Sto leggendo…

Libro preso un po’ per caso, vagando con lo sguardo e poi con la scala in recessi sempre meno a portata di mano, non so se vi succede, ne afferrate diversi, uno dopo l’altro, e vi sembra di non essere nel giusto mood per nessuno, finché alla fine ne scegliete uno, non convinti fino in fondo, ma perché ricordate che c’era stato un momento in cui averlo era sembrato imprescindibile e una ragione doveva pur esserci.

Una ragione c’era, infatti, e leggendo la sto riscoprendo. È un libro bellissimo, inquietante, dalla scrittura magnifica, severa, sicura e insieme aperta a mille altri dubbi, domande, possibilità, nuove interpretazioni, pensieri anche recalcitranti e ribelli, in disaccordo. Un libro fertile, ecco.

Volevo qualcosa che mi coinvolgesse profondamente, che anche senza rispecchiarmi del tutto, mi appartenesse al punto da rendere difficile staccarmi dalle sue pagine. L’ho trovato.

Il blog (e la scrittura): passione indisciplinata

Sono disordinata, sconclusionata, disorganica, lo sapete. Non sempre, qualche volta. Per scelta, più spesso che no. Faccio duemila cose perché ne inizio cinquecento e poi devio, vado un po’ qua e un po’ là, ne incontro altre, mi lascio incantare e perdo la strada, trovo altri sentieri nascosti.

Tutto questo per dire che ho iniziato tante rubriche e sono anche riuscita, per qualche tempo, a seguirle con una certa regolarità, ma credo che questo non sia il momento adatto per proseguire in quel modo. Scriverò, d’ora in poi e non so per quanto, forse per sempre, quello che voglio quando ho tempo e quando mi viene, per cui può essere che un giorno posti tre articoli, o chissà, magari quattro o cinque, e poi non scriva per una settimana. Come già sta accadendo, del resto, sto solo prendendo maggiore consapevolezza del fatto.

Scrivere è una fatica, bellissima, ma una fatica. Molta della sua bellezza sta, per me, nel fatto che è una fatica non organica, non sistematica, indisciplinata. Alla fine, mi ci sono voluti oltre cinquant’anni, ma ho capito che ogni volta che comincio a fare qualcosa con una cadenza fissa, perdo la passione, e quella, proprio non voglio perderla.

Quindi ecco, volevo dirvi, non aspettate il Robin’s Monday o il Sabatoblogger o il Cinema del Martedì, o la Lettrice della Domenica (e poi la musica, allora? e i viaggi? e…) perché mi sa che tutto potrà succedere in qualunque giorno della settimana…

Sabatoblogger e Lettrice della Domenica – Due in uno

Sono talmente esausta da essere praticamente priva di energie, stasera, sarà il contrasto tra il freddo e il caldo, o il lavorare di zappa di ieri e oggi, a cui dallo scorso autunno non sono più abituata, come che sia, sono distrutta. Visto che ieri non ero riuscita a postare per la rubrica dei Blog del sabato, ho pensato di unire quella alla “Lettrice della Domenica”, così vi segnalo il post La seta e l’uragano, di Emanuele Somma, recensione di un libro che mi sembra interessante. Il post è tratto dal blog La Stanza 101, di Valentina Zanotto, appassionata di cucina, arte e fotografia, ma soprattutto di libri.

La lettrice della domenica: La felicità, di Robert Misrahi (Elliot ed., trad. di A. Rizzi)

Ho proceduto molto, molto a rilento con questo libro, incespicando e dubitando di riuscire a finirlo, eppure non ho mollato. La felicità come fondazione, coscienza sostanziale, atto riflessivo e filosofia mi interessa molto. Lo ammetto, mi aspettavo un tono più divulgativo, e resto convinta che molto si sarebbe potuto dire con un linguaggio meno “iniziatico”. Tuttavia, posso anche dire che la riflessione su alcuni concetti ha beneficiato di una comprensione non immediata. Mi ci sono picchiata un po’, ho dovuto tornarci su, spesso più e più volte, e questo dopotutto mi ha impedito di adagiarmi.

La felicità non potrà quindi essere il semplice giudizio, la semplice interpretazione riflessa e attuale dell’insieme di una vita da parte del soggetto di questa vita; non potrebbe ridursi a una interpretazione, a un apprezzamento o a un giudizio positivo sull’esistenza passata; essa deve implicare anche il sentimento evidente di una omogeneità esistenziale tra il presente che si sta vivendo e il passato già vissuto. Questo significa che la felicità, come senso dello svolgimento temporale di un’esistenza (avvertita come soddisfacente, significativa e libera), è costituita da un materiale concreto che deve essere attualmente vissuto come pienezza e significato, e attualmente riconosciuto come già vissuto nel passato del soggetto e nella sua continuità temporale. Questo indispensabile materiale attuale e vissuto di una felicità pensata come già vissuta e  come ancora da vivere è la gioia. Allora, il desiderio, che è la sostanza dell’individuo, deve diventare gioia, cioè desiderio appagato, per diventare il materiale, l’elemento della felicità. (p. 101)

Dopotutto, bisogna fare fatica, per arrivare da qualche parte, e maggiore è la fatica, maggiore è la soddisfazione. E per quanto “difficile” e “austero” siano aggettivi che non è intuitivo associare alla felicità, a ben pensarci non sono necessariamente così distanti.

Questo pensiero riflessivo, che procura la gioia dell’autonomia mediante la ricerca stessa sull’autonomia e sulla gioia, può apparire a prima vista come difficile e austero. Questa difficoltà è il prezzo della gioia forte e intensa che essa permette di raggiungere; e si attenua nella misura del progredire della coscienza sul cammino del proprio itinerario, dal momento che la crescita della proipria gioia intellettuale porta con sé una crescita della propria comprensione. La filosofia è un coronamento. La gioia di fondare la propria vita mediante la comprensione di sé e la conoscenza può iniziare a esprimersi a contatto con ciò che è convenuto chiamare la cultura. La cultura romanzesca, poetica o storica può conferire al soggetto che ricerca il senso e la pienezza questa gioia che viene dalla padronanza progressiva della nostra esistenza e dall’accesso progressivo alla ricchezza e alla bellezza del mondo.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – La vita composita (dalle Memorie di Adriano, M. Yourcenar)

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Di questo meraviglioso libro avevo già parlato qui, ma oggi ho trovato questo nelle bozze. È il momento di pubblicarlo!

Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe. […]
Si direbbe che il quadro dei miei giorni come le regioni di montagna, si componga di materiali diversi agglomerati alla rinfusa. Vi ravviso la mia natura, già di per se stessa composita, formata in parti eguali di cultura e d’istinto. Affiorano qua e là i graniti dell’inevitabile; dappertutto, le frane del caso. Mi studio di ripercorrere la mia esistenza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire d’un corso d’acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria. Di tanto in tanto, credo di riconoscere la fatalità in un incontro, in un presagio, in un determinato susseguirsi di avvenimenti, ma vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo, troppe cifre che a sommarle non danno alcun totale. In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono come quelle di un’immagine che si riflette nell’acqua. lo non sono di quelli che dicono che le loro azioni non gli assomigliano: bisogna bene che le mie mi assomiglino, dato che esse costituiscono la sola misura dell’esser mio, il solo mezzo di cui dispongo per affidare me stesso alla memoria degli uomini, e persino alla mia; dato che forse l’impossibilità di continuare a esprimersi e a modificarsi con nuove azioni costituisce la sola differenza tra l’esser morti e l’esser vivi. Pure, tra me e queste azioni che mi configurano si apre uno jato indefinibile, e la prova ne è che sento senza posa il bisogno di soppesarle, di spiegarmele, di rendermene conto. […]
D’altronde, i tre quarti della mia vita sfuggono a una definizione fornita dalle azioni: il complesso delle mie velleità, dei miei desideri, persino dei miei progetti resta vago ed evanescente quanto un fantasma. Il resto, la parte tangibile, più o meno autenticata dai fatti, si distingue poco più nettamente, e gli avvenimenti si susseguono nel modo confuso dei sogni. […]  Talora la mia vita mi appare banale al punto da non meritare non dico di scriverla, ma neppure di ripensarvi a lungo, e non è affatto più importante, neppure ai miei occhi, di quella del primo che capita. Talora mi sembra unica, e perciò appunto senza valore; inutile, perché è impossibile adeguarla all’esperienza comune. Nulla vale a spiegarmela: i miei vizi, le mie virtù, sono assolutamente insufficienti; vi riesce di più la mia gioia; ma a intervalli, senza continuità, e soprattutto senza un serio motivo. Ma ripugna allo spirito umano accettare la propria esistenza dalle mani della sorte, esser null’altro che il prodotto caduco di circostanze alle quali nessun dio presieda, soprattutto non egli stesso. Una parte di ogni vita umana, persino di quelle che non meritano attenzione, trascorre nella ricerca delle ragioni dell’esistenza, dei punti di partenza, delle origini. La mia incapacità di scoprirle mi fece inclinare a volte verso le interpretazioni magiche, mi indusse a ricercare nei deliri dell’occulto ciò che il senso comune non mi offriva. Quando tutti i calcoli astrusi si dimostrano falsi, quando persino i filosofi non hanno più nulla da dirci, è scusabile volgersi verso il cicaleccio fortuito degli uccelli, o verso il contrappeso remoto degli astri.

(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi)

La lettrice della domenica – Treasure Island

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Dopo aver letto La vera storia del pirata Long John Silver, che come molti sanno amo immensamente e suggerisco a ogni occasione, ho “dovuto” riprendere la fonte originale, vale a dire il libro da cui nasce il famosissimo pirata, appunto Treasure Island, di Robert Louis Stevenson. Libro letto ai tempi in italiano e in una edizione “riveduta e corretta”, ma comunque apprezzatissimo. E no, grazziaddio quando ero piccola non c’era la distinzione tra libri per “ragazzi” e per “ragazze”, e sembrava non ci sarebbe mai più stata; poi le cose purtroppo sono andate un po’ diversamente, ma questa è un’altra storia. Una storia della quale fa parte per esempio l’aver portato mio figlio a vedere “Frozen” senza che nessuno dei due si domandasse se era “da femmine”, il che spero abbia contribuito all’educazione sentimentale del suddetto.

E sì, lo sto rileggendo e riapprezzando, ancora di più in effetti, in inglese e in versione integrale, con la stessa voglia di far le due di notte con la lucina nascosta sotto le coperte e un entusiasmo più forte del sonno.

La lettrice della domenica – Claudio Magris, L’infinito viaggiare

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Questa è stata per qualche tempo una rubrica saltuaria, perché ero (sono) talmente presa, tra lavoro, libro, famiglia e sogni vari che leggere è diventato difficile, però spero di farla ridiventare davvero settimanale perché la passione per la lettura non si è attenuata, anzi.

Ho finalmente ripreso, sia pure a rilento, e non avrei potuto farlo meglio di così: il libro che sto leggendo in questo momento è stupendo! Già dalla prefazione che, dice l’autore:

si addice a una raccolta di pagine di viaggio, perché il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo.

La prefazione è una specie di valigia, un nécessaire, e quest’ultimo fa parte del viaggio; alla partenza, quando ci si mette dentro le poche cose prevedibilmente indispensabili, dimenticando sempre qualcosa d’essenziale; durante il cammino, quando si raccoglie ciò che si vuole portare a casa; al ritorno, quando si apre il bagaglio e non si trovano le cose che erano sembrate più importanti, mentre saltano fuori oggetti che non ci si ricorda di aver messo dentro. Così accade con la scrittura; qualcosa che, mentre si viaggiava e si viveva, pareva fondamentale è svanito, sulla carta ora non c’è più, mentre prende imperiosamente forma e si impone come essenziale qualcosa che nella vita – nel viaggio della vita – avevamo appena notato.

Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso nel mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo.

[…]

Viaggiare ha dunque a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire e Gadda, ma è anche un differire la morte; rimandare il più possibile l’arrivo, l’incontro con l’essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio. Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.

(Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Oscar Mondadori)

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – Mi sono perso a Genova

Lo sapevo che questo era un libro bellissimo. Lo sapevo che l’avrei amato dalla prima all’ultima riga. Lo sapevo perché avevo letto altri due libri di Maggiani e so che scrive alla maniera che piace a me, una prosa che è fatta di emozioni che scorrono, ogni parola curata con amore, studiata con passione per condividere parti di sé profonde e importanti e farlo con quella naturalezza che è resa possibile solo da lunga pratica e lunghe ore trascorse a occuparsi della scrittura con la pazienza di un amanuense.

Lo sapevo, e infatti l’ho acchiappato subito in libreria, anzi, ho lasciato che mi acchiappasse. E poi però l’ho riposto lì, in uno dei ripiani alti dello scaffale dove tengo la letteratura italiana, non perché la voglia irraggiungibile, ci arrivo facilmente se voglio, basta una semplice scala e con quell’aggeggio ho una certa dimestichezza. Là ci sono libri ancora da leggere me anche molti che ho letto e riletto e che rileggo ancora. Insomma, sapete come si dice, per ogni libro deve arrivare il tempo giusto. Non è detto che dopo essersi lasciati prendere al momento dell’acquisto, poi arrivi immediatamente il momento della lettura. Possono passare giorni, mesi, o come in questo caso, persino anni. Può capitare che ti torni in testa proprio quel volume e sia come un colpo di fulmine a scoppio ritardato, l’improvvisa ri-esplosione di un amore, oppure a un certo punto cominci a vagare per i ripiani, senza meta, in maniera un po’ svagata e poi… taac! Eccolo, è lui! Era quello che in realtà stavo cercando senza saperlo.

Così mi è successo con questo libro, il libro giusto per il mio spirito in questo momento, riposare la mente con la bellezza, ritrovare il piacere di leggere un libro che non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un saggio né una biografia. Una guida. Sì, ma naturalmente una guida molto particolare. Guida scritta girovagando per ritrovare nella città reale anche (ma non solo) quella sognata, ricordata e ricostruita giorno per giorno attraverso i sentieri che si percorrono via via, dove la nostalgia non diventa mai rimpianto per una inesistente epoca d’oro, ma mescolanza di ricordi e presente, il passato rivissuto attraverso il nuovo, perché il nuovo non cancella, modifica, aggiunge ma è accolto dall’antico e lo accoglie in una convivenza forse difficile ma certamente possibile e anche, direi, fertile.

Con Genova ho un legame particolare, non è un segreto. Ci vivo, ci sono nata, ma non è solo questo. Anzi, non è questo per nulla. Sono convinta che in un certo senso si nasca in un luogo per caso. Ci sono molti luoghi dove mi sarei fermata e che avrei potuto chiamare casa. Luoghi dove mi fermerei anche adesso, e ancora, ne sono certa, li chiamerei casa. Ma Genova mi sorprende sempre, quando la guardo con i miei occhi e ancora più, certo, quando la guardo con occhi di altri.

Ai margini dei miei sogni so che esistono vaste distese indecifrabili, indistinte nella penombra, e nutro seri dubbi  che io possa riempire quelle plaghe nel non molto tempo che mi resta ancora per sognare. Finirò prima io della mia città, e questo è ciò che deve essere: come ho potuto constatare nei molti giorni e anni di veglia che ho abitato nella città, Genova è più grande di tutto quello che potrò mai vedere di li, oltre che di tutti i sogni che io abbia potuto sognare. […]

/

E anche se ero un bambino lercio e svagato, capivo, ero parte, possedevo ciò che dalle zappe di quelle donne contorte di artrite, gobbe sui solchi, sgorgava come un gesto matematico divino. Così vedevo quanta bellezza c’era nel filare di vigna di vermentino posto al confine degli orti per addolcire l’orizzonte. Nell’arco morbido della potatura che mio nonno eseguiva dopo il tramonto con gli occhi lacrimosi di cataratta. E vedevo tutto il resto che era fatto per gratuita e necessaria bellezza. Perché ci fossero un ordine e una grazia nel lavoro, in quella vita senza giustizia.

E di questo ho imparato ad aver fame, e questo cerco. Dappertutto. Per consolazione lungo la strada, per riposare quando mi fermo. Per stabilire dove sarà la mia casa, per non perdermi quando ne esco e quando intendo tornare.

O per perdermi invece, ma di quella meravigliosa perdizione che è la vertigine dell’appartenere. Quando i tuoi occhi incontrano la bellezza e smettono di guardarla e cominciano a sorbirla. Quando è il tuo corpo che sente la bellezza. E tu sei abitatore della meraviglia, e la meraviglia ti abita. Fosse anche solo il triplo tornante della crosa della Madonnetta. L’elica di pietra serena e mattone e porfido che trasfigura la salita in Ascensione. E il suo movimento perfetto ti spinge tutto quanto sei verso il cielo; il cielo è indaco di tramontana. E il bordo della crosa è fiorito di camomilla selvatica, e l’ombra sul muro a secco è merlettata dalle fronde di edera. Odora l’edera, la camomilla, la pietra serena e persino il cielo. In un giardino oltre il muro delle edere un merlo chiama, risponde il soffio di un balzo. Uno spirito scompiglia i rami alti di un ulivo, le foglie rovesciano l’argento sull’indaco. E tutto questo ti porta in un altrove, dall’altra parte della fatica, sull’orlo arrotondato della coscienza. Tutta la tua stanchezza di uomo che ha valicato molti confini e arrancato su molte salite e smottato su molte discese per essere lì in quel momento, è presa in possesso dagli esserini dell’universo invisibile che senti salire su dai piedi fino ai capelli. Uno per uno, piedi e capelli. Intrisi di un vino spillato a da un niente che ti dà il capogiro. E ti commuovi perché gli esserini ti sono entrati fin nelle budella e lì hanno depositato particelle di bellezza. Che senti tra le mani e te la spalmi sugli occhi, ti ci frizioni le orecchie. Vedi intorno fino all’orizzonte di San Benigno e oltre, fino alla diga, e oltre ancora, fino alla striscia di Pra’, e forse fino al Monviso, l’ordine perfetto del creato nelle mani buone degli uomini. Tu ne sei una parte né più né meno dei ciottoli sulla corsa, delle edere, delle ombre cremisi sulla malta rosata tra le pietre della spalletta. Sei un rumore silenzioso. resteresti lì in eterno, perché lì ora hai eletto la tua casa, eretto il tuo rtparo.

/

Che Genova non è mai una cosa sola. Ma sempre due cose assieme, o tre, o quattro. Sempre, in ogni suo luogo, circostanza e anima.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 13 – D’amore e ombra e Il piano infinito

Oggi i miei auguri di Pasqua li faccio con questo piccolo post su due romanzi di Isabel Allende, che all’epoca avevo molto apprezzato. Formato ridotto, ma mi perdonerete, ché io celebro a modo mio. Ho riflettuto ancora sui desideri e le strade, ascoltato Bach, fatto una minuscola particina delle pulizie di primavera e soprattutto, ho prenotato il viaggio dei miei sogni. Anche attraverso queste cose passa la ri-nascita 🙂

D’Amore e Ombra             Ricordo che mi era piaciuto molto quando l’avevo letto, ma è passato diverso tempo. Fa parte di quei libri che vorrei prima o poi rileggere, ma ce ne sono tanti nuovi da scoprire… Comunque lo tengo lì. In attesa. Non si sa mai…

Incipit: “Il primo giorno di sole fece evaporare l’umidità accumulata sulla terra dai mesi invernali e riscaldò le fragili ossa degli anziani, cui fu possibile passeggiare lungo i sentieri ortopedici dei giardini. Solo il melanconico se ne rimase a letto, perché era inutile portarlo all’aria aperta se i suoi occhi vedevano solo i propri incubi e le sue orecchie erano sorde al richiamo degli uccelli…

Il Piano Infinito    Anche questo non ricordo neanche più quando l’ho letto, ma so che Isabel Allende mi piace. Forse lo rileggerò, un giorno.

Incipit: “Andavano per le vie dell’ovest senza fretta e senza meta precisa, mutando rotta secondo il capriccio di un istante, al segnale premonitore di uno stormo d’uccelli, alla tentazione di un nome ignoto. I Reeves interrompevano il loro erratico peregrinare ove li cogliesse la stanchezza o incontrassero qualcuno disposto ad acquistare la loro impalpabile mercanzia. Vendevano speranza. Così percorsero il deserto nell’una e nell’altra direzione, valicarono le montagne e una mattina videro apparire il giorno su una spiaggia del Pacifico…

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 11 – What am I Doing Here

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Bruce Chatwin, What Am I Doing Here, Ed. Picador (Che ci faccio qui nella versione italiana di Adelphi, traduzione di Dario Mazzone)

Quando rimasi a vivere a Londra per qualche mese, molti anni fa, una delle prime cose che feci fu di iscrivermi alla biblioteca di quartiere, e ancora adesso penso che le biblioteche di quartiere londinesi, insieme ai parchi (di quartiere e non) siano una delle meraviglie della città. Cercai quindi subito un libro da poter leggere, ancora non ero proprio tanto abituata ai libri in lingua originale e sinceramente non avevo la più pallida idea di cosa prendere. Girando a caso tra gli scaffali, gli occhi mi caddero su un nome, Bruce Chatwin. Ricordai che ne avevo sentito parlare in Italia, di questo autore. Per curiosità presi il libro. Voi sapete com’è, no, ci si avvicina a qualcosa quasi con circospezione, un po’ di scetticismo, persino. Coi libri si comincia dall’immagine di copertina, uhm, sì, può andare. Poi si dà un’occhiata alla quarta di copertina.La curiosità aumenta ancora. Si comincia a leggere le prime righe e ci si trova d’improvviso trascinati, ammaliati, non per il desiderio di sapere come va a finire, ché questi sono racconti, o neanche tanto racconti, quanto piuttosto appunti di vite viaggi e caratteri e aneddoti e cose varie. Ma per il fascino, la bellezza, la pura gioia che dà continuare a leggere. E’ stato così per me questo libro, allora, e i libri di Chatwin, molti, compresa una sua biografia (che però non mi era piaciuta) sono stati i primi acquisti di libri in inglese fatti all’epoca in Inghilterra. Li ho amati moltissimo.

E anche quando ho smesso di leggere tutto quello che mi capitava a tiro, ho continuato a considerare In Patagonia come uno dei libri contemporanei più belli in assoluto. E questo, anche. E’ una raccolta uscita postuma e quindi solo in parte organizzata da Chatwin stesso, ma merita. Tornando alla quarta di copertina, appunto, un estratto della recensione  di J. Keats, (The Independent) diceva.”Abbiamo perduto uno dei pochi scrittori moderni in grado di trasmettere il significato della gioia“. E se un possibile significato di gioia, o un possibile modo di provarla, comunque, è quello di fare qualcosa di bello, allora ogni tanto un libro di Chatwin è bene leggerlo (o rileggerlo). Ha quella favolosa capacità di evocare vite intere in poche righe, di creare atmosfere con quella scrittura asciutta eppure per me estremamente emozionante. E poi uno definito come un avventuriero romantico, uno che dichiarava che tutta la sua vita “era stata una continua ricerca del miracoloso” e di cui si diceva che “Pochi scrittori sono stati più qualificati per cercarlo, o più capaci di distinguere il fasullo dall’autentico” (dalla prefazione, un breve estratto di Sean French, dal New Statesman & Society), beh, poteva forse non piacermi?

Dalla sezione Encounters (Incontri), un brevissimo estratto su André Malraux:

The career of André Malraux has startled, entertained and sometimes alarmed the French. An archaeologist, writer of revolutionary novels, compulsive traveller and talker, war hero, philosopher of art and Gaullist minister, he is their only living first-class adventurer. At 73 he is a national institution, but an institution of a most unpredictable kind.

La carriera di André Malraux ha sbalordito, appassionato e qualche volta allarmato i Francesi. Come archeologo, autore di romanzi rivoluzionari, frenetico viaggiatore e conversatore, eroe di guerra, filosofo dell’arte e ministro gollista, è il loro unico avventuriero di prim’ordine che sia rimasto sulla scena. E’, a settantatré anni, un’istituzione nazionale, ma un’istituzione assolutamente imprevedibile.

Da tutto il racconto esce la figura di un uomo controverso, a suo modo straordinario, descritto con i suoi tic, i gesti, il modo di vestire. le idee, i pensieri, il modo di parlare. potrebbe essere il protagonista di un bellissimo romanzo. E’ invece il protagonista estremamente vivo e reale di una bellissima cronaca dell’incontro tra due scrittori, due viaggiatori, due grandi uomini, due figure anomale ed estremamente anticonformiste di intellettuali.