#Film 1933: Topaze e Morning Glory

Topaze è un delizioso piccolo film con John Barrymore e Myrna Loy, tratto da una commedia di Marcel Pagnol. Auguste Topaze, un ingenuo scienziato e modesto insegnante di scuola, viene licenziato quando rifiuta di alzare i voti al figlio di una baronessa (ah! Ma già allora, dunque, certi genitori usavano prendersela con gli insegnanti quando i loro figli non combinavano niente!). Viene in seguito assunto dal marito della baronessa, con la complicità della sua amante Coco, come “prestanome” per dare credibilità a una presunta acqua miracolosa e costosissima. Quando scopre la truffa, e viene insignito degli onori accademici da una commissione che capisce essere corrotta, Topaze decide di ripagare il barone della stessa moneta. Riuscirà a vendicarsi senza perdere la faccia, e persino a conquistare la bella Coco. John Barrymore è strepitoso.

Anche Morning Glory mi è piaciuto moltissimo: è valso tra l’altro il primo Oscar a Katherine Hepburn, attrice che come dicevo ammiro particolarmente. In un certo senso il film “è” Katherine Hepburn, si basa sulla sua bravura, sul suo fascino e sulla sua personalità. La storia in sé non sarebbe infatti particolarmente originale – tratta della strada costellata di delusioni e ostacoli che una ingenua ma ambiziosa ragazza di provincia deve percorrere per arrivare al successo (non si sa quanto duraturo) a Broadway. Lei la rende “viva”.

#Film 1933 – Dinner at Eight

Dinner at Eight è un altro film-parata di stelle, un  sulla scia di Grand Hotel dell’anno prima, diretto da George Cukor, forse per questo a me è piaciuto di più (Cukor è uno dei miei registi preferiti), benché lo abbia visto un po’ a pezzi e bocconi, spalmato su varie serate, perché non sono riuscita ad avere due ore tranquille in cui guardarmelo tutto intero con calma.

Le star sono qui radunate con il “pretesto” di una cena organizzata dalla signora Millicent Jordan (Billie Burke), moglie di Oliver (Lionel Barrymore), un imprenditore marittimo che la crisi del ’29 ha portato sull’orlo della rovina. Millicent è molto ansiosa di salire la scala sociale, e a questo scopo serve la cena, che tuttavia non parte sotto i migliori auspici: mentre la signora sembra essere riuscita nel colpo gobbo di assicurarsi la presenza di una ricca e aristocratica coppia inglese, nel frattempo succede di tutto. Il marito le chiede di invitare Dan Packard (Wallace Beery) e la moglie Kitty (Jean Harlow), in quanto lui è un magnate che, per quanto grezzo, poco affidabile e probabilmente scorretto, potrebbe aiutarlo a tirar fuori dai guai la sua azienda. Uno degli ospiti di Millicent, il Dottor Talbot, che ha in cura Oliver Jordan per problemi cardiaci, è anche l’amante della moglie di Packard. Tra gli ospiti c’è Carlotta Vance, attrice ai suoi tempi molto amata e vecchia fiamma di Oliver, al momento non accompagnata, per cui Millicent si trova nella necessità di invitare un altro uomo e si rivolge a Larry Renault (John Barrymore), un attore in crisi e con problemi di alcol. Peccato che Millicent non sappia che sua figlia ha una relazione clandestina con Larry…

Grande successo all’uscita, acclamato anche dalla critica, all’epoca e ancora oggi. Splendida Marie Dressler (Carlotta) nel suo ritratto ironico e insieme dolente di una diva al tramonto, che rivela, più che celare, sotto toni ironici e quasi auto-denigratori un consistente residuo di vanità. Gli sguardi sono tutto, in questo viso estremamente espressivo.

Tra ironia, dialoghi serrati, drammi, preoccupazioni, affetti ed egoismi, il film ci lascia intravedere un momento nella vita di una famiglia che potremmo dire della ‘medio-alta borghesia” americana degli anni ’30, momento abbastanza significativo, in sé e per come viene trattato dal grande regista, da poter aprire uno squarcio su una bella fetta di società in quel periodo storico.

#Film 1932: Grand Hotel

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Grand Hotel è il capostipite di quel genere di film  detti portmanteau, che potrebbero probabilmente essere chiamati così anche in italiano, in mancanza (almeno credo, i conoscitori del cinema potranno aiutarmi su questo) di un termine corrispondente di uso comune. Oppure, prendendo in prestito un termine della linguistica, si potrebbe parlare di film macedonia.

Si tratta di film che raccontano frammenti di vita di varie persone, unite in genere da una situazione o dal luogo in cui si trovano, come, in questo caso, il Grand Hotel, appunto, e i cui destini a volte si intrecciano, a volte no. Sono solitamente soprattutto delle “parate di star”, e questo non fa eccezione, ma è un gran bel film comunque.

La pellicola fu candidata all’Oscar solo come miglior film, vincendolo, e ad oggi resta l’unico caso in cui un’opera abbia vinto l’Oscar senza aver ricevuto alcuna altra nomination.

Diretto da Edmund Goulding, ambientato a Berlino, ha un cast di tutto rispetto: John Barrymore è il Barone Von Geigern, un nobile decaduto finito a vivere di espedienti e scommesse, con un debito che non gli permette di uscire dal “giro” losco in cui si è infilato; il fratello Lyonel è Klingelein, un piccolo impiegato al quale resta poco da vivere, e che ha deciso di trascorrere gli ultimi giorni nel lusso. Wallace Beery è il viscido industriale Preysing, l’ex datore di lavoro di Klingelein, anche lui al Grand Hotel per cercare di concludere a qualunque costo una fusione societaria che potrebbe salvarlo dalla rovina. Greta Garbo è la ballerina russa Grusinskaya, ormai sul viale del tramonto e in piena crisi, che si innamora del barone Von Geigern quando questi entra nella sua camera per rubare una collana di perle. Joan Crawford è Flaemmchen, una giovane e alquanto disinvolta stenografa, che in realtà aspira a fare l’attrice ed è alla ricerca dei soldi necessari.

Questo leitmotiv dei soldi è un altro tema in comune tra i protagonisti: chi ne ha tanti non è destinato a goderseli, come la ballerina Grusinskaya, creatura estremamente sola, o il Barone, che li ha dilapidati, o Preysen, che ne ha guadagnati tanti ma persi di più a causa della sua mancanza di scrupoli. Chi non ne ha, come, ancora una volta, Von Geigern e Preysen, e come Flaemmchen, è disposto a tutto o quasi tutto per averli. Tuttavia, Von Geigern e Flaemmchen hanno mantenuto la loro umanità, e avranno entrambi un ruolo nel dare a Kringelein un po’ di felicità: sicuramente breve, ma a lui tutto sommato sembra non importare poi tanto. È l’unico al quale forse davvero quel po’ di soldi messi da parte in una vita di lavoro consentiranno di essere felice, finalmente e per la prima volta nella sua vita.

Alcuni film degli anni ’30, visti in questi giorni

Tra fine 2018 e inizio 2019 ho visto questi classici datati 1932 (tranne l’ultimo Philo Vance che è del ’33). I film di Philo Vance sono dei gialli piacevoli, all’inglese decisamente, benché il protagonista sia americano (ma ispirato strettamente a Sherlock Holmes). William Powell ha interpretato il personaggio in quattro pellicole (le tre inserite qui più The Canary Murder Case, che è del ’29 e ne avevo parlato in un precedente post) ed era considerato il migliore nel ruolo, che in seguito abbandonò per interpretare l’uomo ombra. Purtroppo alcuni dei link non sono direttamente cliccabili, ma se ci andate sopra dovrebbe darvi la possibilità di aprire i video. Sono in inglese, ma se esiste una versione italiana, forse youtube potrebbe segnalarvela.

The Greene Murder Case

Man of the World è sempre con William Powell, che questa volta però, smessi i panni di Philo Vance, ha il ruolo di un giornalista trasformatosi in ricattatore, che si innamora della figlia di una delle sue vittime.

A Bill of Divorcement infine, melodramma piuttosto atroce soprattutto nella sua conclusione, vede la vita di una donna, Margaret (Billie Burke) sconvolta dal ritorno dell’ormai ex marito Hilary (John Barrymore) fuggito dalla clinica in cui era rinchiuso. Alla figlia Sidney (Katherine Hepburn alla sua prima apparizione sull schermo) era stato detto che il padre era ricoverato per una psicosi traumatica, ma si scopre che in realtà soffriva fin da prima di una malattia mentale, e sarà proprio Sidney a pagare il prezzo più alto. I melodrammi non sono il mio forte, specialmente quelli impregnati di malinteso senso del dovere, ma adoro Katherine Hepburn, una delle mie attrici preferite in assoluto. Forse solo la sua interpretazione salva il film, nonostante la presenza ingombrante di John Barrymore, sicuramente uno dei grandi attori dei suoi tempi, ma la cui recitazione un po’ sopra le righe stava già lasciando spazio a quella della generazione successiva.

 

Vi sono in ciascuno di noi due nature contrapposte…

Un  altro film del 1920, regia di John Stuart Robinson e con quell’altro mostro sacro di John Barrymore (dove “quell’altro” è da intendersi come “oltre a Douglas Fairbanks Sr.”, star di The Mark of Zorro/ Il segno di Zorro di cui ho parlato in un altro post). Un altro horror ma in questo caso avevo letto il libro e mi era molto piaciuto. Il Dr. Jekyll è un integerrimo filantropo, dedito ad alleviare le miserie e le sofferenze soprattutto dei pazienti più poveri, una vita dedicata interamente agli altri e per nulla a se stesso. E qui sta il problema: per il buon dottore, dedicarsi agli altri significa anche sviluppare se stesso. Ma quale se stesso? Obietta il padre della sua fidanzata, Sir Carew. Ogni uomo è diviso in due parti, e come usare la propria mano destra non esclude certo di usare la sinistra, così non si dovrebbe dare spazio soltanto a una parte di sé, trascurando del tutto l’altro (quello forse che gli psicologi oggi chiamano il “sano egoismo). Nessuno può essere “soltanto” buono (nel racconto sir Carew è uno stimabilissimo gentiluomo settantenne; nel film è diventato un uomo di mondo cinico e amorale, ma la figlia è una fanciulla convenientemente svenevole, casta e morigerata; gli scopi di Carew non sono del tutto limpidi; tuttavia dice cose condivisibilissime e proprio per questo capaci di mettere in crisi il povero dottore). E poi il Dr. Jekyll ha anche una passione per la scienza e gli amici non vedono di buon occhio quella sua curiosità, quella mania di sperimentare, di allontanarsi dalla natura (sappiamo anche oggi quanto sia ancora diffusa l’idea che il pensiero scientifico sia un po’ pericoloso, anche se sulla definizione di ciò che è “naturale” potrebbero scriversi volumi – e probabilmente qualcuno lo ha fatto). Così decide di tentare questo esperimento rischiosissimo: separare le due nature in modo da poter cedere a ogni tentazione, salvando tuttavia la propria anima.

Barrymore veniva dal teatro e direi che si vede, si comprende la ragione per cui è stato considerato “l’attore più idolatrato del suo tempo”. Il trucco fa le veci degli effetti speciali e si può comprendere come all’epoca il film avesse tutti gli ingredienti per “sfondare”: sensualità, donne perdute, violenza, l’idea che il male renda anche fisicamente deforme chi lo pratica, ma al tempo stesso una certa fascinazione per il torbido. Nonostante il muto e la “vecchia scuola”, benché in alcune scene la recitazione appaia ai nostri occhi decisamente fuori dalle righe, questo non avviene tanto quanto mi sarei aspettata, anzi. Sono molto curiosa di vedere i film in cui Barrymore ha recitato dopo l’introduzione del sonoro.

In each of us, two natures are at war – the good and the evil. All our lives the fight goes on between them, and one of them must conquer. But in our own hands lies the power to choose – what we want most to be we are.

(Vi sono in ciascuno di noi due nature contrapposte – una buona, l’altra malvagia. Per tutta la vita esse conducono una battaglia l’una contro l’altra, e una delle due dovrà infine prevalere. Ma abbiamo nelle nostre mani il potere di scegliere – ciò che più vogliamo essere è ciò che siamo).