Il mio lato pop: Supernatural

Era da un po’ che volevo scrivere di Supernatural, una serie TV che ho iniziato a guardare poco più di un mese fa, in origine perché piaceva – e piace – moltissimo a mio figlio minore. Non sono mai stata una fan del genere horror, anzi, normalmente lo detesto. Eppure, mi ha catturata quasi dall’inizio. Non è stato propriamente amore a prima vista, ma dopo i primi tre o quattro episodi ero a tutti gli effetti stregata (termine appropriato, visto l’argomento). Di certo, le persone coinvolte (attori, sceneggiatori, registi e tutti gli altri) non si prendono mai troppo sul serio, le situazioni e i dialoghi sono spesso comicamente sopra le righe, se non del tutto folli, e nonostante questo io mi ritrovo costantemente senza fiato per la suspense. Insomma, sono davvero bravi.

Naturalmente, sono innamorata di Jared Padalecki e del suo personaggio Sam Winchester, e chi non lo sarebbe? E’ un uomo di rara forza morale, dolce, coraggioso, gentile, attento, un accanito lettore (un nerd, potremmo definirlo, trasuda letteralmente curiosità intellettuale), un po’ narciso ma tendenzialmente altruista e – non ci sarebbe bisogno di dirlo – incredibilmente bello. Soprattutto, è uno che considera tutte le ragioni del caso, senza scagliarsi a spada tratta, o piuttosto precipitarsi ad armi spianate, qualunque cosa succeda e senza curarsi delle conseguenze. Fa degli errori, ci mancherebbe, anche madornali; e nel tempo, è morto e andato all’inferno (letteralmente, intendo) un mucchio di volte, nel tentativo di sistemare le cose e aiutare gli altri. Da lì, è stato sempre salvato dal fratello maggiore ho-il-mondo-tutto-sulle-mie-spalle Dean, bravo ragazzo e tutto, protettivo e generoso, ma un po’ troppo tirannico con suo fratello, convinto di avere sempre ragione, costantemente arrabbiato, macho-ma-sensibile, sciupafemmine e incapace di restare da solo. Succede anche il contrario, vale a dire, Sam ha salvato il posteriore di Dean un gran numero di volte, ma senza vantarsi della cosa fino a rendersi insopportabile.

Comunque, il personaggio a cui mi sono affezionata di più, nel corso delle otto o nove stagioni in cui è apparso, è Crowley, il re dell’Inferno (Mark Sheppard).  Se Lucifero è l’Antagonista con la A maiuscola, Crowley è sempre un po’ di qua e un po’ di là, e questo mi piace, essendo io sempre molto favorevole alle vie di mezzo e alle zone grigie. Credo sia la sua totale mancanza di interesse verso la bontà e il senso morale, unita al meraviglioso humour britannico, a una buona dose di ironia e all’evidente (sebbene sempre ostinatamente negato) affetto per i Winchester a renderlo adorabile. Mi è piaciuto un sacco un episodio in cui a un certo punto lui tira fuori il cellulare mentre qualcuno sta chiamando, e si capisce che i numeri della rubrica sono divisi tra “Moose” (letteralmente Alce, tradotto in italiano un po’ debolmente come “Testone“, vale a dire Sam) e “Not Moose” (non testone, in pratica quasi solo Dean, alias squirrel, lo Scoiattolo, in italiano Testacalda). Si tratta forse della prima volta in cui Crowley rivela i suoi veri sentimenti nei confronti dei “ragazzi”. La sua malvagità beffarda (a volte, specie nei primi episodi, quasi sprezzante) e quei curiosi rapporti di amicizia/odio tra lui, sua madre Rowena, l’angelo Castiel, Lucifero e i ragazzi sono tra gli aspetti più gustosi e in generale tra le cose migliori della serie. SPOILER ALERT A quanto pare, non sarà presente nelle ultime due stagioni (ancora non arrivate in Italia, l’ultima dovrebbe essere ancora in corso di lavorazione). Spero che chi ha deciso di eliminare il personaggio definitivamente cambi idea: sarebbe davvero un peccato.

Poi c’è il Castiel di Misha Collins, angelo e Dio, senzatetto disperato e guerriero, idiota dalle buone intenzioni e leader straordinariamente capace, affettuoso protettore dell’umanità e killer glaciale, passa da una personalità all’altra fino a sperimentare, in pratica, tutte quelle possibili, sempre apparentemente imperturbabile, capace di dire le cose più surreali senza fare una piega, eppure sempre esprimendo moltissimo con un indefinibile linguaggio non verbale che rivela più di qualunque parolao espressione facciale.

E che dire della deliziosamente orrida, incantevolmente odiosa Rowena (Ruth Connell)? Che dire di Meg, Ruby, Sarah, Eileen, Hannah, Jody, e tutte quelle donne-demone, donne-donne, donne-angelo, cacciatrici e streghe, dalla volontà d’acciaio, estremamente sicure di sé o piene di dubbi e insicurezze (e talvolta entrambe le cose), piene d’amore e umanità o esecrabili (anche qui, spesso entrambe le cose, nello stesso momento o nel corso del tempo), che hanno amato, odiato, tradito, combattuto e vissuto e sono morte (anche loro, in molti casi, più di una volta) per gli altri o per sé stesse nel corso delle quindici stagioni della serie?

Insomma, cos’è che rende questo programma così speciale, almeno per me? In primo luogo, il fatto che l’horror non è affatto l’aspetto principale. Voglio dire, sono sicura che anche i fan dello splatter possano trovare qui pane per i loro denti. Ma personalmente, quello che mi affascina, specialmente in questo particolare momento, e a parte tutta la follia e lo humour e quella testarda, commovente speranza di cui trabocca, sono le domande che pone; domande universali dell’umanità, onnipresenti e non particolarmente originali, forse: vita, sopravvivenza, libertà e sicurezza, giustizia e vendetta, bene e male, coraggio e incoscienza, senso di responsabilità e senso di colpa, amore, perdita e bisogno – non sano – di qualcuno, scelte terribili fatte “in nome di un bene più grande” e scelte giuste fatte nel proprio interesse. Quali sono i confini? Sento l’esigenza di ridisegnarli, di lavorare su queste idee e ridefinirle in qualche misura, e mi sono ritrovata a far tesoro di questo buon vecchio modo di riflettere grazie a una storia che mi coinvolge, e in cui posso immergermi completamente, anche per tenere la testa tra le nuvole per un po’, che serve sempre.

So che ci sono dei punti deboli (in primo luogo, un po’ tanta propaganda pro-USA e pro-armi, temo), ma l’ho amata e la amo incondizionatamente, punti di forza e punti deboli e tutto quanto e quindi, alla fine dei conti, va benissimo così.

Robin’s Monday – Ridere ed essere liberi

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Stavo improvvisando, i disegnatori sono entrati e si sono messi a ridere e così sono andato avantiIn tempi come questi, con quello che sta succedendo, poter ridere ed essere liberi è una cosa fantastica, è per questo (Robin Williams, intervista per Aladdin, 1992). [Ossia, è per questo che ho registrato molto più materiale di quello che avrebbe mai potuto essere utilizzato per Aladdin. Ma di fatto: questo è il senso del mio lavoro].

In tempi come questi, poter ridere ed essere liberi… è per questo, sì. “Robin Williams, naturalmente, è un genio, uno che realizza desideri, che da parte sua ha l’inesauribile aspirazione di far felici gli altri ed è in grado di fare qualunque cosa. (David Denby). La risata come atto di ribellione, come anima della ricerca di libertà. Non vi è data che una scintilla di follia, conservatene un po’ dentro di voi, non perdetela, è quella che vi tiene in vita; perché nessun governo è in grado di controllarla. Dovete volare al di sopra di ogni cosa… (Robin Williams, da: Reality, What a Concept, 1979).

È per questo. E per molto altro ancora.

Piccolo amore (ma in fondo son parole)

Piccolo amore…

Avevo in mente queste parole, stamattina, sai quando dentro hai dei versi di una canzone, e neanche mi ricordavo, subito, di che canzone si trattasse, ho dovuto pensarci un po’:

E se ci lasceremo / sarà per poco sai, / ci rivedremo…

Ma in fondo son parole / che il giorno che ti ho perso
chissà che cada a pezzi / l’universo
e non farei che dire / e non saprei che fare
di tutti i giorni che ti ho detto amore
di tutti i giorni che ti ho detto amore
di tutti i giorni che ho pensato amore
di tutti i giorni che ho inventato amore
sognato amore
cantato amore
di tutti i giorni che ti ho detto amore
di tutti i giorni che ti ho scritto amore
Piccolo amore non c’è niente al mondo
più grande in fondo
di questo amore…

Poi c’era un’altra cosa che mi ronzava in testa, anzi due, apparentemente del tutto scollegate, sia tra di loro che con questa canzone. I nessi poi però arrivano, o si creano, si inventano, non so. Non sono una vittima, pensavo, e poi sono una che non molla, che non si arrende mai. L’ultima l’ho detta ad alta voce, parlando con altri, e parlavo in effetti pur sempre di amore, anche se di altra natura, perché comunque l’amore, di qualunque natura sia, richiede di non arrendersi, di non mollare (sempre che, ovviamente, ne valga la pena, che serva a noi e a chi amiamo).

Ho capito ancora una cosa, e credo non sarà l’ultima: ricordi che non sapevo mai bene a cosa servisse tutto questo, l’amore, la meraviglia, la memoria, la scintilla di follia, il capovolgimento delle cose. Sapevo che mi serviva, ma non sapevo a cosa, e forse avevo qualche dubbio, ma adesso ho capito che quando parlavo del “mettersi in gioco”, era questo che sentivo: io non mi arrendo mai, e una delle cose che più amo di te è che sei uno che non ha mai mollato, non si è arreso mai, e sai bene cosa intendo. La forza dolce, lo sguardo che dà luce alle cose, quell’umiltà che non si separa mai dalla consapevolezza del proprio valore e che ti permette di ascoltare tanto, e ascoltando arrivare comunque a fare a modo tuo.

Ecco, quando mio figlio mi ha detto “sei una che non si arrende mai”, mi ha commossa, e credo che sia questa la cosa di cui sono più orgogliosa, quella che devo ricordare nei momenti difficili. Perché oggi, quel nesso ha cominciato a venir fuori. Questo lato di me è, in fondo, collegato alle difficoltà che ho superato, alle violenze, alle altrui rabbie e cattiverie subite. Ho dedicato molto tempo a una cosa per cui ne valeva immensamente la pena: non permettere a nessuno di rendermi vittima. Il regalo più grande che mi hai fatto, questo più o meno consapevolmente lo sapevo e lo dico da sempre, è una irriducibile voglia di cercare la libertà; ed è appunto questa che fin da quando ero una ragazzina spaventata in cerca di un appiglio, e magari anche un po’ vittimista, mi ha comunque fatto capire che io vittima, non mi ci volevo sentire, e avrei combattuto per imparare da te a non aver paura di vivere.

Piccolo amore non c’è niente al mondo / più grande in fondo / di questo amore…

La mia misantropia – 2 (breve spiegazione)

orso-png (1)immagine presa da Google

Dicevo ieri che la mia misantropia sta raggiungendo livelli critici (avrei anche potuto dire drammatici). Ho avuto questa illuminazione durante una telefonata (svoltasi in mia presenza ma in cui io non ero nemmeno un’interlocutrice), perché dopo i primi dieci secondi avevo voglia di dire “ok, ha chiesto come stiamo, abbiamo risposto, basta, che altro c’è da dire? Lasciatemi in pace!”.

Da lì, ho cominciato a rimuginare come al solito: ok, capita a tutti di essere insofferenti se si viene interrotti mentre si lavora, si scrive o si svolge comunque un’attività che richiede concentrazione.

Complice una chiacchierata con una delle due, tre persone al massimo con cui riesco a stare al telefono per (parecchio) più di dieci minuti di fila, ho elaborato meglio quella sensazione di fastidio.

Insomma, c’è una parte di me che invidia chi ha spesso persone a pranzo e a cena, vede gli amici in giro, organizza feste. Penso sempre di invitare almeno gli amici e i parenti più stretti, poi non lo faccio mai. Allora mi è venuto da chiedermi: visto che quello che veramente si vuole, si trova sempre il tempo per farlo, forse non voglio così tanto vedere persone (a parte sempre quelle due o tre). Tendo a essere insofferente, a infastidirmi con troppa facilità.

La verità, e del resto è un po’ che lo so, è che sono gelosissima della mia solitudine, probabilmente perché sono gelosissima della mia libertà. Tutti i miei interessi, al di là delle persone che davvero amo, sono interessi solitari.

Mi piace molto incontrare persone, in realtà, ma faccio fatica ad approfondire e tendo comunque a ritrami nel “nido” per gran parte delle mie giornate.

Questo va bene? Sono semplicemente fatta così ed è venuto il momento di accettarlo? Oppure invece, visto che ne parlo e che avverto un disagio, vuol dire che devo dare più retta alla parte “sociale” e meno a quella “orso”? Solo il tempo lo dirà, forse.

Libertà, solitudine e lati segreti

Il buffo è che a vent’anni quasi sicuramente non ti avrei potuto sopportare, se avessi avuto il privilegio di conoscerti personalmente. Parlo dei tuoi vent’anni di casanova sboccato ed esibizionista, alla costante ricerca di attenzione, sia pure “in a very endearing way“; e più ancora dei miei vent’anni, di ragazzina alla disperata ricerca di libertà, ma senza la capacità non dico di conquistarsela, ma neanche di riconoscerla.

Eppure, chissà. Nel gioco che ho fatto recentemente, dei dieci libri della vita, mi sono resa conto che un filo conduttore comune c’è, anche se non ne ero consapevole, ed è proprio questo: voler imparare la libertà. Da Mark Twain a Salgari, da Larsson (Björn) a Calvino, dalla Yourcenar a Fosco Maraini, a Giordano Bruno, a Pippi Calzelunghe, per dire. E fino a concludere, inevitabilmente, con un libro in cui si parli di te. Realizzando che ci sono privilegi che rischiano di costare davvero moltissimo, ma per i quali vale la pena di pagare qualunque prezzo. Qualunque.

Sono stata insofferente, in questi giorni, irrequieta, spesso silenziosa, travolta da parole caotiche che non volevano saperne di riordinarsi in qualsiasi modo. Tanto che mi pareva di avere la mente vuota, e in realtà era colma fino all’orlo. Così ho capito meglio alcune cose che già sapevo, ma non si finisce mai di conoscere qualcuno, anche se quel qualcuno siamo noi stessi. Ho capito, tra l’altro, che più invecchio, meno riesco ad adattarmi; che, ad esempio, non sopporto i villaggi vacanze (anche se per i figli faccio un sacrificio), e avrei voluto, sai, partecipare di più, sapendo che se avessi dimenticato per un momento l’antipatia per le attività organizzate e tutte quelle che richiedono di compiere gli stessi movimenti nello stesso tempo, probabilmente mi sarei anche divertita. Ma non ce l’ho fatta proprio, e questa difficoltà a lasciarmi andare mi pesa ancora, benché abbia imparato a perdonarmela e, grazie a te, a comprenderla meglio.

Soprattutto, ho capito di avere un bisogno assoluto di solitudine, non dico per la mia sopravvivenza, ma quanto meno per essere poi in grado di stare con gli altri. Perché non è che non mi piaccia stare con gli altri, tu capisci. Tutt’altro. È che ci sono parti di noi che neppure con chi ci conosce più da vicino possiamo condividere.

Sono riuscita a leggere un po’, non tanto quanto avrei voluto, ma ho ripreso in mano Huckleberry Finn, perché cercavo una voce, potrei dire così; e il giorno del tuo compleanno l’ho trascorso leggendo la tua biografia, scritta da Dave Itzkoff, a ripassare  le tue meravigliose contraddizioni, quella qualità che ti rendeva, nell’attraversare esperienze tutto sommato ordinarie, così fuori dall’ordinario.

Allora ho capito meglio anche altre cose. Quell’essere uno “sportivo atipico”, un “ribelle atipico”, un “lettore atipico”, insieme agli altri spesso, individualista sempre. Narcisismo e riservatezza, cuore in mano e quel lato segreto, che poi è quello che ti permette di dire “sono forse così, solo perché è così che tu mi definisci”?

Mascherarsi e disvelarsi in un continuo gioco che, come il teatro, del resto, ti consente di andare “oltre” ben più di quanto lo potrebbe una pretesa totale sincerità; presentandoti, poniamo, come uno straniero, parlando una lingua non tua, che, si sa, è uno dei modi migliori per abbattere le barriere della timidezza e dell’abitudine, di mettere a nudo ogni aspetto anche solitamente nascosto della propria personalità, lasciandosi al tempo stesso una via di fuga, perché non si sa mai.

Il desiderio – e la capacità – di esserci sempre, di esserci per tutti, di immedesimarsi profondamente, eppure mantenendo quella distanza che a volte è salvezza, e in altri casi ti soffoca, ti annega in quella strana tentazione di allontanare le persone che ami, di creare il deserto intorno a te, che poi, se approfondisci, non è altro che l’umana e comprensibilissima esigenza di starsene un po’ per conto nostro ad assimilare pensieri ed emozioni di particolare intensità.

La solitudine come rifugio, paura e desiderio, la solitudine sfuggita e cercata, da cui nascono le tue risate e le mie parole. La solitudine, culla della meraviglia, del capovolgimento, del caos primordiale senza il quale nulla di vitale può nascere. La solitudine che ti scava dentro, per arrivare sempre più vicino al nucleo centrale, in una ricerca dolorosa e preziosissima.

E adesso (non intendendo rigorosamente adesso, ma anche, eventualmente, da domani) dovrò tornare a prendermi cura del mio libro su di te, e rimaneggiarlo un bel po’. Non snaturarlo, certo che no. Ma provare comunque a cambiare punto di vista, perché del resto tu continui a farmi ridere, ed è il modo più bello, per me, di cercare la verità, quella più profonda, quella a cui ci si può avvicinare, che si può amare profondamente, ma senza conoscerla mai del tutto. Visto che di biografie ce ne sono già, e anche molto belle, vale forse più la pena di provare a raccontare me, e arrivare alla ragione per cui possa succedere a persona normale (sia pure tra virgolette) di sceglierti come punto di riferimento in modo quasi casuale, e come da qui possa nascere uno degli incontri più magici e meravigliosi che possa capitare di fare nella vita: quello con un’anima che ti mette di fronte alla tua, e te la fa amare.

 

 

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – La saggezza del mare

Dall’introduzione (dello stesso autore) del libro che ho iniziato adesso, La saggezza del mare di Björn Larsson (Iperborea, trad. di Katia De Marco):

“(…) Secondo il metro di giudizio della maggior parte delle persone dovrei quindi essere definito un’anima irrequieta e senza radici, una di quelle persone la cui aspirazione più profonda è il desiderio di viaggiare. (…)

Forse cercavo una patria, o almeno un posto dove valesse la pena di vivere per un po’ come meglio è possibile, finché dura. Il presupposto da cui parto è il più semplice che si possa immaginare: abbiamo una sola vita a disposizione, e non ci serve a niente diventare immortali dall’altro lato della fossa.

Ammetto dunque di non avere radici, ma lo considero una risorsa, la possibilità di decidere in prima persona di mettere radici dove la terra è più fertile, nient’altro, dunque, di quello che l’uomo ha sempre fatto, da tempi immemorabili.

Ma forse mi sto di nuovo prendendo delle libertà con la realtà. Perché la mia unica patria è il movimento (…). È solo su un treno o sprofondato in un sedile d’aereo, ma soprattutto sul Rustica, che vivo nel presente. Altrimenti voglio troppo. Cento vite da vivere, cento libri da scrivere, ancora di più da leggere, nuove persone da conoscere e da amare o con cui fare amicizia, pietre da trovare e levigare, stelle da osservare, teorie scientifiche da elaborare, altre acque da navigare. E così via. Avrei voluto avere più vite, ma mi ritrovo ad averne una sola. (…)

Professo dunque la mia fede nel movimento e nella mancanza di radici. L’irrequietezza invece è una maledizione. Lei e la sua variante moderna, lo stress, la vacuità di affannarsi dentro un recinto, bisogna far di tutto per evitarle”.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – Bisogno di libertà di Bjorn Larsson

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La scrittura di Björn Larsson mi è entrata nel cuore dai tempi della vera storia del pirata Long John Silver, libro che ho amato a tal punto da comprare tutti i libri suoi che potevo, e poi per anni non leggerli per timore di restare delusa. Timore infondato, come avrebbe dovuto essermi chiaro almeno dal giorno in cui ho assistito a una presentazione di Larsson a Genova e lungi dal ridimensionarsi, la mia stima nei suoi confronti è salita alle stelle.

Quest’estate, cercando qualcosa da portarmi in vacanza, i suoi tre libri che non avevo ancora letto mi si sono “fatti incontro” con tale entusiasmo che non avrei più potuto lasciare inascoltato il loro rischiamo rimandando ancora. E Bisogno di libertà (Iperborea 2013, traduzione dal francese di Daniela Crocco) in particolare, dopo un inizio in sordina, mi ha scavato dentro con la stessa forza del primo, benché sia molto diverso. Il tema della libertà è l’unico filo rosso che unisce questi come, a quanto ho potuto capire, tutti gli altri libri di Larsson.

Libertà e scrittura, libertà e amicizia, libertà e servizio militare, libertà e amore…

Appena l’ho finito, senza neanche accorgermene mi sono trovata il libro stretto al petto, come in un abbraccio, e non mi era mai successo. Si dice spesso che leggere apre sempre un “dialogo” con l’autore, ed è così, eppure raramente ho avvertito la verità “materiale” di questa frase come in questo libro, era un continuo riconoscermi, confondermi, ritrovarmi, trovare spunti di riflessione, ribellarmi a certe cose che credevo di non condividere e che poi però lasciavano tracce di inquietudine… Finisco sempre per amare ciò che mi inquieta, un libro rasserentante, che lasciasse in me esattamente quello che c’era prima, non mi sarebbe servito.

L’ho riletto da capo, dopo un paio di settimane. Lo rileggerò ancora, non è un libro da divorare e dimenticare, almeno per me. Ho bisogno di assimilarlo, lasciarlo decantare, lasciarlo agire in profondità.

I’ve been crazy about Björn Larsson’s writing style since the time of Long John Silver – The True and Eventful History…, which I loved so much I had to buy all the books of this author I was able to find, and yet avoided reading them for years, for the fear of being disappointed. An unfounded fear, as I should have realized at least since the day I attended a presentation of one of Larsson’s books in Genoa and far from being reduced, my admiration for him skyrocketed.

Earlier this summer, while I was looking for a book to take on holiday, his three books I still hadn’t read “came to me” with such enthusiasm I could no longer leave their call unanswered, putting this off again. And Besoin de liberté in particular, after a lukewarm start, has dug into me as deeply as the first one, although it’s quite different. the issue of freedom is the only red thread that connects these two and, as I understand, all other Larsson’s books.

Freedom and writing, freedom and friendship, military service, love…

As soon as I finished it, I found myself almost unawaredly holding the book to my chest, as if hugging it, something that never happened to me before. They say reading always opens a “dialogue” with the author and it’s true, but I’ve seldom felt the “material” truth of this idea as in this book, I kept identifying myself, losing and finding myself, getting confused, finding food for thought, fighting against certain ideas I thought I disagreed with, and yet sowed a seed of unrest… I always end up loving the things and persons that disquiet me; a soothing book, one leaving myself exactly as I was before, would have been no use to me.

I read it over again after a couple of weeks. I’ll reread it some other times, too, it’s not a book to be devoured and forgotten, not for me, at least. I need to absorb it, let it settle and kick in.

L’avere sfiorato la perdizione non mi ha distolto dal tornare in foresta (…) Ma da quel giorno mi sono sempre, per così dire, “coperto le spalle”. Ho capito che per essere liberi dobbiamo sapere dove siamo. Chi è smarrito, chi non ha il senso della realtà, chi ignora come va il mondo non è libero. Non si può essere liberi che con cognizione di causa. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione […] Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale. (p. 24)

Tra amore e libertà non c’è unità di misura. L’uno non può equilibrare l’altro, né compensarlo. Tuttavia non si può vivere né senza l’uno né senza l’altro, per lo meno non a lungo. Ma se si dovesse assolutamente scegliere? Se si potesse scegliere? Ebbene, sceglierei senza ombra di dubbio la libertà, perché senza quella non potrei vivere. Senza amore, forse. (p. 72)

Per andare da Passy a Saint-Germain-des-Près e a Montparnasse, i miei quartieri d’elezione, prendevo il metrò che attraversava la Senna sul Pont de Grenelle. Passando sul ponte si gode di una vista magnifica su Parigi e ogni volta guardavo con ingordigia il Sacré-Coeur, i tetti di Parigi e la Senna. Poi, un giorno mi sono reso conto che avevo attraversato il ponte leggendo Le Monde senza neanche sollevare la testa, come tutti gli altri passeggeri che andavano al lavoro. Parigi mi era diventata familiare. (…) Ricordo perfettamente quel che ho pensato: ecco, è ora di proseguire il cammino, di andare a vedere altrove, per spezzare la cecità dell’abitudine che non ti fa vedere più niente. Non sono ripartito subito. Ma avevo capito fino a che punto avessi un bisogno vitale di novità e di resistenza da parte della realtà, e fino a che punto temessi di adattarmi alla routine. Questa necessità di cambiare paesaggio e ambiente, per non intorpidirmi nei confronti della vita, non mi ha mai abbandonato (p. 72-73)

Qualsiasi materia, studiata a fondo, diventa interessante sia da un punto di vista intellettuale che esistenziale. Dico sempre ai miei allievi che la scelta precisa di una materia o di una formazione non è poi così fondamentale. Conta di più spingere lo studio il più a fondo possibile. Alla fine del percorso, si scoprirà inevitabilmente la ricchezza e la complessità dell’esprienza umana. (…) L’errore che mi sembra commettano molti oggi è quello di fermarsi a metà strada, di fare lo stretto necessario per ottenere il primo impiego, insomma di vivere la vita facendo zapping. (p. 76)

Paradossalmente, se l’amore appassionato rischia di rendere meno liberi gli innamorati stessi, al tempo stesso, spezzando i codici e le regoledi una morale e di una società restrittive, possiede una forza liberatice che non va sottovalutata. In effetti, la grande maggioranza dei grandi romanzi d’amore racconta il conflitto tra la passione e la pressione di una società che non può permettere alla gentedi amarsi in qualsiasi modo, al di fuori del matrimonio, scavalcando classi sociali e razze. (…) Anche se non si sceglie di innamorarsi, ci sono sempre amori che esigono un vero coraggio e che costituiscono atti dalle implicazioni politiche molto forti, addirittura esplosive. (…) Ho sempre anche detto, e ugualmente lo ripeto, che non scriverò mai romanzi d’amore. Mi chiedo seriamente se servano a qualcosa. Ne sono già stati scritti di bellissimi, eppure continiamo a commettere gli stessi errori e le stesse idiozie. So perfettamente che la letteratura non ha come unica funzione di insegnarci a vivere concretamente. Resta che non può insegnarci ad amare meglio. Può tutt’al più – ed è già molto – consolarci di sapere amare così male (…). L’essenza della letteratura è essere l’espressione della libertà umana. E l’amore, appunto, non è l’espressione della libertà. Ecco la ragione profonda per cui i romanzi raccontano l’amore infelice e tragico. Quel che raccontano non è solo l’amore. È anche la lotta tra il bisogno d’amore e il bisogno di libertà. In questa lotta, non c’è mai vincitore. (p. 92)

 

Cambi d”amore

Non mi innamoro più facilmente come un tempo, sai, non mi basta più ciò che allora faceva scattare un senso immediato di appartenenza, sia che poi svanisse in un giorno o restasse più a lungo. Ancora può accadere che una luce mi  colga di sorpresa e mi illumini qualcosa dentro,  ma non vivo più di sobbalzi del cuore e di drammatici contrasti, di vuoti d’aria e subitanee pienezze che s”addensano tra petto e gola. È un bene, credo. Non pensare che mi batta meno il cuore, no, il fatto è che batte più forte e con frequenza accelerata per le scoperte più lente, quelle che richiedono tempi lunghi. Persino l’amore per la tua città, benché si,  il colpo di fulmine ci sia stato,  ha iniziato a farmi battere davvero il cuore dopo che ci ho litigato,  l’ho attraversata e lasciata e ricordata. Mi innamoro di ciò che ripercorro con la memoria dopo averci speso passi e pensieri, m’innamoro di ciò che mi cambia, di ciò che ci vuole una vita a imparare. È a causa tua, vedi, non solo perché mi hai insegnato che la bellezza dell’amore sta nella conoscenza lunga, duratura; ma anche perché mi ci sono voluti anni a imparare ogni sfumatura, ogni inflessione della tua voce, e a riconoscerla tra mille persino quando imiti qualcun altro; anni per cogliere ogni possibile mutamento dei tuoi occhi in base all”ora del giorno e alla marea; anni per cogliere il tuo umore dal lampo del sorriso o dal movimento delle mani. È stato un tempo prezioso, non dovrebbe forse questo aumentare i battiti del mio cuore? Ogni conferma, ogni smentita, ogni sorpresa e ogni rito che conosco alla perfezione come se fosse il mio mi dà quel nodo allo stomaco che trova eco nel cuore. M”innamoro con lentezza, cercando con cura lo spazio in cui si muova più libero il mio senso delle distanze e del viaggio necessario per abbreviarle.

Fino al mare

Quest’inquietudine non si placa, so che ha a che fare con te perché mi tremano le labbra, ma non so in che modo c’entri; ascolto ma non sento quello che mi chiedi, resta qualcosa in sospeso al di sopra della vita, scrivo, mi immergo nelle cose ma c’è questa distanza come di chi fa non tanto per fare ma per osservare ciò che ha fatto. Finisco una poesia e l’inquietudine non si quieta, non si quieta, è un dolore dolce ma talvolta lacerante questa ricerca infinita, Non c’è forse poi questo gran spazio tra l’immaginazione e la realtà, ma c’è uno spazio immenso tra i desideri e la vita. E’ anche uno spazio di libertà, quello in cui il vento muove gli aquiloni, altrimenti non sarebbero che inutili pezzi di carta colorati, e non i sogni leggeri che cambiano il cielo. Ti sembra allora che la poesia valga qualunque pena, che il prezzo non sia mai troppo alto, anche se quello è poi lo spazio da cui si intrufola l’idea della nostra insignificanza, dell’insoddisfazione perenne, l’insensato correre dietro alle cose come Bianconigli solo perché sappiamo che nulla sarà mai abbastanza. Che ci vorrebbe l’eterno, l’infinito, siamo zeppi di “intanto”, di “frattempi” e dio se certe domande fanno male e non basta averle in comune per liberarsi dello struggimento. Non è forse per questo che parliamo con i morti e facciamo bungee jumping, lanciandoci da un grattacielo o da una parola? Continua a bussare, tu non smettere, fino a che si sbricioli anche l’ultimo muro. La parola Sconfinato è la più vicina a libero, sono sicura che lo pensi anche tu.

Fino al mare

Il mio cuore è un gatto che sonnecchia al porto,
tra le immobili navi e le reti e d’improvviso
con balzo felino scatta, come avesse visto
qualcosa che nessun altro vede:
un’acciuga, un tramonto, un amante distratto.
Il mio cuore invecchia piano,
ma ad ogni amore ha un anno in meno,
ad ogni memoria cammina con passo più svelto
è un gatto tranquillo, il mio cuore
ma talvolta con mossa inattesa
lo vedi correre verso il mare o in cerca
di un luogo che solo lui conosce,
un’inquietudine d’altrove,
un arcano cercarti in insoliti indizi
un ponte tra le mie labbra e il tuo silenzio.
Farei naufragio, se tu fossi un’isola.
Dove sei mio mare, mia nave, mio capitano?
Dove può raggiungerti la mia bocca tremante
d’infinite cose rimaste sulla soglia?
Adesso è notte, il mio gatto dorme,
lui non ha paura delle stelle, ha fatto tana
nell’incavo più scuro di una strada deserta.
Domani correrà ancora, ti amerà
come si ama chi ci nutre, il tronco
a cui ci aggrappiamo per salvarci,
la musica di ogni isola su cui sfiniti approdiamo,
o le tue orme sulla sabbia, fino al mare.

– 5 La pazienza

Mancano cinque giorni al viaggio e stamattina pareva che invece che essere felice, abbia tutto d’un colpo lasciato andare tutta la mia parte debole, irritabile e lunatica.

Ho scritto pochissimi giorni fa che sono brava col dolore degli altri e col mio. A volte è vero, spesso è vero, ma non è sempre vero. Forse per nessuno può essere sempre vero. Qualche volte il dolore uccide la nostra parte paziente. Eppure c’è una pazienza del dolore, come c’è una pazienza dell’attesa e dell’ascolto e forse una pazienza della vicinanza, la più difficile di tutte. Quando si è molto vicini è dura non prendere certe cose per scontate, non pensare di sapere già, restare aperti e disponibili a “sentire” l’altro fino in fondo. C’è anche una rabbia del dolore. Una rabbia dell’amore, persino. Quando l’amore non basta, quando sembra che l’impegno e la fatica e la fiducia non vengano riconosciuti e si dimentica che è il dolore dell’altro a parlare, come così tante volte, troppe volte, il dolore e la rabbia parlano per noi. Rabbia nel dolore, dolore nella rabbia, si finisce per non sapere neanche più quale sia più forte, che cosa si prova davvero.

Lascio forse che certe cose che credevo dimenticate abbiano ancora presa sulla mia vita, prendano il controllo sottraendomi a me stessa e impedendomi di essere libera? Questo non voglio proprio permetterlo.

Se stessi male senza rimedio non scriverei, ma se non avessi qualcosa che brucia dentro non scriverei così tanto.

Ancora una volta vengo a cercare la tua voce amata per comprendermi, perché l’imperfezione mi pare di amarla ma non sempre l’accetto; allora cerco la tua voce per potermi perdonare. Prima di chiedere scusa a un altro bisogna essersi accolti e consolati da sé. Nel vento e nella bufera vedo i rami del mio albero piegarsi e non so se tu sei il vento, la tempesta o la radice dell’albero, o un ramo, o quelle foglie che in alcuni momenti si tingono d’oro. Se sei la mia pazienza o la mia rabbia, il mio dolore o la forza di superarlo, il mio impegno o la mia resa. So che continuo a cercarti, sempre, quando l’uragano batte con più violenza, e sembri portare un po’ di quiete, ma non sei forse anche nell’uragano? Questa solitudine, questa solitudine è lancinante, eppure non sono sola, in nessun senso possibile. Non riesco ad assolvermi dalla mia fragilità se non abbracciando la tua. Penso che forse, è questo che cerco di fare: rispecchiarmi nella tua fragilità per poter raccogliere almeno una parte dei frutti della tua forza, vedere i tuoi limiti perché un frammento della tua libertà possa appartenermi, amare la tua paura per custodire nel mio cuore almeno una frazione, anche la più minuscola, del tuo coraggio.

Ma il nodo che ho dentro è ancora stretto e aggrovigliato e quello nemmeno tu puoi scioglierlo. Però è buffo, eh, che io scelga d’istinto immagini così colorate, visti gli argomenti di cui parlo. Ed è buffo anche che ieri mattina, appena sveglia, dalla finestra del mio studio abbia sentito cantare un uccellino e sia andata a cercarmi subito il verso del pettirosso. Ed è buffo che fosse esattamente il canto che avevo sentito. E visto che si dice che io sia un tantino troppo riservata, più di quello che è nelle mie intenzioni, specifico: il viaggio è a San Francisco, ed è un viaggio di ricerca. La tua aria, il tuo oceano, le tue colline percorse in bicicletta, la tua casa. La mia casa. In senso ampio, certo, perché la mia casa resta anche qui ed è qui che tornerò, portandomi dietro, spero, un pezzo di altro cielo e un’ombra un poco diversa a giocare con altre luci. E portandomi dietro anche, comunque, un’altra casa d’elezione dove la mia anima potrà continuare a posare il cappello ogni volta che vorrà e che ne avrà bisogno.

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