Sto leggendo…

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Libro amaro, rabbioso, ribelle, commovente, umano, sarcastico. Dalle radici ebreo-ortodosse a una vera e propria battaglia con Dio, conflitto-riavvicinamento-messa in discussione costante che ha molti elementi in comune con il rapporto padre-figlio, o forse più ancora il rapporto di un uomo adulto con il sé stesso padre e il sé stesso bambino represso e oppresso. Dietro ogni ironia, ogni battuta c’è un senso di profonda ingiustizia che colpisce allo stomaco, la consapevolezza del rischio di perdersi, ma anche la consapevolezza della possibilità di trovarsi, anche usando la stessa rabbia in modo diverso, in mezzo a un labirinto di esperienze, immaginarie e reali, di letture e scritture, di incontri e di scontri che conducono a superare in qualche modo quel senso di ingiustizia, sapendo che ha lasciato segni ma anche che si può sempre andare oltre.

Cominciavo a sentirmi anch’io un po’ come un prepuzio. […] Reciso dal mio passato, incerto sul mio futuro, insanguinato, pestato, buttato via. Mi chiesi se esistesse un posto dove i prepuzi possono andare, un posto in cui possono vivere insieme in pace, amati, voluti, una nazione di prepuzi, fatta dai prepuzi, per i prepuzi. (Shalom Auslander, il lamento del prepuzio, Guanda).

Melville & Hawthorne – Valentine’s Day post

Frammenti da alcune appassionate lettere di Melville a N. Hawthorne. Per chi trova eccessivi e troppo idealizzati i miei sentimenti nei confronti di chi sapete.

I due si conobbero a un incontro letterario, e furono entrambi intellettualmente folgorati. Per Melville, però, la folgorazione non rimase a lungo puramente “intellettuale”.

Ho scoperto da tempo che la sintonia letteraria o artistica ha una fortissima carica erotica,  a volte davvero carnale, e chi non ha mai provato questo tipo di infatuazione, o meglio incantamento, tanto dei sensi quanto del cervello, secondo me si è perso qualcosa di prezioso e molto bello.

Melville aveva trentun anni quando nacque questo amore quasi del tutto unilaterale, e a quanto pare lo conservò nel cuore per i successivi quaranta della sua vita.

Quando Moby Dick incontrò alcune recensioni sfavorevoli, Hawthorne intervenne lamentando l’ottusità dei critici ed elogiando il romanzo. Melville rispose così:

Your heart beat in my ribs and mine in yours, and both in God’s… It is a strange feeling — no hopefulness is in it, no despair. Content — that is it; and irresponsibility; but without licentious inclination. I speak now of my profoundest sense of being, not of an incidental feeling. Whence come you, Hawthorne? By what right do you drink from my flagon of life? And when I put it to my lips — lo, they are yours and not mine. I feel that the Godhead is broken up like the bread at the Supper, and that we are the pieces.[Il vostro cuore batte nelle mie costole e il mio nelle vostre, ed entrambi in quelle di Dio. È un sentimento strano – nessuna speranza, né disperazione. Pienezza – di questo si tratta; irresponsabilità, anche, ma senza alcuna inclinazione licenziosa. Sto parlando del senso più profondo del mio essere, non di un sentimento casuale. Da dove siete venuto, Hawthorne? Con quale diritto bevete dal calice della mia vita? E quando io lo porto alle labbra – vedete, sono le vostre, e non le mie. La testa di Dio si è spezzata come il pane dell’Ultima Cena, così mi pare, e noi siamo i pezzi].

A ragione, Melville temeva che simili esternazioni potessero allontanare Hawthorne, di temperamento più freddo, e tuttavia non si contenne:

My dear Hawthorne, the atmospheric skepticisms steal into me now, and make me doubtful of my sanity in writing you thus. But, believe me, I am not mad, most noble Festus! But truth is ever incoherent, and when the big hearts strike together, the concussion is a little stunning. [Mio caro Hawthorne, il diffuso scetticismo si insinua adesso in me, e mi fa dubitare della mia sanità mentale, per ciò che vi scrivo. Tuttavia, credetemi, non sono pazzo, nobile Festo! Ma la verità è sempre incoerente, e quando i cuori grandi si incontrano, l’impatto può stordire un po’].

E a mo’ di post-scriptum:

I can’t stop yet. If the world was entirely made up of [magicians], I’ll tell you what I should do. I should have a paper-mill established at one end of the house, and so have an endless riband of foolscap rolling in upon my desk; and upon that endless riband I should write a thousand — a million — billion thoughts, all under the form of a letter to you. The divine magnet is in you, and my magnet responds. Which is the biggest? A foolish question — they are One. [Non basta ancora. Se il mondo fosse composto interamente di {maghi}, ecco cosa farei. Mi farei installare una cartiera da un lato della casa, sì che un nastro infinito di fogli mi rotolerebbe costantemente sulla scrivania; e su quel nastro senza fine scriverei mille – un milione – un miliardo di pensieri, tutti in forma di lettera a voi. In voi è il divino magnete, e ad esso il mio magnete risponde. Quale è più forte? Domanda sciocca – essi non sono che Uno].

Nemmeno io (forse) arriverei a esprimermi con cotanto slancio, ma d’altra parte invidio a Melville l’avere almeno conosciuto e frequentato per qualche tempo l’oggetto di questi sentimenti così intensi. Per saperne di più, cliccate sul link, l’articolo si basa su un post da Brainpickings.

La lettrice della domenica – Runaway, di Alice Munro

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Splendida giornata, oggi. Non che abbiamo fatto niente di particolare, anzi, a dire la verità abbiamo lavorato tutto il giorno, ma insieme, abbiamo messo a posto cose che aspettavano da tempo, ci siamo presi cura della casa e di noi e l’uno dell’altro, e quando è così sembra davvero di acchiappare un pezzo di felicità, senza nessun bisogno di grandi cose. Ora farò la mia recensione domenicale e poi mi metterò a scrivere o guardare un bel film anni ’20 o entrambe le cose, e mi creerò ancora un altro angoletto di cose belle.

La recensione per la rubrica di oggi è forse la cosa più impegnativa della giornata. Ho comprato questo libro d’istinto, ho letto i primi quattro racconti (ossia circa la metà) quasi d’un fiato, complice forse anche l’influenza, poi mi sono arenata. C’è qualcosa che mi piace molto, e penso che potrebbe essere l’introspezione, visto che credo di avere in anch’io una scrittura introspettiva. O forse all’opposto, temendo di avere una scrittura “troppo” introspettiva mi aggrappo alle descrizioni più oggettive, ai dialoghi rivelatori, ai dettagli che mostrano più di tante riflessioni raccontate.

Qualcosa però mi respinge. Forse l’introspezione, forse le descrizioni oggettive, forse qualcosa di un po’ asettico, forse “il dolore e la desolazione sotto la superficie” (dalla quarta di copertina), uniti a quella forma “portata all’estrema perfezione, e senza alcun tentennamento”, che invidio ma che mi impediscono in qualche modo di sentire quell’empatia, che pure si dice che la scrittura della Munro possieda.

I racconti certamente riguardano le vite di persone comuni, avvenimenti cardine in vite ordinarie, ma anche questi avvenimenti sono spesso (anche se non sempre) di per sé ordinari, cambiano una vita a seconda del contesto e del carattere di coloro a cui capitano. Al tempo stesso, però, personalmente non riesco a rispecchiarmici, mi paiono storie di vite perdute in una specie di fango grigiastro, di nebbia di inutilità, che forse ottiene il miracolo di raccontarci esattamente cosa significa essere umani, come dice il Times, ma io tutto sommato spero di no.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo (Il ladro di fulmini)

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Per motivi di forza maggiore (la connessione del cellulare a Internet non funziona da diversi giorni, spero di riuscire a risolvere il problema domani), non sono riuscita né a postare articoli né a leggere, a parte il post di venerdì che era “programmato”.

In compenso, in questi quattro giorni sono riuscita a iniziare e finire un libro (non mi capitava da un po’ di metterci così poco!). Intendo quello del titolo, naturalmente. Lo avevo comprato per i figli tempo fa, ne abbiamo parlato di recente tra blogger e mi è venuta voglia di darci un’occhiata. In effetti, una volta iniziato “prende” e sicuramente ti spinge ad andare avanti per sapere cosa succede e come va a finire. C’è una discreta ironia (mi piacerebbe leggere i “capitoli” successivi in inglese) e penso che i ragazzi si possano divertire parecchio. L’autore è stato insegnante (anche se oggi scrive a tempo pieno) e direi che si vede abbastanza, non solo nel modo in cui dipinge il mondo della scuola, ma anche da come presenta la mitologia.

Percy, tra l’altro, è dislessico e iperattivo. Questo è in qualche modo visto come indizio di altre sue capacità e risorse (non so quanto alcune di queste siano credibili, ad esempio la maggiore facilità con cui legge l’alfabeto greco rispetto al “nostro”, ma dovrei documentarmi per concludere in un senso o nell’altro). Si capisce subito che il suo anno scolastico non andrà nel modo solito quando la sua professoressa di matematica si trasforma in una Furia e tenta di ucciderlo. Scena nient’affatto inverosimile, come sa chi abbia esperienza di professoresse di matematica e di ragazzini delle medie (anche solo per essere stato uno di loro, un tempo). Ma quando il professore di latino, il signor Brunner, gli fornisce una penna che si trasforma in spada togliendole il cappuccio, e il suo migliore amico si rivela un satiro, Percy non può più far finta di niente. Qualcosa di strano sta succedendo e lui dovrà capire chi è, cosa si vuole da lui e chi sono i suoi amici e i suoi nemici. Certo, quando Brunner gli aveva detto che la mitologia gli sarebbe servita anche nella vita di tutti i giorno, Percy non aveva immaginato di trovarsi davvero ad avere a che fare con gli dei greci in persona (se così si può dire), trasferitisi in massa su un un nuovo Monte Olimpo ricreato ad hoc a New York…

Mi dispiace per questa pausa, tra stasera e domani mattina al massimo posterò comunque l’articolo dedicato ai blog che seguo, rubrica a cui mi pare siate affezionati… 🙂

Ne approfitto però anche per dire che in estate sicuramente pubblicherò in modo un po’ più irregolare, per quanto possibile cercherò di non interrompere del tutto le rubriche ma credo ci sarà qualche cambiamento a partire da metà giugno più o meno. Vi terrò comunque aggiornati! A prestissimo 🙂

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 10 – Huckleberry Finn

 

Huckleberry Finn

Che meraviglia i libri di Mark Twain! Avevo letto Tom Sawyer all’età giusta, per così dire, e debitamente sognato una vita sul fiume tra briganti e caverne. Ma Huck Finn! L’uomo che ha scritto questo libro doveva essere un genio, però anche simpatico, che non è una cosa così comune.
L’ideale sarebbe leggerlo in inglese, perché lui passa con la massima disinvoltura dalle dotte citazioni (magari con qualche strafalcione) delle signore per bene al linguaggio di un ragazzino di una decina, forse una dozzina d’anni con qualche (svogliato) studio alle spalle, al dialetto di uno schiavo nero del sud, del tutto illetterato ma intelligente e di grande umanità.
Comunque azzardo qui un pezzetto, tanto per gradire, preso dall’inizio, quando Huck è appena tornato, di malavoglia, dalla vedova Douglas che vorrebbe “adottarlo” e farne un ragazzino come si deve.

Dopo la cena lei ha tirato fuori il suo libro e ha cominciato a dirmi di Mosè e delle Paludi e io ci tenevo un sacco a scoprire tutto di lui; solo che poi poco a poco si è lasciata scappare che questo Mosè era morto da un bel pezzetto; e così non me ne è fregato più niente perché a me dei morti non mi interessa proprio.
Dopo un po’ mi è venuta voglia di fumare e ho chiesto alla vedova se mi lasciava. Lei però non ha voluto. Ha detto che era una cattiva abitudine e che dovevo cercare di smettere. E’ sempre così con certa gente, criticano le cose senza che saper niente. Cioè, questa prima era tutta agitata per questo Mosè che non era suo parente e non serviva a nessuno, visto che era stecchito, capite, e poi mi fa una capa tanta perché ho fatto una cosa che mi piaceva. Che poi lei ha aspirato del tabacco, anche; questo naturalmente andava benissimo, visto che era lei a farlo.
Sua sorella, la signorina Watson, un’anziana zitella magra magra e con gli occhiali è appena venuta a vivere con lei e mi ha preso di mira con un libro di ortografia[…]
La signorina Watson continuava a dire “Non mettere i piedi là sopra, Huckleberry”; e “Non stravaccarti così, Huckleberry – stai seduto diritto”; e subito dopo: “Non sbadigliare e non stirarti in quel modo, Huckleberry – ma non riesci proprio a comportarti come si deve?” Poi mi ha raccontato tutto su un certo brutto posto e io ho detto che avrei voluto andarci. Allora è diventata matta, ma non è che io volevo dire niente di male. Tutto quello che volevo era andare da qualche parte, cambiare aria, non sono schizzinoso. Lei disse che ero cattivo ad aver detto così, che lei non l’avrebbe detto per tutto l’oro del mondo; che “lei” intendeva vivere in modo tale da poter andare nel posto bello. A dir la verità non vedevo il vantaggio di andare dove andava lei e così ho deciso che non mi sarei sforzato per questo. Però non l’ho detto, per non avere guai e comunque tanto non serviva a niente.

Qui il testo originale:

“After supper she got out her book and learned me about Moses and the Bulrushers, and I was in a sweat to find out all about him; but by and by she let it out that Moses had been dead a considerable long time; so then I didn’t care no more about him, because I don’t take no stock in dead people.

Pretty soon I wanted to smoke, and asked the widow to let me. But she wouldn’t. She said it was a mean practice and wasn’t clean, and I must try not to do it any more. This is just the way with some people. They det down on a thing when they don’t know  nothing about it. Here she was a-bothering about Moses, which was no kin to her, and no use to anybody, being gone, you see, yet finding a power of fault with me for doing a thing that had some good in it. Ans she took snuff, too; of course that was all right, because she done it herself.

Her sister, Miss Watson, a tolerable slim old maid, with goggles on, had just come to live with her, and took a set at me now with a spelling-book. […] Miss Watson would say “Don’t put your feet up there, Huckleberry”; and “Don’t scrunch up like that, Huckleberry – set up straight”; and pretty soon she would say, “don’t gap and stretch like that, Huckleberry – why don’t you try to behave?” Then she told me all about the bad place, and I said I wished I was there. She got mad then, but I didn’t mean no harm. All I wanted was to go somewheres; all I wanted was a change, I warn’t particular. She said it was wicked to say what I said; said she wouldn’t say it for the whole world; she was going to live so as to go to the good place. Well, I couldn’t see no advantage in going where she was going, so I made up my mind I wouldn’t try for it. But I never said so, because it would only make trouble, and wouldn’t do no good“.