Di amore e di infinito, di scrittura e di farfalle, e di tante cose di enorme importanza a cui non so dare un nome

E’ che con gli occhi e l’immaginazione possiamo vedere l’infinito e l’eterno, ma l’evidenza ci riporta ogni giorno alla finitezza. Non abbiamo spalle abbastanza forti da reggere a questo contrasto così grande e difficile. Forse è per questo che ce la prendiamo col primo che capita. Perché la verità è che ce l’abbiamo con la vita, e con la nostra incapacità di viverla davvero, con tutta l’intensità possibile.
Quando invece accogliamo questo contrasto come una cosa che c’è, che esiste e che ha un suo valore, si apre quel varco che è ferita ma anche apertura. Da lì entra la musica e ogni forma di canto, di arte. Tutto nasce da un dolore che ci scava dentro, ma che possiamo imparare ad amare quando ci accorgiamo che è quel dolore a dare forma a tutte le cose più preziose che abbiamo creato.

“Non t’ingannavi, sai, sulla dolcezza delle cose.
Non t’ingannavi su quella cenere nell’acqua
in cui certo c’è più vita che in un legno morto sottoterra
e si conserva meglio la tua fede
nella metamorfosi delle farfalle.
La mia lucciola m’illumina il respiro, sussurra
la sua musica d’ali quando la pioggia si rovescia
e tuona e lampeggia e sradica e piega
i rami, forse, ma non la sottile bellezza della sua danza d’insetto.
M’inchino al suo risalire la corrente come i salmoni il fiume
ma con la leggerezza infinita dell’effimero
quel suo indomito cogliere il vento a farne volo…”

[alcuni versi dalla mia poesia La metamorfosi delle farfalle]

Nemmeno a farlo apposta, in questi giorni ti vedo dovunque. E’ uscito un nuovo documentario che non vedo l’ora di guardare, credo mostrerà molte delle tue infinite sfaccettature di uomo poliedrico ma di rara coerenza, uno dei pochissimi che potesse davvero permettersi di dire, con cognizione di causa e dopo essersi cercato con grande fatica e tenacia, “io so chi sono”. È uscita una biografia che dicono bellissima e che ho già a casa, aspetto solo la calma per poterla leggere come si deve. Ma non è solo questo. È che sento parlare di un saluto e penso ai saluti che ti inventavi, vedo un sorriso ed è il tuo, guardo Trump e quella che vedo è la tua caricatura, cerco di guardare un comico e non ci riesco, perché nessuno potrà mai raggiungere quelle vette di capacità di far ridere, con un amore così grande per le persone che vuoi far ridere.

Devo tornare alla prosa, pensavo. Dovunque mi giro, ci sei. E se il cuore continua a balzarmi nel petto ogni volta che ti vedo e che ti ascolto parlare, se tutto congiura con la mia testarda memoria per non far affievolire il ricordo neanche per un attimo, vuol dire che è il momento in cui il mio raccontarti deve riprendere la forma in cui è nato. Cambiando forse punto di vista ancora una volta, perché per ogni sfaccettatura cambia la luce nella mia vita, e a me sono tutte necessarie.

Perché poi, si discuteva di scrittura, e di questo benedetto potere delle parole, che non si sa se esiste, e quanto sia grande, e dove si possa trovarlo, certo non ha senso cercare di convincere altri contrapponendo a una verità prepotentemente affermata come unica, un’altra verità unica. La verità, se c’è uno che lo sapeva meglio di tutti gli altri, poi, eri proprio tu, è un’ombra sfuggente che si cerca sotto le rocce, continuamente, perché è una ricerca che non finisce mai, ed è proprio questo il bello. Eppure, “io so chi sono”: quella meravigliosa pienezza che rendeva unici i tuoi occhi, che anche dove la nebbia era più fitta, non ti ha mai fatto dubitare di poter stare al timone, e di poter dirigere la nave nella direzione giusta.

E in questo casino di vita, emozioni, scrittura e riflessioni varie, mi è venuto da pensare anche che a forza di tuonare contro il buonismo, che per carità è odioso, si rischia di non sapere più qual è il limite della cattiveria. C’è un egoismo sano, che permette di prendersi cura di sé e quindi poi anche degli altri. C’è un egoismo malato che è indifferenza, che invece di chiedere indagini serie e approfondite su eventuali casi di malaffare e sfruttamento, preferisce fare di ogni erba un fascio e approfittarne per non doversi mettere in nessun modo nei panni degli altri. Il buonismo è quello di chi espone crocifissi e gattini e buongiornissimi e meme edificanti, e poi dimentica la fratellanza.
C’è un intenso bisogno di libertà e non so quando questo bisogno si è trasformato in un bisogno di ingabbiarsi in schemi rigidissimi protetti da muri invalicabili. “C’è parecchio materiale su cui discutere”, dicevi tu, “ma bisognerebbe discuterne apertamente. Affrontare i problemi, proporre punti di vista e soluzioni, invece di utilizzare attacchi personali. Parlare, parlare davvero, parlare dell’immigrazione, dell’istruzione, dell’inquinamento”. Come avevo scritto in quel famoso libro che adesso dovrò riprendere, cerco di immaginare cosa diresti di certi personaggi, di certi comportamenti. Mi pare a volte di conoscerla così bene, la tua ironia, da poterti ancora sentire, ed è un balsamo. A volte eccessiva, smodata, nel senso per me positivo di non moderata; talvolta sottile, sempre tagliente, certo incisa nel personale dolore di troppe cose che non avresti condiviso, anche se forse non te ne saresti troppo stupito. Probabilmente, a dire il vero, neanche un po’.
Devo tornare a tuffarmi nel tuo sguardo, perché forse, come te, posso imparare a parlare di me per entrare profondamente negli altri. L’intensità non è mai eccessiva.

A proposito di mitezza

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Orson: So, Mork, did you finally get that job you’ve been talking about?
Mork: Oh, not exactly, your bloatness. It seems here that on Earth, everyone finds a need to compete with each other. They compete in sports, in work, in everything.
Orson: What do they get if they win?

Mork: Something called an ulcer, sir. I don’t know what it is, but it must be wonderful because everyone who’s successful gets one.
Orson: I guess it’ll be a while before you put an ulcer on your mantelpiece.
Mork: Oh, noshu, chiefsmoke*. Although Mindy and I did have a competition.
Orson: Oh? Who won?

Mork: We both did, sir. We decided to stick together.
Orson: That’s very good, Mork. You’re learning about cooperation and maturity.
Mork: Oh, yes, your preachiness. I’ve learned that even though you win that ulcer, it’s no fun if you’ve lost the one that you wanted to share it with.

Orson: Allora, Mork, l’hai avuto alla fine quel lavoro di cui parlavi?
Mork: Non esattamente, vostra grassezza. Pare che qui sulla Terra tutti sentano il bisogno di competere gli uni con gli altri. Competono negli sport, nel lavoro, in tutto.
Orson: E cosa si vince?
Mork: Una cosa chiamata ulcera, signore. Non so bene cosa sia, ma dev’essere fantastica perché tutte le persone di successo ne hanno una.
Orson: Credo che ci vorrà un bel pezzo prima che tu riesca a mettere un’ulcera sulla mensola del tuo caminetto…
Mork: Sì, capo. Però anche Mindy e io siamo stati in competizione.
Orson: Ah sì? E chi ha vinto?
Mork: Tutti e due, signore. Abbiamo deciso di restare uniti.
Orson: Questa è un’ottima cosa, Mork. Stai imparando cosa significa cooperazione e maturità.
Mork: Sì, vostra predicozzitudine. Ho imparato che anche se vinci un’ulcera, non c’è divertimento se perdi la persona con cui avresti voluto condividerla.

(Mork & Mindy, Season 2 ep. 6, Mork vs. Mindy)

* Nota: Chief Smoke era un capo Sioux: non mi stupirebbe se combinando la sua inesauribile inventiva nel creare parole con l’amore viscerale (e decisamente ricambiato) per le lingue, di cui assimilava suoni e parole con estrema facilità, Robin si fosse ispirato alla lingua Sioux (Lakota) per inventare un termine che potesse essere inteso come un “probabile/sicuramente”, ma in maniera scherzosa. (Ogu in quella lingua significa forse, Oh hu significa sì). In quella sua meravigliosa testa bizzarra mondi alieni e sonorità russe, francesi, giapponesi, italiane e forse anche Nativo-Americane si mescolavano in qualcosa di unicamente suo, come suo era quell’impasto di tenerezza, spirito di osservazione, sentimento, ironia e comicità e voglia di una visione diversa del mondo.

Nota 2: è ormai noto che moltissime delle battute di “Mork” del telefilm (forse quasi tutte, almeno in parte) erano frutto del talento di improvvisatore di Robin, che ne creava a getto continuo.

-2 Le citazioni.

Queste frasi sono brevissime e sono una più bella dell’altra, darei un’occhiata a tutte se fossi in voi, comunque copio e incollo qui sotto le tre che preferisco.

La prima volta che ho pensato a questo viaggio, però, è stata circa quattro anni fa, guardando in rete un programma del 2010. Robin era reduce dal suo “problemino di cuore”, la sostituzione di quella valvola difettosa, che lo aveva fatto sentire un po’ come una Chevrolet. Io non ne sapevo niente all’epoca, e ricordo bene il sollievo di capire che comunque tutto era andato bene e di vederlo in perfetta forma, sprizzare l’ironia e la gioia di vivere di sempre.

Era ospite di Jonathan Ross, presentatore di un talk show inglese. Ross gli aveva chiesto come mai avesse scelto proprio San Francisco, visto che poteva vivere ovunque volesse. Lo ascoltavo raccontare della prima volta che era arrivato, stregato da questo luogo fuori dell’ordinario, la nebbia che si riversava sulle montagne, la città affacciata sull’oceano, la bellezza in ogni dettaglio… eccetto i terremoti, ma dopotutto, diceva, stiamo su una faglia, è come giocare a dadi con la natura, ma ne vale la pena. E io, innamorandomi per l’ennesima volta di lui, mi innamoravo per la prima volta di un posto che non avevo mai visto, diventato poi il luogo geografico, fisico, la materializzazione di quel punto ideale in cui la bellezza supera la paura e capisci che il desiderio non è rimpianto per ciò che non hai, ma la spinta a ritrovare quello che conosci. Staccare i piedi da terra perché allontanandoti potrai vederla. E’ questo che ti permette di volare, dopotutto.  .

"One day if I go to heaven ... I'll look around and say, 'It ain't bad, but it ain't San Francisco.'" - Herb Caen Photo: San Francisco Chronicle

"San Francisco is 49 square miles surrounded by reality." - Paul Kanter Photo: San Francisco Chronicle / (c) Mitchell Funk

"It is a good thing the early settlers landed on the east coast... if they'd landed in San Francisco, the rest of the country would still be uninhabited." - Herbert Mye Photo: San Francisco Chronicle

Di madri, figli, topi e parole

Mamma: Ciao Topezio

Figlio: Ti sembro forse un topo?

Mamma: sì…

Figlio: Ok, grazie per essere stata sincera con me, ora lasciami solo che devo lenire il mio dolore.

L’abilità del mio figlio (tredicenne) di beccare sempre la frase giusta dal patrimonio cinematografico che ha nella zucca e ritirartela fuori a tradimento nel momento perfetto (e con un vocabolario invidiabile)  è ormai nota in famiglia e nel circondario, scuola compresa. Ma riesce sempre a sorprendermi. Ha sempre avuto un’ironia che a me sembra fantastica, fin da quando, ad appena sei anni, mi passò lo spazzolino da denti con un inchino e le parole “questo è il tuo premio, congratulazioni”. Riesce a farmi ridere nei momenti più impensati (e anche più inopportuni, a volte). Insomma, in certi momenti riesce persino a farmi quasi pensare che anche nell’adolescenza. con tutti i suoi casini (che non sono pochi), le GDE (Grandi Domande Esistenziali), la ASSS (Autostima Sotto le Suole delle Scarpe) e tutto quello che volete, c’è del buono. Spero proprio che questa ironia rimanga sempre una sua caratteristica. Darà del filo da torcere a un sacco di gente, eh, me compresa. Ma va bene così. Poi protegge pure i ragazzini più piccoli presi di mira da alcuni bulletti, così mi è stato detto.

Scrivere stasera fa un po’ male, ma questi momenti sono ottime riserve di energia!

A Night at the Met

A Night at the Met

Foto dal web

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Oggi è il giorno della recensione, e dovrei parlarvi di A Night at the Met. In realtà viene riportato come film, perché esiste la versione in DVD, ma non è un film, è il primo spettacolo comico importante di Robin Williams, vale a dire, il primo in cui ha tenuto un palcoscenico prestigioso come quello del Met, il Metropolitan Opera House di New York.

Il problema è: come si fa la recensione di uno spettacolo comico?

Che lui si muovesse su quel palco con la grazia di una farfalla l’avevo già accennato in un precedente post. L’abbiamo visto raramente ballare e cantare, di solito accennava appena qualche nota e qualche passo. La ninna-nanna Swee’ Pea’s Lullaby, la ballata Sailin’ e il ritratto musicale I Yam what I Yam, tutte tratte da Popeye (quest’ultima, secondo me, ha anche molto dell’autoritratto) sarebbero comunque certo bastate per la vita, anche se non ci fossero stati poi il Ramon di Happy Feet  e il Genio di Aladdin, a ricordarmi che sì, sapeva anche cantare. Che con la sua voce facesse quello che voleva è poi cosa arcinota. Non si trattava di un “semplice” strumento musicale, non solo quello, cioè. Imitava rumori, suoni, accenti, lingue, caratteri, era in grado di afferrare tutte le sfumature di tono di uno sconosciuto che parlava tra il pubblico e farne un’imitazione perfetta nel giro di pochi secondi. Poteva essere durissimo e dolcissimo, glaciale ed empatico, buffo, furioso, remissivo, timido e spavaldo. Poteva farti provare una gioia infinita oppure tutto il dolore del mondo. Ma non solo la voce, tutto il suo corpo, faccia compresa, era uno strumento.

Anche qui, in A Night at the Met, intona giusto un paio di note, a imitazione di Pavarotti e di Placido Domingo (!), ispirata dall’ambientazione, tra carrozze, antiche armature e lampadari di cristallo del peso di una balenottera azzurra (“I’d like to thank Imelda Marcos for her earrings“). Il resto sono  voli dell’immaginazione e della fantasia, tanti, e poi passaggi improvvisi sulla realtà, anche la più cruda, con quella capacità fuori del comune di leggerla e restituirtela trasformata, diventata altro, diventata sua (“They’re talking about partial nuclear disarmament. this is also like talking of partial circumcision. A strange thing. You either go all the way or fuckin’ forget it”).

Molti anni dopo, RW avrebbe ammesso che l’unica vera dipendenza della sua vita era sempre stata quella dalle risate del pubblico. Non faccio fatica a crederlo. Il bambino che dava una voce diversa ad ogni soldatino con cui giocava, per sentirsi meno solo, aveva presto scoperto che quell’antico espediente poteva lenire le ferite altrui quanto aveva fatto con le sue.

Ho pensato a volte di non avere senso dell’umorismo. Sono così pochi i comici che mi fanno ridere, ma davvero molto pochi, potrei fare al massimo 4-5 nomi, e sono tutti “datati”. Forse sono strana io, ma quello che ho capito è che almeno per quanto riguarda me, perché una persona possa farmi veramente ridere fino alle lacrime, bisogna che sappia cos’è il dolore. Il che è tutt’altra cosa dalla tristezza del clown (del resto, non ho mai amato i clown). Qui parliamo di persone che conoscono profondamente le emozioni, quelle più positive e quelle più negative, che hanno la capacità e la voglia di entrare in contatto profondo con la propria parte più intima, e usare per gli altri ciò che conoscono di sé.

Potrei dirvi che mi sono piegata in quattro quando RW ha improvvisato uno scambio di ruoli tra un ipotetico allenatore di football trovatosi a fare il coreografo e un coreografo che dettasse le mosse di una squadra di football. Che per quanto Reagan appartenga alla storia, la sua caricatura diventa una caricatura universale, satira non tanto contro un personaggio in particolare, quanto contro la retorica dell’uomo della provvidenza in generale. Che le parti sull’alcool sono commoventi e quasi drammatiche per chi sa da dove hanno origine, eppure io, almeno, non posso fare a meno di ridere, e di pensare che ancora una volta, la risata ridimensiona il potere di ciò che spaventa e fa male, lo riporta a misura umana, da problema schiacciante e spaventoso lo fa tornare ad essere qualcosa che si può affrontare e risolvere.

Posso dirvi tutto questo, ma non posso veramente riportare per iscritto la personalità dirompente che da’ corpo a battute che magari, dette da un altro o scritte, non sarebbero altrettanto efficaci. Perché qui la comicità diventa racconto di una storia, una storia in cui tutte le sfumature di chi la crea entrano in gioco e quindi nessun altro può appropriarsene. Si può solo guardare ed essere contagiati da quel modo di vedere il meraviglioso dovunque. E ridere di quella risata che fa migliore la vita.

Purtroppo lo show è davvero intraducibile. Credo che le battute che ho riportato siano comprensibili, e comunque quelle posso tradurle se volete, ma per il resto, mi pare un’impresa titanica. Per chi conosce l’inglese, inserisco il video. Come ho detto, esiste un DVD, ma a quanto ne so, non è proprio la versione integrale dello spettacolo (per quanto vale la pena comunque), mentre questa dovrebbe esserlo.

Today is review day and I wanted to talk about A Night at the Met. Actually, it is reported as a film (on Wikipedia), because there is a DVD version, but it’s not a film, it’s one of the first important comedy shows of Robin Williams, and the first in which he held a stage as prestigious as the Met, the Metropolitan Opera House di New York.

The problem is: how do you write a review of a comedy show?

That he moved on that stage with the grace of a butterfly, it’s something I’ve already mentioned in a previous post. We’ve seldom seen him dance and sing, but he was surely able to, although he usually hustled up just a few notes or a few steps. However, the Swee’ Pea’s Lullaby, the Sailin’ ballad and the musical portrait I Yam what I Yam, all taken from Popeye (and the last one has much of a self-portrait, I think) would have been enough to remind me for all my life, even without the Ramon of Happy Feet  and the Genie of Aladdin, that boy, he certainlycould sing. And everybody knows he did whatever he wanted with his voice. It wasn’t a “mere” music instrument, not just that, I mean. He could mimic noises, sounds, accents, languages, personalities, he was able to grasp and perfectly reproduce all tone shades of a stranger from his audience in just a few seconds. He could be extremely harsh and extremely sweet, icy and empathic, funny, furious, submissive, shy and full of confidence. He could make you feel endless joy, or all the pain in the world. And it wasn’t just his voice. His entire body, including his face, was an instrument.

Even here, in A Night at the Met, he starts to sing just a few notes, in imitation of Pavarotti and Placido Domingo (!), inspired by the setting, amid carts, ancient armours and crystal chandeliers that weigh as much as a blue whale (“I’d like to thank Imelda Marcos for her earrings“). The rest are flights of imagination and fancy, so many of them, and then sudden dives into reality, even the most crude, with that uncommon ability to read it and return it transformed into something else, something entirely his own (“They’re talking about partial nuclear disarmament. this is also like talking of partial circumcision. A strange thing. You either go all the way or fuckin’ forget it”).

Many years later, RW would have admitted that the only real addiction in his life had always been to the laughter of his audience. I can well believe it. The little boy who used to give a different voice to each of his toy soldiers to feel less lonely had found out soon enough that this could do the trick for others as well, and heal their wounds as it had done with his own.

I’ve thought at times that I didn’t have any sense of humour. There are so few comedians that make me laugh, very few indeed, I can name 4-5 at most, all of whom are “dated”. I may be strange, but what I’ve realised is this, for someone to really make me laugh till I cry, they must have known pain. Which is something quite different from clown sadness, another thing altogether (indeed, I’ve never liked clowns). We are talking of people who deeply know their emotions, both positive and negative, who are able and willing to come into deep contact with their innermost part, and use for others all that they know of themselves.

I could tell you I was rolling in laughter when RW improvised an exchange of roles between a football trainer and a choreographer. That although Mr. Reagan belongs to history by now, the impression of him becomes universal, not so much a parody of a particular character, as satire against the man of destiny rhetoric in general. That the parties regarding alcoholism are moving and almost dramatic if you know where they some from, and yet I for one cannot help laughing, and thinking that once again, laughter puts frightening and painful situations into perspective, back on a human scale, until the crushing, scary problem turns into something that can be faced and dealt with.

I can tell you all this, but I cannot put down in writing the insuppressible personality that fleshes out jokes, which, if told by someone else or written down, wouldn’t be as much effective, maybe. Because here, comedy means telling a story, and a story in which all facets of the person who’s creating it come into play, so that no one else can take it for their own, although in another sense, it belongs to everybody. We can just watch and be infected by that way of seeing wonder everywhere. And laugh, with that laughter that makes life better.

Here I’ve posted (above, after the Italian version) what I think is the full version of the show from Youtube, there is a DVD but, as far as I know, not all parts of the show are included (although I think it’s worth it anyway).

Club Paradise

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Eccoci arrivati al sesto film con Robin Williams, siamo sempre al 1986. Non stavo nella pelle dalla voglia di parlarne!

Affermo qui senza mezzi termini che Club Paradise è un film meraviglioso.

No, non è un capolavoro della storia del cinema, magari non lascerà tracce indelebili su cui i posteri possano costruire nuove civiltà o quanto meno accapigliarsi in discussioni dotte quanto inutili sul suo significato, il suo stile e la sua mirabile originalità concettuale. E’ un film meraviglioso perché…

1) Jack Moniker è adorabile. Scanzonato, cinico il giusto ma leale nel profondo, seduttore, ironico, pochissimo propenso all’eroismo machista, pronto a cercare di evitare guai ma altrettanto pronto a fare quello che va fatto, semplicemente perché va fatto, senza tante parole. Un po’ guascone, il che non guasta mai. Con il cuore decisamente al posto giusto, però anche la testa, che è beglio, come direbbe il puffo quattrocchi, specialmente quando sei uno di quei tipi che comunque, i guai li trovano in ogni caso. Insomma, l’uomo che ogni donna vorrebbe accanto quando la situazione comincia a farsi un po’ calda… no, aspetta, che avete capito, sto parlando di disordini, rivolte, pericoli, cattivi corrotti da affrontare, quella roba lì. Lì ci vogliono tipi come Jack, con buona pace di Van Damme e compagnia, che francamente non trovo neanche decorativi, men che mai utili.

2) Peter O’Toole nel ruolo del console britannico di un’isola sperduta in mezzo all’oceano scherza su se stesso e un certo ambiente, una sorta di nobiltà colonialistica decaduta, con una capacità di prendersi poco sul serio che un attore veramente serio come lui poteva senz’altro permettersi ma che non è da da tutti.

3) Secondo me si sono divertiti come dei pazzi a girarlo.

4) Adoro la musica di Jimmy Cliff.

5) A me fa ridere. Un sacco. E soprattutto, ogni volta che lo guardo, dopo mi sento molto, molto meglio (anche quando stavo già bene prima). Sarà pure un po’ ingenuo, ma trovo che di questo tipo di ingenuità abbiamo davvero tanto bisogno.

I film precedenti di cui ho parlato sono Popeye, The World According to Garp, The Survivors, Moscow on the Hudson e Seize the Day.

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Here’s the sixth film with Robin Williams, we’re still in 1986. I just couldn’t wait to talk about it!

I will affirm straightaway that Club Paradise is just wonderful. No, it’s no masterpiece of the history of cinema, it may not leave undeletable traces for posterity to build new civilizations upon or, at least, get to each other’s hair in cultured and useless discussions on its meaning, style and admirable conceptual novelty. No, it’s a wonderful film because…

1) Jack Moniker is adorable. Free and easy, unconventional, with just the right amount of cynicism and yet deeply loyal, seductive, ironic, scarcely prone to macho heroism, ready to avoid troubles but equally ready to do the right thing because it’s got to be done, simple as that. A bit of a daredevil, always nice. With the heart definitely in the right place, but the head too, which doesn’t hurt, especially when you’re one of those guys who find troubles anyway, no matter how fast they run. In short, the man that any woman would like to have next to her when the situation begins to get hot… hey, don’t get it wrong, I’m talking of disorders, riots, dangers, corrupt villains to face, that sort of things. Here is where you need guys such as Jack, and leave Mr. Van Damme and those like him at home, as quite frankly, I don’t even find them ornamental, let alone useful.

2) Peter O’Toole as the British consul of an island lost in the ocean jokes on himself and on a certain class, a sort of impoverished colonialist aristocracy, and takes himself very little seriously, something a serious actor like him could certainly afford to do, but that was not for everybody.

3) I think they had lots and lots of fun doing this film.

4) I love Jimmy Cliff’s music, I really do.

5) It makes me laugh. Very much indeed. And above all, every time I watch it, I feel much, much better (even when I already felt good before). It may be a bit naïve, but in my opinion, It’s a kind of naïveté we are badly in need of.

The previous films I’ve talked about are Popeye, The World According to Garp, The Survivors, Moscow on the Hudson e Seize the Day.

3.The Survivors / Come ti ammazzo un killer

Come ti ammazzo un killer (1983) Poster

immagine presa da qui

The Survivors [‘I Sopravvissuti’, letteralmente] è un film del 1983, in cui Robin Williams recita accanto a Walther Matthau, e io personalmente credo sia un peccato non averli visti insieme in altre occasioni.

Sto andando in ordine cronologico (tanto perché così non me ne perdo nessuno per strada), quindi questo è il terzo, le prime due recensioni le trovate qui (Popeye) e qui (Il Mondo Secondo Garp).

Non credo che The Survivors possa definirsi un grande film, anche la comicità non è sempre ai massimi livelli, però è godibilissimo. E attuale. Perché forse tendiamo a dimenticarcelo, quando ricreiamo con la mente un presunto periodo in cui il mondo era migliore, i valori erano più certi e più rispettati e la gente era più contenta e meno spaventata e c’erano persino le mezze stagioni, che alla fine l’età dell’oro è sempre esistita soltanto in un tempo leggendario e appartiene alla sfera del mito.

In realtà, benché risalga appunto ai primi anni ’80, questo film mette il dito su una piaga ricorrente: potremmo essere nel 2000, o magari nel 2014 o nel 2025. C’è sempre qualche data in cui il ‘mondo come lo conosciamo’ dovrebbe finire. E c’è sempre qualcuno pronto ad approfittare di queste e di altre paure e a imbottire la testa delle persone – anche le più miti – di una ‘sicurezza’ da conquistare armandosi contro qualcuno o qualcosa.

Qui Donald Quinelle (Robin Williams) e Sonny Peluso (Walther Matthau) sono due uomini senza nulla in comune eccettuato il fatto che entrambi hanno perso il lavoro e hanno un conto in sospeso col sogno americano, per così dire. Don è un tipo gentile, piuttosto imbranato ma apparentemente innocuo; Sonny è un reduce della guerra di Corea, il classico duro dal cuore tenero che Matthau aveva interpretato spesso. Il destino li fa incontrare in un locale in cui poco dopo avviene una rapina, nel corso della quale Sonny salva la vita a Don ma vede in faccia il rapinatore. I due si ritrovano inseguiti e Don perde la testa. Comincia a comprare una serie di armi letali che non è in grado di usare e finisce per iscriversi a un corso di sopravvivenza dove l’unica regola sembra essere che ciascuno è solo e ogni vicino è un potenziale nemico… e dove l’unica lezione che Don sembra non avere difficoltà ad apprendere è come cacciarsi meglio nei guai.

Robin Williams non è normalmente ricordato per aver fatto fuoco e fiamme contro le armi. il fatto è che far fuoco e fiamme contro qualcosa o qualcuno non era da lui. Ma come la pensasse sulla diffusione indiscriminata è cosa nota a chi abbia avuto l’occasione di vedere i suoi spettacoli (in versione integrale), fin dai tempi di ‘A Night at the Met’ (1986, è reperibile anche su Internet). E a vedere questo film, direi che la sua personalissima battaglia in questo senso era evidentemente iniziata già prima. Va da sé che questa è una delle innumerevoli ragioni della stima sconfinata che ho nei suoi confronti. E’ una battaglia dai toni sempre apparentemente lievi, fatta con le risate più che con le prese di posizione dogmatiche, come ovviamente, appunto, era nel suo carattere. Ma la sua leggerezza pesava assai più di tante parole, per quanto serie, ragionate e condivisibili. Anche perché le sue idee, lui le ha sempre espresse più di tutto col suo modo di essere e di comportarsi. E di far sì che la risata non fosse mai un modo di non pensare troppo alle cose serie, ma proprio il contrario: Tu ridi e dopo le rotelline cominciano (o continuano) a girare. E non smettono più….