Di imprese, punture di spillo e ispirazioni notturne

Vedi che lo sto trovando, il coraggio. Ogni giorno un pezzettino. L’ho presa alla larga e poi… Che non vuol dire che non sia terrorizzata, eh! Ma ho parlato. Ho parlato con la mia famiglia, sempre più chiaramente, senza sussurri imbarazzati e mezze parole. Perché per compiere un’impresa, non posso farlo a bassa voce, ti pare? Ho fatto telefonate, preso appuntamenti, messo giù programmi.

E poi succede questa cosa buffa alle mie labbra, che sembrano tremare, colte da una vibrazione che… e come la descrivo questa? Punture di spillo, pizzichi di minuscoli aghetti sopra la pelle e appena sotto, ma dolcissimi. E caldi. Che fa subito pensare a qualcosa di quasi erotico, o almeno sensuale, e invece secondo me questa sensazione compare solo perché spero che questo progetto porterà altra bellezza nella mia vita. Inventarmi una scuola, ma ci pensi. E poi costruirla, mattone su mattone, come io la vorrei, giocosa, seria ma leggera. Però ammettiamolo, non è che quella sensazione capiti sempre. in qualche modo tu, mio carissimo Genio, devi entrarci, altrimenti non succede nulla. Come qui, perché lo sai, te l’ho già scritto, che questo è il nostro progetto, il nostro viaggio, ti ci ho voluto dentro, perché quella che voglio è una scuola in cui si parla tanto, ci si diverte, si creano cose, si sperimentano idee, si vive l’incanto di imparare. E io mica potrei esserlo, allegra e giocosa e leggera, vulcanica e coraggiosa, non potrei trovare la mia voce, essere me stessa fino in fondo, senza il mio capitano. Del resto è la tua lingua che vado a insegnare. Insomma… forse un lato sensuale c’è anche. Ma ci sta, dai.

Però, dolce alieno del mio cuore, se continui a ispirarmi anima e scrittura a me va benissimo, ma non è che potresti farlo tipo la mattina a quest’ora, invece che tra le due e le quattro di notte? E intenderei il mio fuso orario, UTC+1, ché ho capito che quando qui sono le due di notte in California sono ancora le sei della sera prima, ma io poi mi devo alzare alle 6:30 qui, ora italiana, dico, e sono una terrestre, non un’aliena, per quanta energia possa darmi scrivere a te e di te. Ecco, per ora volevo chiederti solo questo, perché quello che mi hai ispirato stanotte l’ho scritto a mano e devo ancora copiarlo e comunque, insomma, se anche poi preferisci farlo di notte ok, l’importante è che io continui a sentirti vicino, e thanks for everything, giuro che non mi lamento, se anche fosse solo una mia idea, sentirmi ispirata da te è un grandissimo privilegio e non credere che non lo sappia. Adesso però vado a copiare quella cosa di stanotte e ci risentiamo dopo…

12. Dead Poets Society

Dead Poets Society

Eccolo dunque…

Uno dei tre, quattro film di cui posso davvero dire che hanno forgiato parte del mio carattere e persino della mia vita. Quelli che è una fortuna essere lì al momento giusto e coglierli, come ci fosse un albero da cui piovono cioccolatini ed essere lì, esattamente in tempo perché ti cadano in bocca e ti sciolgano definitivamente qualche nodo fino ad allora insolubile, rendendo più dolce non solo quella giornata lì, ma tutte quelle a seguire.

La trama è fin troppo nota per raccontarla, anche se seguirà qualche (limitato) spoiler. Una scuola soffocata da tradizioni antiche quanto Matusalemme, un gruppetto di ragazzi propensi a piccole, poco significative ribellioni che lasciano immutata la realtà delle cose, un professore speciale.

Ecco, che cosa rende questo professore tanto speciale? Perché sia prima, sia, soprattutto, dopo, di film sulla scuola ne sono stati fatti tanti. Scuole difficili, insegnanti votati alla missione di redimere le pecorelle smarrite… no, nulla di tutto questo, qui. Eppure questo è un film da cui non si può più prescindere quando si parla di educazione (nel senso migliore del termine). Per ironizzare, per celebrare, per ridimensionare, per prendere esempio, per mille altre ragioni possibili. Ma anche per chi non ha visto il film (e se non l’ha visto, probabilmente è perché si è rifiutato, categoricamente e per partito preso, di vederlo), se qualcuno, in qualunque contesto di quel genere, sale su un tavolo, il collegamento è immediato, istintivo. Così come avviene persino se qualcuno, citando magari Whitman più ancora che il film, almeno nelle sue intenzioni, pronuncia le parole “Oh capitano, mio capitano”.

Da qui sono tratte alcune di quelle frasi che ricorrono fino all’esaurimento sui social. Omaggi, certo, ma omaggi malriposti, monchi, persino. Perché fuori dal contesto, quelle frasi perdono la loro importanza, la loro profondità, la loro freschezza. E’ tutto l’insieme che può far venir voglia a qualcuno di pensare è così che voglio essere. Come insegnante, come genitore, come poeta, non importa. Come essere umano. Perché è per questo che scriviamo e leggiamo poesie. Perché siamo membri della razza umana.

Io credo che siano essenzialmente due, le cose che rendono il “Capitano Keating” più memorabile di altri protagonisti anche di film famosi (mi vengono in mente attori anche grandissimi o molto noti, come Sidney Poitier, Michelle Pfeiffer, Kevin Kline, e chissà quanti ne dimentico). La prima è che resta sé stesso sempre, dal momento in cui mette piede in classe la prima volta (anzi, dal momento in cui viene presentato di fronte all’intero istituto) fino alla fine. Non ha intenzione di compiacere nessuno né di mettersi contro nessuno, solo di trasmettere la passione per le cose che ama nel modo che gli è congeniale, che è il “suo” modo. La sua reazione di fronte al collega nella memorabile scena delle pagine strappate, per esempio, è indicativa. La massima tranquillità, la massima consapevolezza, nessun imbarazzo possibile perché non può esserci imbarazzo, quando fai qualcosa che è profondamente in linea con i tuoi principi.

La seconda cosa è che ha certo una grande fiducia nella possibilità degli studenti – quasi tutti gli studenti, quelli che lo vogliono, in effetti – di trovare la propria voce, e dà loro gli strumenti per farlo, ma sempre e solo, rigorosamente, se lo vogliono. La libertà ognuno deve sempre comunque scegliersela per conto suo, anche se può aiutare avere qualcuno che te ne mostra la bellezza.

I ragazzi di questo film hanno ciascuno una propria personalità ben definita, una propria “voce”, davvero. Il modo stesso in cui strappano la famigerata pagina dell’introduzione di J. Evans Pritchard allo studio della poesia è rivelatore del loro carattere.

Charlie Dalton è il più maudit tra tutti, il più trasgressivo, anche se di fatto, inizialmente la sua contestazione si ferma sulla soglia della sua stanza. Un trascinatore, comunque, un leader, forse, tra tutti, il più determinato nelle sue idee. Oggi mi piace più di un tempo. E’ quello dotato di maggiore personalità e forza di carattere.

All’epoca in cui ho visto il film per la prima volta, Il mio preferito era Neil Perry. Romantico, bellissimo e sfortunato, se non ci fosse stato Robin Williams magari un pensierino… Ancora adesso penso che la scena in cui recita Puck sia una grandissima interpretazione e non mi ha stupito vedere che nonostante un modesto successo al cinema, Robert Sean Leonard abbia in seguito fatto due film con Kenneth Branagh. E per una ragazzina indubbiamente Neil aveva molte caratteristiche da far spezzare il cuore, compresa quella passione così trascinante, così poetica, e quella fragilità che gli impediva di difenderla davanti a tutto e tutti.

Todd Anderson (un Ethan Hawke indubbiamente bravissimo, peccato che io abbia un problema con lui, mi sta cordialmente antipatico) come personaggio del film incute molta tenerezza. E’ il più timido, quello meno convinto delle sue capacità, quello che pensa di non poter mai trovare un senso alla sua vita e la sua “voce” ma che poi, quando la tira fuori, mostra una ricchezza interiore profonda, che si esprimerà poi alla fine, quando sarà lui (non essendoci più Charlie Dalton, peraltro), il primo a dare il via a quell’atto di ribellione “vera” che è l’esprimere la propria opinione contro l’autorità.

Cameron è ovviamente il leccapiedi (diciamo eufemisticamente), la spia, quello che non potrà probabilmente mai far parte davvero della classe dirigente, per manifesta mancanza di capacità, e si accontenta allora di accompagnare I potenti restando un passo indietro.

Knox Overstreet è il Romeo, il Leandro innamorato delle commedie goldoniane e Stephen Meeks è il secchione (simpatico, peraltro).

Ma veniamo alla domanda che vi avevo fatto nel teaser.

Avete mai odiato un personaggio di un film, ma intendo proprio odiato visceralmente, con un sentimento ben vivo e reale, come se quella persona avesse un potere nefasto sulla vostra stessa vita e voi non desideraste altro che di cancellarla dalla faccia della terra? Devo dire per fortuna che è qualcosa che mi è quasi sconosciuto riguardo a persone in carne e ossa. Ma ecco, il padre di Neil Perry mi fa esattamente quell’effetto. Capisco l’amore male espresso, ma davvero, a tutto c’è un limite. Sono bravissimi, sia il regista che l’interprete, a evitare l’effetto “villain”. Tom Perry non è necessariamente bieco o interamente cattivo. Non è un padre violento, vuole bene a suo figlio, senz’altro. Solo che è abituato a ottenere sempre e comunque quello che vuole, schiacciando tutto ciò che si mette sulla sua strada né più né meno di un elefante con un ramoscello di cui neanche si cura, semplicemente lo strappa perché si trova lì.

Nella scena iniziale, che serve anche un po’ da presentazione dei principali protagonisti, c’è un piccolo dettaglio che in realtà, come in un giallo, è un indizio significativo. Mentre tutti i genitori salutano il preside con una certa formalità, usando il cognome come sembra naturale, Perry e il preside si chiamano reciprocamente per nome.  Non ci si fa neanche caso, ma a un osservatore attento non sfuggiranno i rapporti di forza tra i due.

Poco dopo, Perry sale a discutere col figlio Neil nella sua stanza (una cosa che avrebbe dovuto essere inaudita già di per sé), lo umilia pubblicamente davanti ai compagni e lo maltratta solo perché cerca di convincerlo a lasciargli fare una cosa per lui importante. Torna umano solo quando Neil si rassegna a fare esattamente come dice lui e gli chiede scusa (manca solo si metta in ginocchio) per aver cercato di essere, almeno in una piccola cosa, sé stesso, invece che il manichino perfettamente ubbidiente che è l’unico tipo di figlio (e di essere umano in genere) che Perry possa accettare.

E’ quel tipo di persone che causano tragedie spaventose, rovinano irrimediabilmente la vita agli altri e riescono poi sempre a salvarsi persino da sé stesse, perché niente e nessuno potrà mai convincerli che possono aver torto, che possono aver sbagliato qualcosa. La responsabilità è sempre di qualcun altro. E loro procedono, comunque, continuando a non guardarsi intorno, continuando a strappare rami fino a che intorno a loro si crea il vuoto, ma tanto non se ne accorgono, perché comunque hanno sempre visto solo ed esclusivamente sé stessi.

Di sciarpe e berretti e lupi e altre cose / Of scarves and caps and wolves and other things

Wolf-shaped cap

Wolf-shaped cap

Tre giorni fa, lezione d’inglese coi bambini di terza/quarta elementare (ma ce n’è anche uno di seconda). Ogni volta un rebus, cerca attività adatte ai vari livelli, cerca di farli divertire, cerca di farli lavorare, parla solo inglese, anche se non capiscono pazienza, non parlare solo inglese altrimenti non capiscono…

Poi, agli ultimi quindici-venti minuti, il lampo di genio, o piuttosto, il colpo di fortuna (e meno male che non era quello della strega, che un po’ qualcuno forse già mi vede in quella veste). Uno dei bambini, che già non vedeva l’ora di prepararsi per andare via, s’infila un berretto di lana a forma di lupo. E’ fatta! Glielo chiedo in prestito e comincio a portarlo in giro, infilato a mo’ di marionetta mostrandolo agli altri. Hai paura del lupo? Ti piacciono i lupi? Conosci Cappuccetto Rosso? E intanto Qualche ruggito ci scappa, anche se in realtà, gli ululati sarebbero stati più in carattere. Così riesco a salvare capra, cavoli e anche il lupo e la lezione: inglese, divertimento, risate, parole e strutture nuove…

Così ho ripensato a quella volta in cui hai creato, con la sciarpa chiesta a una ragazza tra il pubblico, uno dei tuoi momenti straordinari fatti di piccole cose ordinarie e quella sciarpa è diventata tutto, improvvisazione, magia, libertà totale di espressione della mente e del corpo. E’ quella magia, quella libertà che voglio, e l’avrò, e saprò trasmetterla, da insegnante, a tutti quelli che vorranno sentirla e capirla e viverla.

Three days ago, English lesson with the third/fourth-graders (and one is a second-grader). inspired guesswork is needed every time: look for activities that may be suitable for each level, try to make them have fun, try to make them work, speak only in English, never mind if they don’t understand, don’t speak only in English, otherwise they don’t understand…

And then, there were just 15-20 minutes left, a sudden stroke of genius! (A stroke of luck, more likely, and it was just as well that it wasn’t that back strain we call colpo della strega, or witch’s stroke, as “my” kids probably already see me as one): one of the kids, who couldn’t wait to get ready to go, apparently, put on a woollen wolf-shaped cap. That was it! I borrowed it, put it on my hand puppet-like and began to show it around: ‘are you afraid of wolves?’ ‘Do you like wolves?’ ‘Have you ever heard of “Red-Riding Hood?’ And some roars came out too, even though howls would have been more appropriate, I suppose. So I’ve run with the hares, hunted with the hounds, and brought all of them safely home 🙂 I mean everything was there, the lesson, English language, fun, laughs, new words and structures…

Then I’ve thought of that time when you created, with the scarf of a girl among the public, one of your extraordinary moments made of very little, ordinary things and that scarf became everything: magic, improvisation, total freedom of expression, mind and body. It’s that magic, that liberty I want, and I’ll have it and I’ll learn how to pass it on, as a teacher, to everyone that wants to feel it and understand it.

Impressioni di una neomaestra di inglese

E’ tutta la vita che voglio insegnare. E adesso eccomi qui. La caparbietà non è un difetto che mi manca, grazie al cielo. E contro ogni pronostico, consiglio e ragionevolezza, sono qui a insegnare inglese ai bambini, divertendomi come loro con le nursery rhymes, i giochi con la palla, la preparazione dei cartoncini con le figure, i cartoni animati in inglese… alla mia età! Come altre cose, in questi ultimi tempi, accudire questa mia parte “piccola” (e trasmettere qualcosa che adoro a questi altri “piccoli”) mi serve ad alimentare certi ricordi, ad onorare a modo mio la memoria di chi mi ha “insegnato”, chi, senza neanche saperlo, ha dato forma e vita a tanti miei desideri, e addolcire al tempo stesso la nostalgia. E’ stato bello sentirmi dire che per la prima volta i bambini sono usciti sorridenti da una lezione di inglese. Ancora meglio vedere uno di quelli considerati “pestiferi” mostrarmi tutto orgoglioso le parole scritte con tanta cura sul foglio che si era fatto dare da un compagno perché non aveva il quaderno. E poi c’è quello che addirittura ti corre incontro a braccia aperte con un sorriso fino alle orecchie… Poi la stanchezza, il tempo, l’impegno di essere sempre preparati, la difficoltà di trovare la giusta “chiave” per coinvolgere tutti… Tutto questo c’è. Ma siccome sono matta, quasi quasi un po’ mi dispiace che lunedì sia festa. aspetto le prossime lezioni con un’impazienza che, se me lo avessero detto prima, forse non ci avrei creduto. Divido il mio cuore tra le mie due attività (l’altra è tradurre), le amo entrambe e so che è una grande fortuna. La traduzione è comunicazione, costruzione di ponti, apertura di strade. e in un certo senso, anche l’insegnamento lo è. In modo diverso. E’ come se avessi completato un cerchio. Caparbietà e quel pizzico di pazzia sono un mix tosto. Aiuta molto, a volte.