

Il mio affetto per Calvino risale a tempi quasi preistorici, “Il barone rampante” è uno dei primi romanzi che ricordi di aver letto. Eppure ancora ho alcune lacune per quanto riguarda la sua produzione letteraria, e questa era una di quelle fino a pochissimi giorni fa. Finalmente, uno dei miei viaggi (ultimamente per fortuna frequenti) mi ha permesso di colmarla, e non sono stata per nulla delusa, anzi. Non è un’opera facilmente definibile, e già questa per me è una qualità: non è un romanzo, non è un saggio, non è neppure, propriamente, una serie di racconti, né un diario o una raccolta di impressioni. È un po’ tutto questo, e altro ancora. È la descrizione delle città, di qualunque città, e del nostro modo di viverle e di osservarle. Ognuna delle città immaginarie descrive, di fatto, uno o più aspetti che certamente si possono cogliere nei luoghi che abitiamo, trasfigurato però, dal fatto stesso di essere descritto in modo così “letterario”. Le torri, i bastioni, le ringhiere, le strade, le finestre sono tanto oggetti materiali, riconoscibili dal lettore in quanto parte anche del suo mondo, quanto elementi del sogno, della memoria e del desiderio. Città continue, città capovolte, città che contengono il contrario di sé stesse, città che hanno un rapporto particolare con il cielo, con il mondo sotterraneo e con i morti, ciascuna in un modo che le è proprio, eppure così vicino al nostro: Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
Il rapporto tra realtà e letteratura mi pare uno dei temi centrali di questo libro (come di molti altri di Calvino), tanto quanto il rapporto tra il viaggiatore e i luoghi. A parlare delle città è infatti Marco Polo, che dialoga con Kublai Khan, ma non è necessariamente lo stesso Marco Polo della storia, è una sorta di fantasma, di pretesto, e di nuovo il rapporto tra immaginario e reale cambia continuamente e diventa chiave di interpretazione:
KUBLAI: Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO: Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.
KUBLAI: Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano una fortezza assediata.
POLO: Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.
KUBLAI: Forse questo dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Khan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.
POLO: Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Khan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.
(Italo Calvino, Le città invisibili, I edizione Oscar Moderni 2016)