
Lo sapevo che questo era un libro bellissimo. Lo sapevo che l’avrei amato dalla prima all’ultima riga. Lo sapevo perché avevo letto altri due libri di Maggiani e so che scrive alla maniera che piace a me, una prosa che è fatta di emozioni che scorrono, ogni parola curata con amore, studiata con passione per condividere parti di sé profonde e importanti e farlo con quella naturalezza che è resa possibile solo da lunga pratica e lunghe ore trascorse a occuparsi della scrittura con la pazienza di un amanuense.
Lo sapevo, e infatti l’ho acchiappato subito in libreria, anzi, ho lasciato che mi acchiappasse. E poi però l’ho riposto lì, in uno dei ripiani alti dello scaffale dove tengo la letteratura italiana, non perché la voglia irraggiungibile, ci arrivo facilmente se voglio, basta una semplice scala e con quell’aggeggio ho una certa dimestichezza. Là ci sono libri ancora da leggere me anche molti che ho letto e riletto e che rileggo ancora. Insomma, sapete come si dice, per ogni libro deve arrivare il tempo giusto. Non è detto che dopo essersi lasciati prendere al momento dell’acquisto, poi arrivi immediatamente il momento della lettura. Possono passare giorni, mesi, o come in questo caso, persino anni. Può capitare che ti torni in testa proprio quel volume e sia come un colpo di fulmine a scoppio ritardato, l’improvvisa ri-esplosione di un amore, oppure a un certo punto cominci a vagare per i ripiani, senza meta, in maniera un po’ svagata e poi… taac! Eccolo, è lui! Era quello che in realtà stavo cercando senza saperlo.
Così mi è successo con questo libro, il libro giusto per il mio spirito in questo momento, riposare la mente con la bellezza, ritrovare il piacere di leggere un libro che non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un saggio né una biografia. Una guida. Sì, ma naturalmente una guida molto particolare. Guida scritta girovagando per ritrovare nella città reale anche (ma non solo) quella sognata, ricordata e ricostruita giorno per giorno attraverso i sentieri che si percorrono via via, dove la nostalgia non diventa mai rimpianto per una inesistente epoca d’oro, ma mescolanza di ricordi e presente, il passato rivissuto attraverso il nuovo, perché il nuovo non cancella, modifica, aggiunge ma è accolto dall’antico e lo accoglie in una convivenza forse difficile ma certamente possibile e anche, direi, fertile.
Con Genova ho un legame particolare, non è un segreto. Ci vivo, ci sono nata, ma non è solo questo. Anzi, non è questo per nulla. Sono convinta che in un certo senso si nasca in un luogo per caso. Ci sono molti luoghi dove mi sarei fermata e che avrei potuto chiamare casa. Luoghi dove mi fermerei anche adesso, e ancora, ne sono certa, li chiamerei casa. Ma Genova mi sorprende sempre, quando la guardo con i miei occhi e ancora più, certo, quando la guardo con occhi di altri.
Ai margini dei miei sogni so che esistono vaste distese indecifrabili, indistinte nella penombra, e nutro seri dubbi che io possa riempire quelle plaghe nel non molto tempo che mi resta ancora per sognare. Finirò prima io della mia città, e questo è ciò che deve essere: come ho potuto constatare nei molti giorni e anni di veglia che ho abitato nella città, Genova è più grande di tutto quello che potrò mai vedere di li, oltre che di tutti i sogni che io abbia potuto sognare. […]
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E anche se ero un bambino lercio e svagato, capivo, ero parte, possedevo ciò che dalle zappe di quelle donne contorte di artrite, gobbe sui solchi, sgorgava come un gesto matematico divino. Così vedevo quanta bellezza c’era nel filare di vigna di vermentino posto al confine degli orti per addolcire l’orizzonte. Nell’arco morbido della potatura che mio nonno eseguiva dopo il tramonto con gli occhi lacrimosi di cataratta. E vedevo tutto il resto che era fatto per gratuita e necessaria bellezza. Perché ci fossero un ordine e una grazia nel lavoro, in quella vita senza giustizia.
E di questo ho imparato ad aver fame, e questo cerco. Dappertutto. Per consolazione lungo la strada, per riposare quando mi fermo. Per stabilire dove sarà la mia casa, per non perdermi quando ne esco e quando intendo tornare.
O per perdermi invece, ma di quella meravigliosa perdizione che è la vertigine dell’appartenere. Quando i tuoi occhi incontrano la bellezza e smettono di guardarla e cominciano a sorbirla. Quando è il tuo corpo che sente la bellezza. E tu sei abitatore della meraviglia, e la meraviglia ti abita. Fosse anche solo il triplo tornante della crosa della Madonnetta. L’elica di pietra serena e mattone e porfido che trasfigura la salita in Ascensione. E il suo movimento perfetto ti spinge tutto quanto sei verso il cielo; il cielo è indaco di tramontana. E il bordo della crosa è fiorito di camomilla selvatica, e l’ombra sul muro a secco è merlettata dalle fronde di edera. Odora l’edera, la camomilla, la pietra serena e persino il cielo. In un giardino oltre il muro delle edere un merlo chiama, risponde il soffio di un balzo. Uno spirito scompiglia i rami alti di un ulivo, le foglie rovesciano l’argento sull’indaco. E tutto questo ti porta in un altrove, dall’altra parte della fatica, sull’orlo arrotondato della coscienza. Tutta la tua stanchezza di uomo che ha valicato molti confini e arrancato su molte salite e smottato su molte discese per essere lì in quel momento, è presa in possesso dagli esserini dell’universo invisibile che senti salire su dai piedi fino ai capelli. Uno per uno, piedi e capelli. Intrisi di un vino spillato a da un niente che ti dà il capogiro. E ti commuovi perché gli esserini ti sono entrati fin nelle budella e lì hanno depositato particelle di bellezza. Che senti tra le mani e te la spalmi sugli occhi, ti ci frizioni le orecchie. Vedi intorno fino all’orizzonte di San Benigno e oltre, fino alla diga, e oltre ancora, fino alla striscia di Pra’, e forse fino al Monviso, l’ordine perfetto del creato nelle mani buone degli uomini. Tu ne sei una parte né più né meno dei ciottoli sulla corsa, delle edere, delle ombre cremisi sulla malta rosata tra le pietre della spalletta. Sei un rumore silenzioso. resteresti lì in eterno, perché lì ora hai eletto la tua casa, eretto il tuo rtparo.
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Che Genova non è mai una cosa sola. Ma sempre due cose assieme, o tre, o quattro. Sempre, in ogni suo luogo, circostanza e anima.