il grigio diventa meno grigio, afferra il riflesso, la scintilla di quella bellezza divina che gli uomini forse possono solo intravedere. Era quella felicità che lui aveva sempre sfuggito, pensando che a una luce così priva di misura, smodata nel suo splendore, non avrebbe potuto seguire che la delusione e l’amarezza. Ma la delusione e l’amarezza, aveva scoperto, colpiscono anche chi non osa. E aveva ribaltato la prospettiva. Non subito, certo, gli era costato tempo e fatica e dolore, e moltissime volte aveva rischiato di tornare indietro. Ma aveva capito, adesso, che era quella la luce che gli uomini vedono quando inseguono Dio. La luce di un momento perfetto, che ha in sé il completamento di ogni cosa. Il momento in cui tutto quello che ti viene da pensare non è altro che sono vivo, sono vivo. Penso quindi sono. Amo quindi sono. E finalmente tutte le cose acquistano un senso.

       Dalla stazione si avviò a piedi al vecchio porto, si fermò a contemplare le vedute del canale, il bellissimo Castello del Faro e i giardini, riempiendosi gli occhi di ricordi, i capelli di vento e gli occhi di sabbia. La città si sviluppava intorno al porto, e benché fosse diversissima da Genova, qualche somiglianza gliela rendeva meno estranea, e bevve con avidità quei dettagli in comune.

Ma doveva andare, se voleva arrivare prima che venisse troppo tardi. Fece un respiro profondo, prese quasi lo slancio, ma non ce n’era bisogno. Il vento lo spingeva nella direzione giusta adesso, dolcemente, con leggerezza. In fondo a se stesso, e neanche troppo in fondo, lo sapeva bene, ancora temeva di perdersi. Ma una nuova consapevolezza si incarnò in un’idea lieve e un po’ sconsiderata. Non importa se mi perdo, gli venne da pensare. Il vento, comunque, conosce la strada.

 

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – VII

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VII

– Dicono che sia tutta una reazione chimica – disse Fabrizio.
– Cosa? – chiese Andrea, spiazzato.
– Tutto, il motivo per cui ti piace il suo viso, la luce che ti si accende negli occhi quando la guardi, il nodo nello stomaco, il fatto di continuare a desiderarla oppure no… solo chimica.
Si rivolgeva a lui a parole, ma lo sguardo era rivolto a Viviana. Non era chiaro se parlava di lui o di se stesso. Forse di entrambi, ma non riusciva a capire dove voleva arrivare.
Fabrizio distolse lo sguardo da Viviana, guardò Andrea, vide la sua perplessità e sorrise.
– Non so molto di chimica, ma mi è difficile crederlo. All’inizio, forse, ma poi entrano in gioco tante cose. E’ come un gioco a incastri, in cui la forza, le paure, le fragilità, le qualità, i difetti, ogni cosa deve essere complementare. Accettare un’altra persona nella sua totalità è un processo complicato, che richiede tempo, dedizione, rispetto. Stavo solo pensando che ci ho messo tutta la vita a capire tutta l’infinità di cose che mi legano a Viviana. E’ come il curry, un miscuglio di spezie, più o meno sempre le stesse, ma ogni donna indiana ha la sua ricetta speciale, e l’equilibrio dei sapori è la cosa essenziale.
Non era a quello che stava pensando, fino a un attimo prima. Era stato un pranzo tranquillo, avrebbe quasi detto allegro, sicuramente piacevole. Era stato bello vedere Elisa così evidentemente appagata, era stato bello poter pensare che forse lei e Andrea avevano trovato quella ricetta misteriosa.
Dopo mangiato erano “scesi in città”, avevano lasciato la macchina al porto, e adesso stavano salendo su per il colle di Santa Maria di Castello, l’origine, il nucleo primario della città. Da lì si dominavano le colline e il mare, come era essenziale per quella che doveva essere, tra le altre cose, una fortezza, al di sopra di quella baia naturale che era stata un porto da sempre.
Amava quel posto. Gli faceva sempre pensare alla ragione per cui aveva scelto il suo lavoro, la ricerca dell’equilibrio degli spazi. Altrove, in strade diverse, aveva scoperto la bellezza pura delle forme geometriche, la maestà un po’ fredda dei marmi, l’eleganza austera delle ardesie, ingentilite dal gioco dei colori, dei rilievi, delle luci e delle ombre. Strutture dalla simmetria perfetta, limpida, incontaminata, e decori volutamente eccessivi, in un contrasto ricercato e quasi drammatico. Aveva ripensato con un sorriso a quando, ragazzo, aveva chiesto tante volte, nei palazzi pubblici e privati, di poter vedere le sale chiuse, di poter andare oltre quelle porte dietro le quali immaginava – qualche volta a ragione – segrete opere d’arte che lo avrebbero portato più avanti sulla strada della soluzione dei misteri dell’armonia e della bellezza. Non sempre quelle sue richieste di essere iniziato alle profondità dell’estetica erano state accolte benevolmente, qualche volta erano state considerate un bizzarro capriccio, o un segno di sfrontatezza, come forse erano. Ma la sfrontatezza, qualche volta, porta i suoi frutti, e non era stato raro che gli venissero mostrati, in complice silenzio o a volte anche con compiaciuto orgoglio, tesori che agli altri restavano nascosti.
Quando era uscito dalla momentanea fuga nella nostalgia, si era accorto che già da parecchio Viviana, avendo capito il suo desiderio al volo, si era allontanata con Elisa, lasciandolo con Andrea. Aveva iniziato con quel discorso vago, venuto fuori bizzarramente senza una ragione visibile, per prepararsi a quello che voleva dirgli davvero.
– Non puoi dire se sei capace di amare una donna per tutta la vita, fino a quando la vita non è passata, e ti ritrovi ancora con lei, e in qualche modo ti sorprende, ti volti indietro e dici ma guarda, sono riuscito a tenerla con me, lei è riuscita a tenermi con sé, e ti chiedi che cosa c’era di speciale, perché sai che è speciale, sai bene che è una fortuna che non capita a tutti, ma non riesci a spiegarti che cosa hai fatto perché succedesse. Sì, alcune cose le ho capite. Quello che ho scoperto… ne ho parlato con Elisa, una volta. Non ho mai smesso di desiderare di conoscere Viviana a fondo, mi interessa parlare con lei, mi interessa guardarla, mi sorprende la sua forza, mi incanta il modo in cui si muove…. sono riuscito a non stancarmi mai di tutto questo.
Di nuovo alzò gli occhi per guardarlo, lo stesso sguardo schietto, penetrante, vivo e umanissimo con cui aveva sempre guardato tutto e tutti. Era appena più basso di lui, ma Andrea non ci aveva mai fatto caso. O era perché stava invecchiando? Non sapeva perché avesse pensato a questo, proprio adesso. Forse perché era inaspettatamente duro reggere quello sguardo. Forse perché all’improvviso sapeva di avere capito quello che Fabrizio stava cercando di dirgli, e non voleva capire, non voleva saperlo.
– Devi perdonarmi. In un certo senso ti ho fatto venire con un pretesto, anche se mi ha fatto molto piacere vederti, come sempre. – Aveva ripreso a sorridere, e Andrea sentì l’inspiegabile impulso di gridargli di smettere. Non riusciva a vederlo sorridere, gli faceva paura. – Credo… Elisa somiglia molto a sua madre, in quella vitalità, quella voglia di fare tante cose… forse è persino più impulsiva di Viviana, meno capace di lasciare le cose come stanno. Viviana gira intorno agli ostacoli, è più diplomatica, non si butta nelle cose a testa bassa, come Elisa… o come te. – Tranne quando si tratta di me, pensò, rivedendo nella mente il loro dialogo della sera prima. Allora diventava una pasionaria, e non aveva più paura di niente.
– Non sarà sempre facile vivere con Elisa. – riprese. – Ma d’altra parte non è sempre facile vivere con nessuno. Credo che tu la conosca bene, forse meglio di me, e vorrei chiederti un favore, anche so benissimo di chiederti molto, ma non so chi altro possa farlo.
Sì, pensò Andrea con uno scatto di ribellione quasi rabbioso. Io sono sempre la persona più adatta, per dare o togliere la speranza a qualcuno, per dire le verità peggiori, per vivere tutti i giorni con il dolore degli altri e renderlo sopportabile. Ma il dolore non è sempre sopportabile, e qualche volta succede che il tuo conforto non serve, succede che non c’è difesa, succede che persino le mie, di difese, possano crollare.
Adesso Fabrizio non sorrideva più, ma i suoi occhi si erano addolciti.
– Non credo che per consolare un altro sia sempre necessario essere incrollabili. Basta che tu ci sia.
Era incredibile. Come ci riusciva, a penetrare le barriere in quel modo? Non aveva mai conosciuto nessuno che riuscisse non solo a mettersi nei panni degli altri, ma a capire e condividere le loro emozioni con la stessa naturalezza.
– E’ questo che volevo chiederti, di starle vicino, perché credo che sarà molto dura per lei. – Fece una pausa quasi impercettibile, poi riprese. – Quando ho saputo che non mi restava molto da vivere, non volevo dirlo a nessuno. Mi sembrava che fosse una cosa che riguardava solo me, e che non avevo diritto di far soffrire anche gli altri. Adesso… adesso non ne sono più così sicuro. Forse è stato solo per orgoglio che pensavo di poterlo nascondere a Viviana. E’ quasi impossibile nascondere una cosa come questa a qualcuno che ti conosce da quasi trent’anni. Dirglielo è stata la cosa più dolorosa che abbia mai fatto, ma forse era giusto così. Ma per Elisa e Cristina è diverso, loro sono come figlie mie, se non fosse stato per loro, quando… quando è morto Raf non so se ce l’avrei fatta. Ma io non posso sapere se per loro sarebbe meno difficile essere preparate al dolore prima, oppure no. Ricordo quando è morto il padre di Elisa, lei… era così ferita, dal fatto che lui non le avesse detto niente, anche se sapeva di stare male. Ma come si può dire a un figlio una cosa come questa? Non so cosa fare, Andrea. Ho capito che la morte non è una cosa che riguarda solo te, coinvolge tutte le persone che ti sono care, che tu lo voglia o no, ed è spaventosa, questa impotenza, questa consapevolezza che non potrai mai, in nessun modo, risparmiarli, qualunque cosa tu faccia.
Andrea sentì un brivido freddo lungo la schiena. Aveva capito prima che lui lo dicesse, e nonostante questo sentirgliene parlare così, con semplicità, chiamando le cose col loro nome, lo confondeva. Era qualcosa a cui non era abituato, qualcosa che lo scuoteva dentro, rivoluzionando in qualche modo la sua idea della vita e della morte. Nonostante il suo lavoro, ma d’altra parte le cose sono sempre diverse quando ti colpiscono da vicino. Ripensò a certi libri che aveva letto da ragazzo. Ce n’erano tanti, dove si parlava di Signori delle Ombre, di Minacce Sconosciute, di Pericoli Senza Nome. Dire il nome di una cosa, pensò, ha un potere, e per la prima volta mi trovo davanti ad una persona che non accetta di farsi vincere dalla paura dell’oscurità, e che ha capito cosa significa non lasciarsi terrorizzare dai nomi, e quale è il nome che è dietro tutti gli altri. Era… Aveva qualcosa di innaturale, e allo stesso tempo di immensamente saggio. Ma non c’era niente, neanche la saggezza, l’accettazione o il coraggio, che potessero evitare agli altri la sofferenza. E Elisa aveva perso già suo padre, e Raf. Quasi si vergognava che il suo primo pensiero fosse sempre per lei, ma in un certo senso Fabrizio stesso aveva cambiato le regole. Gli voleva molto bene, lo ammirava, era onorato della sua amicizia, e sapeva che perderlo lo avrebbe addolorato enormemente. Ma lui sembrava dire non adesso, non è ancora l’ora di piangere, adesso, lasciatemi vivere, finché posso.
– Vorresti… vorresti che fossi io a dirglielo?
– No, questo no… non credo. Se prendo la decisione di dirglielo, penso che dovrei farlo io. Ma volevo chiederti… tu sei un medico, cosa fate in questi casi? I parenti hanno diritto di essere informati?
– Cosa cambia il fatto che io sia un medico, Fabrizio? Dicono che bisogna dire la verità, ma nessuno ti spiega come fare, e non ci sono due persone che soffrano nello stesso modo, non c’è una strada da seguire. Ho sempre cercato di fare del mio meglio per… per aiutare le persone in certe situazioni, ma quando si tratta di qualcuno a cui voglio molto bene io non sono diverso da tutti gli altri, non ho meno paura di sbagliare. Credo che tu non possa far altro che affidarti al tuo istinto, e sperare che non ti tradisca. Non credo che lo abbia fatto molte volte – terminò, e suo malgrado sorrise, un sorriso pieno di affetto e di rispetto che riscaldò il cuore di Fabrizio al punto che, una delle pochissime volte in vita sua, si trovò a non sapere cosa dire, con un groppo in gola fatto di commozione e gratitudine per le persone splendide che aveva avuto la fortuna di avere vicino.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – VI

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VI

Viviana avrebbe voluto passare con lui tutto il tempo che restava. Con lui solo, escludendo tutti gli altri. Il dolore, quel dolore, era una cosa intima, che apparteneva solo a loro due, e non poteva condividerlo con nessun altro.
Ma Fabrizio aveva bisogno degli altri. Era andato in pensione già da due anni, ma continuava a collaborare come consulente per lo studio che aveva contribuito lui stesso a creare. In realtà, si era scherzosamente lamentata lei nei primi tempi, lavorava quasi più adesso che quando non era in pensione. Lo chiamavano continuamente, sembrava che non potessero fare a meno di lui.
– Anch’io non posso fare a meno di te – gli diceva. Ma sapeva quanto amava quel lavoro, quanto amava stare in mezzo alle persone, e non era mai stata possessiva. Non avrebbe voluto diventarlo adesso.
Una sera le raccontò lo scherzo che avevano fatto ad un collega molto più giovane. Sua moglie aspettava un bambino, aveva appena fatto un’ecografia, e lui non aveva potuto accompagnarla all’ospedale, ma aspettava i risultati con ansia. Si erano messi d’accordo con il fratello di sua moglie, che gli aveva telefonato, fingendo di chiamarlo dall’ospedale, e gli aveva detto con aria candida che lei aspettava sei gemelli.
– Avresti dovuto vederlo – disse, scoppiando in una risata. – Era bianco come un lenzuolo, ha cominciato a balbettare, “ma io… ma noi… no-non ce lo possiamo permettere! S-sei? N-non è possibile! Alla fine ha visto noi tre che sghignazzavamo senza ritegno, e l’ha capito, e allora è diventato verde. Ha cominciato a dirgli di tutto per telefono: “Razza di stronzo incosciente, e imbecille anch’io che ti sto anche a sentire!” Alla fine però si è messo a ridere anche lui.
Persino Viviana sorrise.
Erano passati diversi giorni da quando era andata a parlare con il dottor Giuliani, e ancora non gli aveva riferito le parole del medico. Era sicura che lui la pensasse come lei, eppure… era un uomo, magari avrebbe pensato che sarebbe stato meglio per tutti, gli uomini hanno sempre strane idee su come si protegge una donna, hanno strane forme di orgoglio e di pudore e di coraggio. Ma lui la conosceva, doveva sapere che anche lei aveva coraggio, e ne avrebbe avuto di più se lui le fosse rimasto vicino. Aveva promesso di essere obiettiva, di non influenzarlo, di limitarsi a riferire quello che aveva detto il dottore. Non ne aveva la forza. Avevano cucinato insieme – lui cucinava molto meglio di lei, a parte quel paio di cose che sapeva fare, per il resto più che altro gli faceva i lavoretti noiosi ma necessari, tipo sbucciare le patate, tritare l’aglio, predisporre le pentole secondo le sue indicazioni. “Vieni che ti faccio un po’ da sguattera” gli diceva spesso, scherzando. Non glielo aveva più detto, in quei giorni. Non le sembrava neanche normale cucinare, aveva dovuto in qualche modo accettare di dover continuare a fare le cose quotidiane di sempre, aveva dovuto accettare che non solo lui doveva mangiare, ma anche lei, benché in un certo senso il pensiero la disgustasse. Dopo qualche giorno aveva ricominciato ad abituarcisi. Era come se dovesse imparare di nuovo, a mangiare, a parlare con lui, a rannicchiarsi contro di lui, la sera, a letto. Tutto.
Dopo lavarono i piatti, li asciugarono, riordinarono la cucina, sempre senza dire una parola, finché Fabrizio non fu più in grado di continuare a far finta che entrambi stessero pensando ad altro, e che non avessero niente da dire. La prese per mano, la portò in camera, si sedette sul bordo del letto accanto a lei, la costrinse a guardarlo negli occhi. Le mani di lei erano fredde, e lui le strinse tra le sue.
– Ascolta amore mio, che cosa vuoi che faccia? D’accordo, è impossibile comportarsi come se niente fosse, non è questo che ti chiedo. Ma che cosa vuoi che faccia? Un anno è breve, ma può essere anche molto lungo. Io… – D’improvviso le stava accarezzando le labbra, e non sapeva nemmeno che lo stava facendo. Lei si ritrasse d’impulso, e lui scosse la testa, dolcemente, continuando a guardarla. Poi l’abbracciò, lasciò che poggiasse la testa contro la sua spalla, e le accarezzò i capelli, a lungo, finché non sentì il suo corpo perdere quella rigidità che non le era mai appartenuta, e ammorbidirsi. Solo allora tornò a guardarla, e lesse nei suoi occhi che aveva capito.
Ancora, però, Viviana non riusciva a smettere di pensare a Marco, a quando lo aveva visto in ospedale, negli ultimi giorni della sua vita, intorno a sé solo malattia e sofferenza, le visite cadenzate dagli orari, nessuna possibilità di aprire la finestra, se mai avesse voluto farlo, o di decidere quando mangiare, quando dormire, con chi parlare… era questo che sarebbe successo a Fabrizio? Sentiva di non poterlo sopportare una seconda volta. Aveva capito, sì, per una volta più di quanto Fabrizio pensasse. Non poteva sopportare l’idea che lui volesse stringerla tra le braccia, accarezzarla, come aveva appena fatto, e si ritrovasse da solo in un letto di metallo bianco, con la consapevolezza che in quel letto sarebbe morto.
Non doveva piangere, non doveva piangere. Doveva trovare le parole, se fosse riuscita a parlargli forse non avrebbe pianto, sarebbe riuscita a essere obiettiva, sarebbe riuscita a convincersi che davvero potevano fare di più di quanto potesse fare lei.
– Riccardo dice che dovresti curarti in ospedale. Mi ha detto che te ne ha parlato, ma tu non hai voluto ascoltarlo. – Alla fine non aveva trovato le parole che cercava, e aveva scelto uno strano momento, mentre lui continuava a tenerla stretta, quasi che cercasse ancora di proteggerla, come probabilmente era. Ma non era mai stata brava a scegliere né le parole, né i momenti.
Fabrizio ebbe un sorriso strano, in parte ironico, in parte stanco e tirato.
– Probabilmente lo pensa davvero – disse. – Ma non mi sembra che ti abbia convinto, e non ha convinto neanche me.
Come aveva potuto anche solo lontanamente pensare che non se ne sarebbe accorto?
– Io… io non lo so. Forse ci sono delle cure che a casa non… Se c’è la possibilità che tu possa…
– Vi, tu mi conosci. Non voglio dirti che sia stato facile, ho passato qualche brutto momento, e probabilmente ce ne saranno altri. Ma non mi interessa vivere qualche mese di più, fosse un anno o magari due anni di più, lontano dalla mia casa, lontano da te, solo perché una macchina respira al posto mio, e mi fanno delle flebo per nutrirmi, e non so che altro. Forse più avanti, se il dolore diventasse davvero insopportabile, se dovesse diventare troppo pesante per te…
Adesso Viviana piangeva. Era atroce sentirlo parlare in quel tono quieto di cose a cui lei non riusciva neanche a pensare senza un moto di orrore. Ma suo malgrado, c’era anche sollievo in quelle lacrime. Lui ebbe un pensiero improvviso.
– A meno che poi questo non abbia delle conseguenze per te, che possano accusarti di qualcosa…
– Riccardo ha detto che è possibile. Non ne so niente di queste cose, forse se tu fossi… non fossi in grado di decidere, sarebbe diverso. Ma non è così, e se è solo per questo, non me ne importa niente. Difenderò la tua e la mia libertà di scelta, il tuo diritto di stare con me e il mio diritto di stare con te, qualunque cosa succeda.
Fabrizio annuì. Sapeva che niente l’avrebbe indotta a cambiare idea. La possibilità che ci fosse da affrontare una battaglia sembrava persino averle ridato forza. Era pur sempre la sua Viviana.
– Grazie – disse piano. E poi la baciò, con tenerezza infinita.
Dopo, andò a telefonare a Elisa, per invitarla a pranzo per domenica, con Andrea. Si sarebbe stupita, ma non troppo. Lui aveva molta considerazione per Andrea, e il fatto che rendesse Elisa così evidentemente felice non poteva che renderglielo più caro.
Quando tornò, Viviana lo aspettava. Questa volta, quando cominciò ad accarezzarla, non si ritrasse. Adesso aveva ritrovato i gesti e le parole giuste. Attirò il viso di lui contro il suo con una specie di slancio impetuoso. Lui sapeva che c’era anche angoscia, in quei gesti, ma l’unico modo che aveva, adesso, per placare quell’angoscia, era il calore della passione, che come un ferro incandescente avrebbe potuto fondere il corpo di lei nel suo, come era accaduto altre mille volte, come un dolce veleno che passasse dall’epidermide, scorresse nel sangue, ma portando, invece del suo potere malefico, una linfa vitale. Solo così lei avrebbe potuto sentire che lui le dava se stesso, senza nessun confine, con una volontà che annullava ogni altra, l’unica che gli importasse, per cui non aveva nient’altro da chiedere.
Gli piaceva, quel modo che aveva sempre avuto di nascondere la testa nel suo petto, mentre facevano l’amore. Ma adesso voleva guardarla. Non c’è niente di più intimo che guardare il viso di una donna nel momento in cui si lascia invadere, senza nessuna barriera, da un corpo che è nello stesso tempo estraneo e vicinissimo, il mistero che è lasciare che qualcuno possa impadronirsi di te penetrando in ciò che è più tuo, più personale al mondo, e provando piacere per questo. La libertà di assoggettarsi, un nodo più stretto di qualunque altro.
– Ti amo talmente tanto – le disse, dopo. Adesso lo sapeva che quel cerchio, il cerchio invisibile e invalicabile con cui lo aveva da tanto tempo legato a sé, non l’aveva costruito lei, ma se l’era creato da solo, e non lo avrebbe distrutto per nessuna ragione al mondo.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – V

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Ci sono infiniti modi di fare l’amore con una donna. La stessa donna. Non è una questione di posizioni, o di strane fantasie, anche se possono entrarci anche quelle. Cambiano ogni volta i ritmi, i gesti, le parole dette o non dette. Non potrà mai succedere esattamente la stessa cosa due volte. Quello che lei gli lasciava fare col suo corpo era stupendo. Amava vedere i piccoli brividi sulla sua pelle, le labbra schiuse, ogni movimento con cui sembrava voler aprire il suo corpo di più, abbandonarsi di più. Lui poteva cambiare il ritmo del suo respiro, poteva sciogliere il suo corpo in fuoco liquido, trasformare la sua voce in un gemito roco eppure stranamente musicale, che ogni volta lo faceva impazzire. Gli dava quel potere sul suo corpo, ma si appropriava dello stesso potere su quello di lui. Ogni volta credeva che non avrebbe potuto sentire niente di più grande o di più forte, e ogni volta quando entrava in lei era come se milioni di scintille lo riscaldassero e lo illuminassero, stelle cadenti, un pezzo di cielo precipitato sulla terra.
Non era facile fermare quella sua vita frenetica, quel suo tempo pieno di cose e di pensieri, sempre dietro a qualcosa che doveva fare, o alla paura di aver dimenticato qualcosa. I bambini da andare a prendere in piscina, una sentenza da scrivere per il giorno dopo, la cena da preparare. Non lasciava mai che la fretta le impedisse di prendersi per l’amore tutto il tempo che voleva, ma dopo, dopo era una fatica trattenerla dal fuggire, anche quando in realtà non era strettamente necessario.
Ma questo era uno di quei rari, deliziosi momenti in cui aveva deciso di prendere per sé – per loro – un tempo indefinito, ore di ozio che potevano passare parlando, andando al cinema, cucinando e cenando insieme, la sensazione che non ci fosse solo un pomeriggio e una sera, da trascorrere con lei, ma che stessero vivendo in uno spazio senza tempo, o con un tempo sospeso, e avrebbero potuto scegliere milioni di cose da fare, e farle tutte. Era bellissimo anche solo quello, immaginare quelle cose insieme, sceglierle, e poi non fare niente, semisdraiati sul divano, lui in pigiama e pantofole, e lei con una vestaglia che le aveva prestato lui, lui a chiedersi se avrebbe conservato sempre quella magia, anche se un giorno la clandestinità avesse lasciato il posto alla quotidianità, e lei a chiedersi per quale strano miracolo poteva impunemente parlare con lui di politica, di lavoro o di cibo, in modo così tranquillo e casalingo, quando un attimo prima lo stesso uomo era stato capace di emozionarla al punto da non sapere più niente di se stessa.
– Fabrizio mi ha chiesto se avremmo voglia di andare da loro domenica a pranzo. – Gli disse a un tratto.
– Con me? – si stupì Andrea. Conosceva Fabrizio e Viviana, li aveva già rivisti diverse volte, in quei due anni in cui in qualche modo la sua vita e quella di Elisa erano state comunque legate. Ma un pranzo aveva qualcosa di ufficiale.
Lei sorrise.
– Paura che il nostro smetta di essere un amore proibito e si normalizzi troppo? – Lo stuzzicò.
In qualche modo gli parve che lei avesse catturato i suoi pensieri. La magia avrebbe resistito alla certezza di ritrovarsi tutte le sere, alla consapevolezza di avere tutto il tempo, senza dover rubare quegli istanti dando loro l’intensità delle cose rare? Ma essere accettato così, con piena naturalezza, come un dato di fatto, gli dava un rimescolio nelle viscere che somigliava molto alla sensazione di calore del primo innamoramento. Forse, dopotutto, avrebbero potuto essere capaci anche di stare insieme per sempre senza normalizzarsi mai. E se c’era qualcuno che poteva, in questo senso, dargli qualche consiglio…
– Beh, è la prima volta. Sono un po’ emozionato. Non è proprio come essere presentato ai genitori della fidanzata, però… e Matteo?
Matteo era incredibile. Oh sì, lo sapeva che aveva capito tutto, anche se non aveva mai detto niente. Lo sapeva che aveva scelto di restare amico di Andrea nonostante. Aveva delle qualità straordinarie, che lei aveva in qualche modo reso invisibili, prendendole per scontate. Era un errore che aveva rischiato di fare anche con Andrea, quando lo aveva trasformato in una specie di eroe, dimenticando le sue qualità di uomo. Il tempo che era passato da allora era stato, per loro, una fortuna. Questo comunque non glielo aveva detto, a Matteo, non gli aveva detto che Fabrizio le aveva chiesto espressamente di venire con Andrea. Era fuori per lavoro, in Francia, solo per pochi giorni, ma chissà. Era quasi sicura che avesse un’altra. O lo sperava.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – IV

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Elisa esaminò la coppia che aveva davanti. L’uomo non aveva un aspetto particolare. Era muscoloso, sotto gli abiti stazzonati ma evidentemente scelti con cura per venire in tribunale. Il viso però era magro, gli occhi scuri che si spostavano sugli oggetti della stanza, la fissavano un attimo, tornavano a fuggire in fretta. Neanche la donna aveva un aspetto particolare, anche se risultava dal fascicolo che avesse un esaurimento nervoso. Teneva quasi sempre la testa bassa, e non parlava molto. Ogni tanto guardava suo marito, ma Elisa non avrebbe saputo dire se approvava quello che diceva o no.
– Mia moglie sta solo passando un momento difficile – disse lui. – Il bambino ha diritto di crescere con noi, siamo noi i suoi genitori. Un figlio deve crescere con i suoi genitori. Non era la prima volta che Elisa vedeva quell’atteggiamento, anzi, succedeva spesso. Era normale, per un padre che rischiava di perdere suo figlio. Ma quella donna aveva cercato di soffocare suo figlio col cuscino. Era stato il marito a fermarla, e adesso rivoleva suo figlio. Il fascicolo diceva che aveva dei precedenti di alcolismo, ma sembrava (sembrava?) essersi rimesso in carreggiata.
Elisa trovava sempre molto difficile capire fino a dove poteva arrivare l’ingerenza di un estraneo, nel decidere se dei genitori erano o meno in grado di gestire il loro bambino. Ma quello le sembrava un caso lampante. Magari si poteva provare con un affido temporaneo, invece che un’adozione, in modo che la coppia non perdesse il diritto di vedere il figlio, e a condizione che la donna si sottoponesse a una terapia, e che il marito non avesse ricadute, c’era sempre la possibilità che presto o tardi potessero restituirglielo.
– Lei non ha diritto di togliere un figlio a sua madre. Se non ce lo lascia ci rivolgeremo ai giornali, e tutti sapranno che a una donna disperata, invece di darle aiuto le tolgono il bambino.
– Vede – cercò di spiegare lei pazientemente – noi dobbiamo pensare prima di tutto a suo figlio, perché è lui la persona più debole. Non credo che voi vogliate che a causa della sua malattia – si rivolse alla donna – suo figlio possa soffrire.
– Mia moglie non è malata! – gridò l’uomo. In un certo senso aveva ragione, non era una malattia riconosciuta, o meglio, c’era ancora molta confusione tra una momentanea depressione e una condizione patologica che poteva avere conseguenze tragiche per chi la subiva e per chi gli stava vicino. Elisa sapeva che i giornali, probabilmente, avrebbero ascoltato la storia dell’uomo, avrebbero accettato la sua versione, e avrebbero gridato allo scandalo, perché non si può togliere il figlio a una povera donna che già soffre. Lo sapeva perché le era già capitato di vedere articoli di quel genere. Non è molto facile accettare l’idea che qualcuno possa decidere che la tua disperazione, la tua angoscia, è così grave da non permetterti di curare tuo figlio. L’idea che a nessun figlio – specialmente a un bambino – si può chiedere di farsi carico di guarire una madre in preda agli incubi. Non era facile neanche per lei, neanche in questo caso, in cui quel figlio era quasi morto. Gli assistenti sociali, i giudici dei tribunali per i minorenni, venivano spesso additati come quelli “che portavano via i figli ai loro genitori”. Ma la realtà era ben diversa. C’erano situazioni che andavano avanti per anni, pezza dopo pezza, tra mille diversi tentativi, pur di non dichiarare lo stato di adottabilità di un bambino. C’erano, certo, assistenti sociali molto rigidi, che prendevano il loro lavoro troppo sul serio, o troppo poco. Così come c’erano giudici che in quanto tali erano presi da una sorta di delirio di onnipotenza, credevano davvero di poter avere in mano la vita e la morte delle persone, come il nano di De André. Ma erano pochissimi. Lei personalmente aveva sentito parlare, tra i colleghi e tra gli avvocati, di un paio di casi, ma non ne conosceva neanche uno.
– Senta, cercheremo di trovare una soluzione, ma voi dovete aiutarci. Noi non siamo qui per togliere i figli a nessuno, però voi dovete dimostrarci che state facendo tutto quello che potete perché quello che è successo non si ripeta mai più. Noi non possiamo far finta di niente, ma per voi è ancora meno possibile. Dovete fare i conti con la realtà, e cercare di cambiarla. Perché suo figlio stia bene, signora, bisogna che prima di tutto sia lei a stare meglio. Si faccia aiutare, lo faccia, per se stessa e per suo figlio. – La stava quasi supplicando, ma non poteva sapere se la donna l’avrebbe ascoltata, non poteva sapere se suo marito, che evidentemente aveva in mano le redini della sua vita, glielo avrebbe permesso. Fortunatamente non era una responsabilità solo sua, c’era tutto un procedimento che avrebbe richiesto la presenza di un pubblico ministero, un avvocato, e alla fine tre persone a decidere. Ma era così stanca… avrebbe voluto chiamare Andrea, per alleggerire un po’ quel peso che non smetteva mai, nemmeno dopo tanti anni, di portare sulle spalle ogni volta che vedeva il dolore altrui, ma sapeva che era in ospedale.
In quel momento, quasi a rispondere a quel suo muto desiderio di parlare con qualcuno, il telefono squillò, ma non era Andrea, era Fabrizio.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – III

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Il dottor Enrico Giuliani era stato il medico di Viviana per vent’anni. Quando era andato in pensione, più o meno diciassette o diciotto anni prima, gli era subentrato il figlio, Riccardo. Lo ricordava poco più che ragazzo, adesso era stempiato, aveva la barba quasi completamente grigia, e una figlia fidanzata. Ma aveva la stessa dolcezza nello sguardo, la stessa pazienza nel dedicare tempo a tutti, anche alle vecchiette che andavano lì una volta la settimana solo per chiacchierare un po’ con qualcuno e intanto sentirsi rassicurare che gli acciacchi non avrebbero impedito loro di vivere un’altra settimana.
Quando Viviana entrò, lui si accorse subito che sapeva tutto.
– Alla fine te lo ha detto. – Non era una domanda.
– Alla fine? Da quanto tempo lo sai? – chiese lei.
Il dottor Giuliani avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole che gli erano sfuggite di bocca involontariamente, ma non poteva.
– In realtà non è tanto. Era un po’ che mi parlava di questo dolore al fianco, quasi scherzando, ma ho cominciato subito a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava perché non era da lui lamentarsi di mali inesistenti o di dolori senza importanza. Gli ho detto di fare degli esami, ma era già troppo tardi. L’ultimo è stato un paio di mesi fa, e mi ha confermato quello che temevo. – Nei suoi occhi c’era tutto il dolore per non essersi accorto prima di quello che stava succedendo, per non essere intervenuto in tempo. Ma come avrebbe potuto? Due mesi. Per tutto quel tempo era riuscito a nasconderlo persino a lei.
– Lui mi ha sempre detto che voleva che gli dicessi la verità, e lo sai che anche se avessi voluto nasconderglielo, lo avrebbe capito lo stesso.
Sì, lo sapeva. Lei, invece, non aveva capito, per due mesi gli aveva vissuto accanto come sempre, e lui si era tenuto dentro i risultati inappellabili di quegli esami, la certezza di dover morire, e non le aveva detto niente.
Era pallidissima, sembrava come svuotata di ogni linfa vitale. Certo lui, che l’aveva conosciuta in giorni terribili, non l’aveva mai vista così.
– Forse… forse avrebbe potuto aspettare ancora a dirtelo, lasciarti ancora qualche mese di serenità. – L’accusa era esplicita, e Viviana ebbe una reazione quasi feroce, in parte perché era un’accusa ingiusta, in parte perché doveva tirare fuori, in qualche modo, quella rabbia impotente che non sapeva da dove veniva.
– Lo conosci, sai che non l’ha fatto perché voleva la mia compassione. Io… C’era a malapena un’ombra nei suoi occhi, ma lo conosco da ventotto anni, Riccardo, come volevi che non me ne accorgessi? Ha fatto le analisi, si è tenuto dentro i suoi sospetti, la paura, l’angoscia che deve aver provato, e dopo ancora, per due mesi, io non so, in quei due mesi non so niente di come li ha vissuti, di quello che ha sentito. Non concepisco un documento che ti leghi anima e corpo a un’altra persona, come se potessi cederli a qualcuno, come se fosse una catena che non potrà mai essere sciolta, ma l’amore sì, l’ho amato nel bene e nel male, sono la sua compagna, deve significare qualcosa, questo. Ancora adesso mi guarda nello stesso modo, mi sorride nello stesso modo, e io non capisco, ha il coraggio di un leone, ma dove lo trova tutto quel coraggio?
La voce si era trasformata in una sorta di urlo appassionato, poi in un sussurro, poi si era alzata ancora e si era spenta quando lei non era più riuscita ad andare avanti, il corpo scosso dalla violenza di un dolore contro cui non poteva opporre nessuna volontà e nessuna forza.
– Cosa pensate di fare, adesso? – Le chiese, quando si fu infine calmata un po’.
– Fare? – Non capiva. Che cosa c’era che potesse fare?
– Dovrebbe curarsi in ospedale, lo sai. Ho cercato di dirglielo, ma non vuole ascoltarmi. Forse, se glielo dicessi tu…
Fu allora che Viviana cominciò a capire. Un uomo aggredito da un male incurabile non è più un uomo, è un malato, peggio, un malato senza speranza, un morto che cammina. Era a questo che Fabrizio si era ribellato, pretendendo contro ogni logica (o forse secondo la migliore logica possibile) di rivendicare la normalità della sua vita fino all’ultimo, perché era l’unico modo di non smettere di essere un uomo.
– Potrebbero fare qualcosa? – domandò, e d’improvviso l’antica luce di sfida si era riaccesa nei suoi occhi. Ma una flebile nota di speranza c’era ancora, e lo rattristò, perché sapeva bene che non potevano fare niente, se non prolungargli la vita il più possibile, in una “struttura adeguata”.
Scosse la testa.
– Vorrei dirti che c’è una possibilità, anche una su un milione, ma non posso mentire su questo. Però devi renderti conto che c’è anche il rischio che ti accusino di… di non aver fatto abbastanza, o magari anche peggio. Eutanasia, voglio dire.
– Se c’è una cura, mi dicano cosa devo fare, e lo farò, ma non a costo di impedirgli di vivere la vita che lui vuole, di togliergli la possibilità di decidere, o di allontanarlo dalla mia vita, a meno che non sia lui a chiedermelo. – Era evidente che non lo credeva probabile. – Gli parlerò, perché penso che sia giusto, gli dirò che secondo te sarebbe importante. Ma se lui… se lui dicesse di no, prometti di lasciarci in pace? Prometti di ricordarti che è ancora un… un uomo adulto, nel pieno delle sue facoltà? Sarebbe l’aiuto più grande che potresti darci.
Il conflitto delle ragioni della medicina, e della tranquillità della sua coscienza, con quelle dell’affetto che aveva per Viviana e Fabrizio durò poco. Sapeva che Viviana aveva ragione, sapeva come si sarebbe sentito lui, se qualcun altro si fosse impadronito della sua vita, arrogandosi il diritto di scegliere quello che poteva e non poteva fare. Annuì in silenzio. Lei ebbe un debole sorriso di ringraziamento, poi uscì senza voltarsi indietro.

Altra parte su cui ho più di un dubbio questa: se inserirla o meno, prima di tutto; e anche sul “come”, perché in realtà quando l’ho scritta sapevo poco o niente del fatto che spesso in realtà i malati cosiddetti “terminali” (che parola atroce) non vengono affatto tenuti in ospedale, e di come vengono curati e “sedati”. La sostanza cambierebbe anche abbastanza poco, per me, ma la forma… non ne sono sicura.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo IX – I – Continua

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Fabrizio aveva un modo di guardare come se tutto avesse un’anima, persone e cose riprendevano vita nella luce del suo sguardo curioso. Questa era stata la prima cosa che aveva notato di lui, il primo giorno che lo aveva conosciuto. Poi quella quieta serenità che spandeva intorno, che si sarebbe forse potuta definire flemma, non fosse stata in bizzarro contrasto con un’appassionata, instancabile energia vitale che rivelava in ogni sfumatura del tono di voce ogni volta che parlava di uno qualsiasi dei suoi millecinquecento interessi.
E quella luce dello sguardo, quella serenità non le aveva mai perdute. Non aveva pensato che potesse essere questo. Gli era così vicino che quella paura apparentemente irragionevole si era impadronita di lei prima che avesse il tempo di pensarci. Per quanto lui avesse cercato di nasconderlo, aveva capito che soffriva, ma non aveva mai pensato che potesse essere questo.
Antichi insegnamenti quasi dimenticati le tornarono alla mente. E’ una punizione, pensò. Una punizione perché l’ho amato troppo, per il male che ho fatto cercando di essere felice.
Se le avessero tagliato la gola con un coltello, le avrebbe fatto meno male. Se fosse stata una punizione, allora era lei che avrebbe dovuto morire, non lui, la metà della sua anima, l’uomo che l’aveva amata così tanto per ventotto anni, fino al punto che ogni momento di quei ventotto anni era legato a lui, ogni memoria, per tutto il tempo, anche quello che non avevano passato insieme. Ma lei non poteva morire al posto di Fabrizio.
Continuava a guardarlo, incapace di dire niente, di fare niente. Sapeva che dovevano esserci da qualche parte delle parole, o dei gesti, con cui avrebbe potuto ritrovare, per tutti e due, il senso di tutto quello che c’era stato e continuava ad esserci. Ma non sapeva dove.
Fabrizio ripensò al momento in cui il dottore glielo aveva detto. Per tutta la vita aveva pensato che avrebbe preferito non morire all’improvviso, avere il tempo di prepararsi, di accettare l’idea. In quel momento lui, che non credeva in Dio, avrebbe maledetto quel Dio crudele che gli aveva dato quello che aveva chiesto, senza nessun segno, nessun avvertimento dell’abisso in cui si sarebbe trovato. Eppure, dopo, aveva capito che non era stata crudeltà. Che gli era stata data la possibilità di guardare quella vita che aveva amato tanto con occhi diversi, riappropriandosi di tutto quello che, inevitabilmente, aveva preso per scontato. Il sonno, per esempio. L’intimo piacere di risvegliarsi, di riprendere contatto con la vita, e di guardare la donna che amava mentre ancora dormiva, in quell’istante sospeso tra la notte e il giorno, quando non si sa dove finisce il sogno e dove ricomincia la realtà. Il tempo. Il tempo che si riduceva, che fuggiva più in fretta ancora di sempre, ma dilatava le sue giornate, nel lusso di potersi fermare su ogni particolare senza essere incalzato da cose che non c’entravano con la sua vita, restituendogli la gioia per ogni giorno in più che gli veniva dato. Il suo cuore che continuava a battere, il respiro, il sangue che scorreva. Qualche volta avrebbe dato qualunque cosa per far cessare il dolore, per ritrovare la forza che stava perdendo sempre più in fretta, ma ogni gesto, ogni più banale capacità del suo corpo e della sua mente, adesso, aveva tutta l’importanza del mondo. Persino la capacità di provare dolore.
Eppure c’erano momenti in cui era terribilmente difficile. Non aveva un paradiso in cui credere, o la speranza di un’altra vita, sulla terra o in qualunque altro luogo. La sua vita aveva avuto una durata ben definita, e stava arrivando alla fine. Tutti i suoi pensieri, la sua memoria, la conoscenza, l’amore che aveva dato e ricevuto dalle persone che gli erano state vicine, sarebbero andati perduti, o rimasti nella memoria dei vivi. Ma poteva bastare? Aveva avuto molto, e perduto molto, come tutti, forse era stato più felice di molti altri, ma aveva sofferto anche molto. Ma aveva avuto Viviana, e non l’aveva mai perduta. Lei era la sua forza, anche adesso. La stringeva, e continuava a desiderarla, e gli sembrava una cosa naturale, ma nello stesso tempo anche un miracolo, e ancora, nello stesso tempo, anche qualcosa di misterioso e difficilmente esprimibile, in un momento come quello.
Avrebbe voluto poter continuare a fare, con lei, quello che aveva sempre fatto, e anche le cose che non aveva mai fatto, ma senza che tutto fosse invaso completamente dalla consapevolezza della morte che si avvicinava, non lasciando più spazio per la vita che, nonostante tutto, andava avanti. Era riuscito a trovare in se stesso la forza dell’accettazione. Ma avrebbe potuto trovarla per lei? Avrebbe potuto farle capire che tutto quello che gli era sempre piaciuto continuava a piacergli, tutto quello che aveva sempre detestato lo detestava ancora, le sue idee erano le stesse, sentiva le stesse cose, era, dopotutto, lo stesso uomo che era stato un anno prima, una settimana prima, un’ora prima?
Forse c’è qualcosa di sacrilego, pensava, in questo mio ostinarmi a provare ancora piacere per le sensazioni del mio corpo, forse dovrei limitarmi a sopportare le funzioni vitali necessarie, rassegnandomi come a qualcosa a cui devo sottomettermi, e non qualcosa che fortemente voglio. Forse i piaceri dello spirito sono meno immodesti, meno intemperanti. O forse, invece, è sacrilego continuare a negare l’inscindibile unità dell’essere umano, solo perché il confine di quell’esistenza che tutti sentiamo continuamente sospesa, precaria e soggetta ai capricci del destino è diventato più nitido, più visibile. Forse è sacrilego vergognarci del nostro corpo e umiliarlo, senza accorgersi che il nostro spirito non è nulla senza il corpo, che ci sono stati dati insieme perché attribuissimo ad entrambi lo stesso valore. I neuroni che si uniscono a formare un pensiero fanno parte del corpo o dell’intelletto? La circolazione del sangue nelle arterie, fino al cuore, il soffio vitale che arriva ai polmoni con il respiro, sono solo operazioni fisiche, e dunque disprezzabili? Ragionamenti ed emozioni provengono dal cervello quanto dalla mente o dall’anima. E allora, perché non dovrebbe essere possibile arrivare a Dio, attraverso il corpo di una donna? Forse la verità del Signor de la Palisse non era affatto così lapalissiana, così evidente. E’ difficile per qualcuno che ti è molto vicino capire che sei vivo fino all’ultimo momento della tua vita.

IL BOSCO – PARTE IV – CAPITOLO IX

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Dalla cucina gli arrivava il profumo dei pinoli tostati e soffritti con aglio, prezzemolo, olive, forse un’acciuga, uvette e pomodoro fresco. Viviana non sapeva fare molto, in cucina, ma c’erano un paio di cose che le riuscivano benissimo. La buridda di pesce era una di queste. Ma che strano che lui riuscisse a distinguere ogni profumo, ogni ingrediente da un altro, pur mescolati, e riconoscerli, uno per uno, lasciando che lo avvolgessero senza distrarlo, mentre leggeva, come se le due sensazioni, quella del cibo e quella delle parole, si completassero senza sovrapporsi.
La sentì avvicinarsi, dapprima un po’ confusamente, perché quello che stava leggendo comunque gli entrava dentro, ritardando la coscienza di quello che c’era all’esterno. Ma la sentì, percepì la sua inquietudine. Alzò gli occhi dal libro, tolse gli occhiali e le sorrise. Da quanto tempo portava gli occhiali? Non lo ricordava più. La vista aveva cominciato ad appannarsi, in modo quasi impercettibile, e poi sempre di più. Il primo segno dell’età, ma era passato ancora tanto tempo. Non si sentiva vecchio, questo no, ma aveva avuto tanto tempo, in un certo senso.
Le tese le braccia e lei gli andò vicino, lasciò che la stringesse. Era straordinario il modo in cui poteva ancora desiderarla. I fili biondi sul collo, che aveva amato accarezzare da sempre, erano diventati bianchi. Viviana non si tingeva i capelli, li schiariva, perché il grigio diventasse meno triste, più luminoso.
Gli capitava, a volte, di guardarsi allo specchio e non riconoscersi, ma lei, lei la riconosceva, era il punto di riferimento che gli impediva di perdersi, che gli permetteva di accettare il passare degli anni, sentendosi ancora giovane, ma senza essere troppo spaventato dai cambiamenti del suo corpo e della sua faccia.
– Sei triste – gli disse. Lo conosceva così bene, eppure avrebbe potuto continuare a mentire, a dire che erano i ricordi del passato. Forse lei non gli avrebbe creduto, ma se avesse capito che non voleva parlarne, non avrebbe insistito.
– No, non è niente – rispose. Il suo sguardo lo colpì. Sapeva di non essere riuscito a ingannarla, e sapeva che si stava chiedendo se davvero lui avrebbe preferito tacere, e fino a che punto. Se lo chiedeva anche lui. Non sapeva quale scelta sarebbe stata più egoista, dirglielo e affrontare con lei anche questo, oppure restare a soffrire da solo, non dirle niente finché non fosse stato indispensabile, togliersi dalle spalle la responsabilità di un dolore che sarebbe venuto dopo, e che lui non avrebbe mai visto.
– Ho paura, Fabrizio. Se non vuoi dirmi niente per non farmi paura, voglio che tu sappia che di qualunque cosa si tratti, preferirei saperlo… se non ti costa troppo dirmelo.
Era sempre stato lui a leggere nel cuore delle persone, così gli dicevano, ma questa volta era stata lei a scavargli dentro, a guardare oltre.
Stava leggendo le Memorie di Adriano, della Yourcenar. Non era la prima volta, ma era la prima volta che sentiva quelle parole così vicine al suo cuore. Aveva acquistato una consapevolezza nuova del suo corpo, il corpo che lo tradiva, e tuttavia mentre lo tradiva, gli permetteva anche di trovare insospettate strade per rinnovare il suo amore per le persone, per le cose e per la vita. Era come se tutti i suoi sensi avessero sviluppato una capacità di percezione che non aveva mai saputo di avere. Sapori, odori e suoni diventavano più intensi, scopriva nelle sue mani il potere di cambiare il suo rapporto con il mondo. Solo la vista era più debole, ma non tanto da non permettergli di vedere la bellezza con una capacità di stupirsi che non aveva mai dimenticato, ma che si era come moltiplicata.
Aveva impressi nella memoria i momenti della cruda disperazione, della rabbia impotente. Il giorno in cui era andato al mare e aveva guardato i nuotatori raggiungere punti lontani a grandi bracciate, e non aveva sentito, come Adriano, l’imperatore-filosofo, quella partecipazione totale alle sensazioni di altri, quella comprensione al di là dell’intelligenza. Aveva sentito solo tutta l’immensità della paura e del dolore. Si era gettato in acqua, aveva nuotato fino quasi a soffocare, non per provare la resistenza dei suoi polmoni, ma per fiaccare quello che gli restava della sua voglia di vivere e lasciarsi andare, senza che l’istinto di sopravvivenza, nonostante tutto, gli imponesse di tornare fuori dall’acqua e riprendere respiro. Ricordare le sue corse di ragazzo, le giornate di vento con il windsurf tra le onde, la neve delle montagne dove aveva sciato milioni di volte non gli aveva dato conforto, ma aveva acuito il vuoto, l’idea che tutto era stato inutile, che non c’era più niente che contasse.
Alla fine era tornato indietro, ma per molto tempo aveva continuato a chiedersi, e ancora se lo chiedeva a volte, che cosa avesse davvero un senso in tutta quella confusione di sensazioni, di cose che sapeva e di cose che avrebbe voluto sapere. L’orgoglio che aveva provato per certe sue creazioni cui era più affezionato, per il suo successo. L’avidità con cui imparava nuove lingue, per poter parlare con le persone senza i confini di parole mal dette o mal comprese. La cura che aveva avuto per quel suo corpo che invecchiava, la cura che continuava ad avere, sia pure con modi e misure diverse. Il suo amore per Viviana.
Che era quello che gli aveva fatto riscoprire il senso di tutto il resto. E aveva ritrovato la capacità di sorprendersi che una frase detta da qualcuno, una sinfonia, una canzone, o le parole di un libro, potessero togliergli il fiato per l’emozione.
– Sto morendo, Vi. Il cancro… è molto esteso, e non è più operabile. Non so quanto tempo mi resta, qualche mese, forse un anno.
Non c’era un modo gentile per dirlo, non c’erano altre parole.
Se Viviana non lo avesse conosciuto così bene, non gli avrebbe creduto. C’era, sì, quell’ombra di tristezza, quella che l’aveva spaventata. Ma lui la guardava con gli stessi occhi di sempre, il suo viso, il suo corpo, non erano cambiati. Solo un’ombra, e poi, lo stesso sorriso che gli illuminava lo sguardo, lo stesso equilibrio che niente era mai sembrato scalfire, tranne la morte di Raf, l’unica volta in cui l’aveva visto piangere con una disperazione senza rimedio, aggrappandosi a lei come lei si aggrappava a lui, per non morire.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VIII – II (segue)

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E adesso era sul treno. Stordito, quasi inebriato da quella sua inedita capacità di fare cose sorprendenti. Come, per esempio, chiedere tre giorni di ferie fuori stagione, praticamente senza preavviso, e saltare su un treno.
Nuvole grigie, nuvole bianche, e frammenti di azzurro. “Non sa se vuol piovere” avrebbe detto Stéphanie. Per tutto il giorno quei frammenti di sereno erano andati allargandosi e richiudendosi continuamente, instancabilmente. Labili promesse di un sole opaco, seguite da rapide disillusioni. Ma le previsioni dicevano che non avrebbe piovuto, per quanto ci si potesse fidare di quella scienza inesatta. Non rimpianse neppure per un minuto di non aver preso la macchina, mentre davanti ai suoi occhi il rapido movimento delle cose e dei suoi pensieri si alternava alla rassicurante distanza, emotiva quanto temporale, delle “Vite” di Plutarco (sì, le sue preferenze andavano ancora ai classici un po’ polverosi dei suoi anni di gioventù. E guai a chi insinuava che fossero letture pesanti. Non c’era niente che gli desse altrettanto piacere. Beh, d’accordo, quasi niente). Però non riusciva a impedirsi di pensare, non riusciva a fermare quel suo cervello razionale e perennemente timoroso di tante cose. Alessandro Magno aveva domato un cavallo ombroso costringendolo a guardare sempre verso il sole, perché aveva compreso che era spaventato dalla sua stessa ombra proiettata sulla terra. Matteo immaginava il cavaliere indomabile lanciato al galoppo, pieno di gioia per la vittoria della ragione sullo spirito selvaggio dell’animale. Ma forse lui era il cavallo, invece, il cavallo che aveva paura della propria ombra.
Pensò a sua madre, a quando gli aveva detto che un matrimonio non deve mai essere spezzato, pensò alla faccia che aveva fatto alla sua risposta. “Mamma, ho un’amante da quattro anni. Forse è arrivato il momento che prenda qualche decisione sulla mia vita”. Sua madre che aveva sopportato da suo padre, adesso poteva ammetterlo anche con se stesso, un numero difficilmente calcolabile di tradimenti. Sua madre che aveva riversato sul marito e sul figlio, con acida soddisfazione, tutto il suo malumore di moglie a metà, forte della sua posizione protetta dal vincolo del matrimonio, una donna sposata che non può essere semplicemente lasciata così, come se niente fosse. E quando infine lui era morto, lei aveva ormai da tempo perso ogni fiducia nella propria capacità di amare. Sua madre che aveva perduto il marito e aveva un figlio che non era come lo avrebbe voluto. Il vecchio senso di colpa tornò a pungerlo, ma lo accolse quasi con affetto. Poteva permetterselo, adesso. Poteva permettersi di criticare sua madre senza odiarla, e di volerle bene senza venerarla. Gli era finalmente chiaro che non avrebbe potuto riscattare neanche una piccola parte della sua infelicità fingendo di aver fallito nelle cose in cui lei aveva avuto successo, e di essere riuscito dove lei aveva perduto.
C’erano altre due persone nello scompartimento, una brunetta probabilmente sui diciott’anni che masticava il chewing-gum con evidente diletto, quasi voluttuosamente, e un’anziana signora che aveva fatto qualche debole tentativo di conversazione sulla scomodità dei treni, prima di ripiombare, a sua volta, nella lettura concentratissima di un giornale femminile francese. Ma tutto era tranquillo, e Matteo si gustava quella tranquillità, le ultime ore in cui avrebbe ancora potuto, se voleva, fingere di essere parte di un pacifico, inalterato tran-tran, oppure stupirsi di quel cambiamento che lo faceva sentire a tratti invincibile, capace di tutto. Avrebbe potuto, se voleva, immaginare di lanciarsi nell’avventura, adesso che aveva cominciato. Di lasciarsi portare dal vento del capriccio e dell’improvvisazione. Di non fermarsi a Marsiglia, ma proseguire per il Nord, un Nord indefinito, bianco, freddo, pieno di insidie e di pericoli, il Nord dei Vichinghi, degli Esquimesi, il Nord di Moby Dick e dei Balenieri. Anche soltanto ritrovarsi da solo, senza una donna vicino, per la prima volta nella sua vita, sarebbe stata una specie di avventura. Ma non voleva pensare che Stéphanie potesse non volerlo più. La paura c’era, il tratto costante del suo carattere, da sempre. Cosa avrebbe fatto in quel caso? Sarebbe partito per il Nord, o sarebbe, come era più probabile, tornato a casa, alla vita di sempre, tornando ad essere il buon vecchio Matteo, tanto caro, tanto dolce, sempre uguale a se stesso, affidabile, prevedibile e mediamente scontento?

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VIII – II

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Tre anni. Tre anni ad aspettare… che cosa? Che qualcun altro aprisse per lui la porta della gabbia? Tre anni, e lui ne aveva quarantacinque.
Elisa continuava a vedersi con Andrea. Non solo lui lo sapeva benissimo, ma praticamente le aveva dato la sua benedizione. Cosa avrebbe dovuto fare, giocare al marito sconvolto e offeso? O fingere di ignorare quello che sapevano anche le pietre, lasciando che dicessero di lui “il marito è sempre l’ultimo a saperlo” e lo compatissero, o lo ritenessero uno sciocco da commedia? Aveva preferito lasciar capire a tutti e due, senza dirlo, che sapeva e accettava. Aveva riannodato i rapporti con Andrea, ogni tanto lo invitava a cena, e andava a casa sua. Qualcuno avrebbe detto che era ridicolo, ma lui si sarebbe sentito molto più ridicolo a immaginare sanguinarie vendette, o a distruggere tutto tra scenate nello studio di un avvocato di grido e il gelo delle carte bollate. Qualcuno diceva che aveva coraggio, ma lui non pensava che fosse coraggio. Se avesse avuto coraggio, sarebbe stato con Stéphanie, adesso. Gli sembrava soltanto l’unica scelta di buon senso. Il suo caro vecchio buon senso. Ma per una volta era certo che lo avesse consigliato bene, perché gli rendeva la vita se non più semplice, almeno un po’ meno difficile. Non aveva perduto il suo migliore amico, e forse questo era il solo punto di luce, nei momenti in cui cercava, inutilmente, di convincersi di aver preso la decisione giusta, ossia non decidere nulla, tenersi i suoi sporadici incontri con Stéphanie, tenersi la sua parvenza di famiglia, tenersi l’ordine apparente delle sue cose, illudendosi che niente sarebbe mai cambiato, che avrebbe potuto tenersi tutto senza sacrificare niente.
Che cosa era stato a svegliarlo? Forse un certo ridimensionamento nell’enfasi amorosa delle lettere di Stéphanie, o magari appena un’ombra velata di impazienza, la sensazione che in qualche modo sottile e non troppo diretto, ma comunque percepibile, lei gli stesse dicendo guarda che non sei l’unico uomo al mondo, guarda che la mia vita non ruota completamente intorno a te. Aveva paura, ma non paura di vivere, questa volta. Piuttosto forse paura di perdere l’occasione e non riuscire a vivere mai più.
Un giorno, un tranquillo pomeriggio di novembre, si era guardato intorno e non aveva riconosciuto più il suo ufficio. Certo, in superficie era sempre uguale. Le poltrone con la struttura di metallo e il sedile di pelle nera, il tavolo di legno scuro con il piano di cristallo, che andava pulito tutti i giorni e anche un paio di volte al giorno, per non averlo sempre pieno di ditate, i mobiletti di metallo che contenevano i fascicoli dei clienti, una libreria, anche quella di metallo, con qualche volume di economia, di informatica e di marketing, la pianta sotto la finestra, le foto della famiglia sul tavolo, l’immancabile poster alla parete che parlava ironicamente del “capo”, e quell’altro che avvertiva di connettere il cervello prima di mettere in moto la bocca.
Era orgoglioso del suo lavoro, lo era sempre stato, e sempre di più man mano che andava avanti. Non aveva fatto carriera con le spinte, e nemmeno “coltivando le amicizie”, come molti facevano. Non era consumato dall’ambizione, né il fatto di avere dei dipendenti sotto di lui ai quali dare delle disposizioni gli faceva sentire l’ebbrezza del potere o roba del genere. Ma era soddisfatto, e amava quello che faceva. Una vera fortuna, quando tutti dicevano di tenersi stretto qualsiasi lavoro si potesse avere, che c’era la crisi, che non si poteva pretendere troppo… accontentarsi. In tante cose Matteo si era accontentato, ma non nel suo lavoro.
E allora perché d’improvviso il suo ufficio, il suo rifugio, gli sembrava squallido, perché si sentiva insofferente con i colleghi, e si irritava con la segretaria per un nonnulla, e avrebbe voluto, in certi momenti, sbattere per terra tutto quello che c’era sul tavolo, svuotare le cassettiere e lanciare i fascicoli giù dalla finestra, e già che c’era sbattere giù anche le cassettiere, e la libreria, e il tavolo, e anche la pianta?
Questo suo umore lo spaventava. Non era mai stato così. Era l’arteriosclerosi? Era l’inizio della demenza senile? O magari le prime avvisaglie dell’alzheimer? L’ansia a volte diventava insopportabile. Tutte queste cose Matteo le pensava seriamente, ne aveva paura davvero. Qualche volta si faceva con la mente dei quadri foschi in cui, cacciato ignominiosamente dalla ditta dopo un raptus nel quale aveva preso a calci tutto l’arredamento non solo del suo ufficio, ma dell’intera società, vagava senza meta per giorni in uno stato di crescente confusione, fino a che… ma la conclusione di quelle scene desolanti non l’aveva ancora elaborata.
Quando non si faceva prendere troppo dalle visioni cupe di un’inarrestabile decadenza, però, dentro di lui la spiegazione di quello scombussolamento cominciava a farsi strada. Paura, appunto. Paura di restare legato alle sue vecchie abitudini, invischiato in quella rete appiccicosa senza riuscire a districarsi. La voglia di prendere a calci i mobili dell’ufficio forse non era altro che la voglia di prendere a calci il suo vecchio modo di vivere, rassicurato dall’immutabilità dei riti quotidiani, dalla ripetizione di gesti sempre uguali che non richiedevano lampi d’ingegno o radicali sovvertimenti di un ordine decennale, di una vita e un pensiero rigorosamente programmati.
Che cosa ne avrebbe fatto dei suoi ferrei, austeri, irremovibili programmi, quando ormai sapeva che bastava poco a mandare tutto a carte quarantotto?
I bambini… i ragazzi, avrebbe dovuto dire. Roby aveva compiuto quattordici anni, e Luca andava per i dodici. Erano praticamente irriconoscibili. Roby era quasi alto come lui, quella sua voglia di approfondire le cose che si era trasformata in una adolescenziale sfrontatezza, la convinzione di poter imparare tutto, di poter conquistare il mondo… e una sotterranea paura di cose più grandi di lui, che si intuiva sotto la musica a volume sempre troppo alto, le risate troppo forti e sguaiate, quello scherzare sulle cose più atroci, e la passione per i film horror. Lo irritava, ma qualche volta, quando la presuntuosa saccenteria che sfoderava di fronte agli amici e alle ragazze lasciava il posto a una normale conversazione, quando il broncio adolescenziale si apriva in un sorriso allegro e affettuoso, intravedeva l’uomo che probabilmente sarebbe diventato, e si sentiva orgoglioso di lui, ma non sapeva dirglielo. Sembrava avere un rapporto molto migliore con Elisa, che respingeva, di solito dolcemente, con rispetto e senza mai umiliarlo, ma con punte di asprezza, quelle sue arie di superiorità, ottenendo una considerazione che lui non era certo di avere. Anche Luca era cambiato. Le guance infantili che ancora aveva fino a un paio d’anni prima erano sparite, lasciando il posto a un viso da ometto serio, che avrebbe voluto ancora, qualche volta, essere abbracciato come un bambino, ma temeva le prese in giro di suo fratello, e aveva paura che non fossero cose da “grandi”, e così passava, incerto, da momenti in cui faceva il cucciolo, ad altri in cui drizzava gli aculei come un istrice. E trascorreva ore in camera sua, a leggere, senza fare nessun rumore, invisibile e silenzioso, fino a farsi dimenticare. Come era stato lui, da ragazzo. Lo inteneriva e lo preoccupava.
Erano le sei, le giornate andavano accorciandosi, e un nuovo tramonto si impadroniva delle cose tutt’intorno, lì sopra il porto antico, tra il vecchio e il nuovo, tra la pietra e il metallo. Forme tanto diverse avvolte nella stessa luce arancio, che rendeva più nitidi i contorni ma nello stesso tempo rendeva tutto uniforme, tante sagome nere ben delineate contro un cielo sgargiante e chiassoso. Il rumore del traffico non gli aveva mai dato fastidio, adesso lo trovava insopportabile.
Tre anni. Come avevano potuto passare tre anni? Tre anni pieni di cose, senza particolari avvenimenti, d’accordo, ma con emozioni che si portava dentro senza sapere dove collocarle. Frasi importanti, mostre che era sembrato essenziale andare a vedere, libri che non avrebbe mai potuto fare a meno di leggere, e adesso tutto era avvolto in questo spazio compatto, senza più distinzione di giorni, di mesi, di anni. Era stato in gennaio che… no, era stato a ottobre dell’anno prima. D’accordo, forse non era la cosa più importante, il tempo in cui le cose accadevano, ma gli faceva paura questo ingoiare le differenze, i minuti che erano stati significativi e quelli in cui non c’era stato niente di importante, i minuti in cui aveva dormito, o che aveva trascorso nel traffico e quelli in cui aveva incontrato Stéphanie e l’aveva amata, come se fossero tutti uguali, quei minuti, appiattiti, spianati da una ruspa che aveva tolto loro ogni individualità, ogni singolarità.