Ho iniziato l’anno con alcune cose preziose, quelle che voglio fortemente portare avanti per tutto il 2020, tra cui guardare i lavori di Robin: ieri ho rivisto, forse per la quinta volta, Weapons of Self Destruction, uno degli spettacoli teatrali che amo di più; e come sempre ho attraversato momenti di feroce commozione e di risate senza freni (oh, il GPS con l’accento scozzese, la cantilena strascicata di Bob Dylan o la voce impostata di un attore britannico; e oh, Christopher Walken che recita un porno…). Come sempre ho pensato che il mondo è sempre lo stesso, che lui sapeva leggerlo come nessun altro e che la sua interpretazione delle cose è ancora la più acuta, la più realistica e la più attuale. E che ridere è per me l’unico rito propiziatorio che funzioni, l’unica magia in cui credo.
magia
La magia di provare
Guardo mio figlio piccolo che amorevolmente si coccola il cuginetto di un anno, mostrando una pazienza che con i bambini piccoli ha sempre avuto, ma che, anche se non lo sa, gli serve molto anche per sé stesso, e penso che ci sono, nella vita, dei momenti magici che non dovrebbero passare inosservati. Ci preservano, non dalla tristezza, o dalla rabbia, ma da una loro eccessiva influenza sulla nostra vita.
Sto trascurando alcune cose: i miei film serali, il giardino, i blog che seguo, il mio stesso blog, in parte, nel senso che non ci scrivo con la stessa frequenza di altri momenti.
La scrittura è un dono che permette di crearsi uno spazio di bellezza e di respiro, uno spazio proprio, lontano da ciò che appesantisce parte della giornata, personalissimo e al tempo stesso condivisibile.
È un dono a doppio taglio, che può essere estremamente doloroso e che comunque richiede spesso un impegno totalizzante; ma ci sono momenti che ripagano delle notti passate a scrivere invece di dormire, delle settimane intere in cui non riesci neanche a riguardare quello che hai scritto, non parliamo poi di creare qualcosa di nuovo, delle ferite che vai a scavare, dei momenti di sconforto in cui pensi che niente valga la pena. Ci sono incontri, viaggi, ricordi che restano nel cuore. Per questo considero la scrittura molto più una gioia che una condanna o una maledizione.
So di essere molto fortunata, perché vivo la mia vita intensamente quanto i miei sogni, la riempio, la identifico in parte con i sogni. La scrittura è una delle cose per me più reali, carne e sangue, ma è strettamente legata a uno dei sogni più importanti, un sogno che ha la parte egoistica del voler essere pubblicata (e di voler vendere, perché pubblicare un libro che resta poi dimenticato sugli scaffali delle librerie, se pure nelle librerie ci arriva, non è l’obiettivo), e una parte di desiderio di condivisione, la felicità di sapere che altri si riconoscono in quello che scrivo.
Oggi celebro un premio recentissimo, il Premio di Poesia Alda Merini, che mi ha regalato frammenti di una felicità intensa. Ne sono onorata e orgogliosa, perché è un passo davvero importante verso la pubblicazione, perché ho avuto la gioia di emozionare molte persone che non avevo mai visto prima, perché ho ricevuto una motivazione che mi ha commossa più di quanto sappia dire, con i complimenti autografi di quello che è considerato uno dei grandi poeti viventi, e anche per l’umanità di molte persone che ho conosciuto, l’accoglienza dei luoghi, l’amore per quello che si fa. Sono mattoni con cui ci si può costruire un piccolo nido, per quando fuori fa più freddo.
Subito dopo, mi è arrivata un’altra notizia che mi ha dato grande piacere e soddisfazione, legata questa volta al piano professionale, perché hanno accettato una mia proposta di presentazione alla Conferenza Annuale dell’Associazione Americana dei Traduttori. Ricevono molte richieste e sono piuttosto selettivi. Anche questo ha a che fare con il mio amore per le lingue, le parole, il desiderio di condividere.
Una volta non ci avrei nemmeno provato. Potrei quasi dire che la cosa di cui sono più orgogliosa, forse, non sono i premi, o il fatto che la mia proposta sia stata accettata, anche se, l’ho detto e lo ripeto, sono cose che mi fanno molto, molto piacere, ma, prima di tutto, il fatto di averci provato.
LUNEDI’ FILM – 20. Aladdin
Magia.
Magia pura.
Magia infinita.
Non c’è parola che esprima meglio di questa tutto quello che questo film racchiude in sé.
Man mano che ci si addentra nel mondo cinematografico di Robin Williams, non si può fare a meno di rendersi conto che l’aspetto visivo deve aver avuto un ruolo non indifferente nelle sue scelte. Anche i lavori più criticati o di minor successo spesso colpiscono per la bellezza o la particolarità delle immagini (pensate per esempio a Popeye, che del resto era di Altman, al Barone di Munchausen di Gilliam, a Toys di Levinson e, più di tutti, Al di là dei sogni di Vincent Ward). Penso che abbia a che fare con il mantenere in sé una parte bambina, perché il nostro sguardo sappia ancora lasciarsi incantare da ciò su cui si posa.
Aladdin è sicuramente una gioia per gli occhi e tanto, tanto altro. Le canzoni, fantastiche (Friend Like Me mi fa pensare che RW avrebbe potuto benissimo fare anche il cantante, per dire). Il cattivo Jafar e il suo irascibile pappagallo Iago. Una bella storia, ironia, cura dei dettagli. E poi… poi pensate a un personaggio nato quasi interamente da una delle menti più creative che siano esistite allo scopo principalmente di regalare stupore e meraviglia, un personaggio in cui finalmente, di nuovo, Robin Williams ha potuto riversare tutta la sua comicità più spregiudicata e immaginifica, senza doversi frenare (tanto poi, il materiale inutilizzato mica sarebbe mai stato buttato via… sarebbe servito semplicemente ad altro) e quindi al suo meglio.
Insomma, pensate al Genio. Il personaggio con cui forse è stato identificato più di tutti, da quel momento. Fin troppo. Al punto che oggi nemmeno io riesco a guardare la scena in cui il Genio esprime il desiderio di essere libero (“la libertà… è un mestieraccio, sai, quello del genio. Fenomenali poteri cosmici… e minuscolo spazio vitale… Ma oh, essere libero… essere padrone di me stesso. Questa sarebbe una cosa più preziosa di tutte le magie, di tutti i tesori di tutto il mondo”) senza ridere e piangere e commuovermi, anche per l’addio a RW (Genie, you are free), pur restando fermamente dell’idea che lui sia stato libero e padrone di sé stesso per quasi tutta se non tutta la sua vita.
Buon incanto, cari amici!
Magic.
Pure magic.
Endless magic.
There is no other word to better convey all that this movie enshrines.
As we explore the cinematographic world of Robin Williams, we cannot help realizing that the visual aspect must have had a far-from-negligible role in his choices. Even the most criticised or less successful works often stand out due to the beauty or peculiarity of the set design (think of Popeye, which was directed by Altman, in fact, of Gilliam’s Baron Munchhausen, or of Levinson’s Toys, and most of all, Vincent Ward’s What Dreams May Come). I think this may have something to do with keeping a child part inside, so that our sight can still take delight in everything it sets on.
Aladdin surely is a joy to behold and much, much more than that. The songs, amazing (Friends Like Me makes me think RW could have been a singer, say, had he just so decided). The wicked Jafar and his cranky parrot Iago. A nice plot, irony, care for details. And then… then just think of a character that was almost entirely born of one of the most creative minds that existed mainly for the purpose of bringing us wonder and amazement, a character into which Robin Williams was able again, at last, to pour all his most unbridled imaginative humour, without being forced to hold back (indeed, the unused material would not have been thrown away, that’s for sure… it would be just used for something else) and therefore at his best.
In short, think of the Genie, the character with whom, perhaps, he has been identified most, even too much maybe. To the point that now even I cannot watch the scene in which the Genie expresses his wish to be free (“Freedom… it’s part of the whole genie gig. Phenomenal cosmic powers… itty-bitty living space… But oh, to be free… to be my own master. Such a thing would be greater than all the magic and all the treasures in all the world”) without laughing and crying and feeling moved, also because of the goodbye to RW (Genie, you are free), although I remain firmly convinced that he was free and his own master during all, or almost all of his life.
Let you be charmed, my dear friends!
16. The Fisher King / La leggenda del re pescatore
Mica pensavate che mi fossi dimenticata del lunedì della recensione, vero? No, non mi sono dimenticata, ma ancora una volta il compito era impegnativo, trattandosi di un’opera complessa, multistrato, che merita secondo me un’attenzione particolare, pur nel poco tempo (e spazio) a disposizione.
E comunque non è facile per me recensire questo film. Non lo amo, ma mi colpisce profondamente. Non tanto perché io davvero creda che i cosiddetti “demoni” di Robin Williams vi si siano materializzati, come Terry Gilliam ha detto di recente. Ma perché è un film dolorosissimo (non ho idea del perché il riassunto di copertina parli di un “comic masterpiece”, tutto può definirsi tranne che comico, direi), in cui la fiaba, la magia, il sogno sono usati per scavare nel profondo della sofferenza umana, individuale e collettiva. Tra parentesi, la leggenda del re è bellissima e io adoro sentire RW che racconta.
E’ anche una storia di redenzione, indubbiamente, di speranza e di poesia e di dolcezza (penso ad esempio alla scena in cui Parry vede la gente intorno a lui danzare perché la gioia di vedere la ragazza di cui si è innamorato trasforma il mondo intorno a lui, tra l’altro una scena bellissima anche dal punto di vista della luce, sembra un quadro). Ma ci si arriva passando attraverso momenti di indicibile tormento.
Jack Lucas (Jeff Bridges) sta per spiccare un salto verso il successo. Conduce una trasmissione radio seguitissima in cui esprime tutto il suo cinismo da salotto inseguendo personaggi noti in cerca di pettegolezzi e rispondendo alle telefonate degli ascoltatori nella maniera più crudele che può. Fino a che un giorno uno dei suoi commenti sopra le righe tocca un nervo scoperto di qualcuno e provoca una tragedia.
Qualche anno dopo ritroviamo Jack perseguitato dal rimorso (per quanto egocentrico e vittimistico), e incapace di riprendere a condurre una vita normale. Una notte, ubriaco, sta per essere ucciso da una banda di ragazzi dediti ad ammazzare i barboni, quando in suo aiuto arriva Parry (Robin Williams), una sorta di moderno abitante di una Corte dei Miracoli trasferita a New York.
Parry soffre di una forma curiosa di follia, crede di essere un cavaliere e di avere come missione il recupero di un presunto Santo Graal che si troverebbe nel castello di un miliardario della città. In questa missione è ostacolato però da uno spaventoso cavaliere rosso, una sorta di demonio sanguinoso e sanguinario che lo assale con particolare ferocia quando si avvicina troppo alla memoria del suo passato.
Perché come si scopre abbastanza presto, Parry non è impazzito senza ragione. Ha visto morire la moglie amatissima proprio in quella strage che Jack ha inconsapevolmente scatenato. E in qualche modo sembra “intuire” chi è Jack, il senso di questo incontro così improbabile tra due uomini che non avrebbero nulla in comune se non quel legame che dovrebbe semmai separarli da un muro di odio e che invece potrebbe forse essere per entrambi la porta verso un nuovo inizio.
Questo film portò un’altra nomination all’Oscar per Robin Williams, che credo questa volta se lo aspettasse, giustamente, persino più delle altre due. In seguito ci ha scherzato più di una volta, su tutte quelle occasioni in cui si era trovato a dover essere felice per qualcun altro (ma poi avrebbe scherzato anche sull’Oscar, dicendo che dopo la prima settimana di complimenti e congratulazioni, la gente aveva ricominciato a salutarlo, incontrandolo, con “Ciao Mork”) 😀
IL PAESE INFELICE – i Parte, Capitolo I (continua
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Una componente abbastanza particolare di questo carattere dell’eroe [stiamo ancora parlando dell’aspetto “sciamanico”] può essere trovata quando passiamo a parlare della “principessa” (ovvero in generale dell’eroina). Propp osserva come ricorra spesso nelle fiabe l’ostilità della principessa nei confronti dell’eroe, ostilità che talvolta accompagna quella del padre della principessa.
Ciò si ricollega al fatto che l’eroe sposando la principessa diviene erede del suo regno, sostituisce quindi il padre di lei. L’interpretazione che dà Propp è naturalmente storica: anche presso diversi popoli arcaici l’eroe doveva farsi accettare nella famiglia della sposa e finiva poi per prendere il posto del suocero come capo della tribù.
Per fare questo doveva però dimostrare di possedere la stessa “forza magica” del suocero, di portare alla tribù gli stessi benefici.
In alcune fiabe l’idea della trasmissione della forza magica è riflessa con particolare evidenza: al raggiungimento dell’età da marito della figlia, quindi al presentarsi di una nuova generazione, la situazione di benessere del popolo cessa (“la selvaggina smise di volare, i pesci cominciarono a scomparire…”) e questo evidentemente indica al vecchio re che è venuto il momento di andarsene e cedere il posto ad altri. Chi ne prenderà il posto dovrà dunque dimostrare di essere in grado di riportare la stessa situazione di benessere che esisteva prima. Per questo la funzione dei compiti difficili è duplice: da una parte il re sa di dover cedere il proprio posto e assegna imprese tali che il successore mostri di “meritare” il regno; dall’altro il re sa anche che il successo dell’eroe comporterà la propria morte e per questo i compiti devono intimorire. E lo stesso è per la figlia del re: come rappresentante della nuova generazione ella deve compiere il proprio dovere e andare sposa così contribuendo alla caduta del proprio padre, ma come figlia deve odiare il fidanzato che porta la rovina del padre. Per questo talvolta cerca di uccidere il fidanzato e altre volte contribuisce invece all’uccisione del padre[1].
Le prove a cui l’eroe viene sottoposto possono essere le più varie, tuttavia, osserva Propp, esse hanno tutte un elemento in comune: l’eroe deve dimostrare di essere stato nell’aldilà, portare ad esempio un oggetto che non può provenire che dall’”altro regno”, oppure compiere delle azioni impossibili nelle quali avrà successo grazie all’aiutante magico, che a sua volta è stato trovato nell’altro regno, e così via.
Questi compiti sembrano avere un duplice scopo: da una parte scoraggiare il pretendente alla mano della principessa (abbiamo visto infatti che al matrimonio consegue in genere la morte del vecchio re e comunque la sua sostituzione col nuovo “capo”); dall’altra appaiono invece come il mezzo per trovare alla principessa un marito che sia davvero degno di lei.
In effetti si potrebbe pensare da una parte che questa ostilità sia la conseguenza del rapporto tra padre e figlia, e del desiderio del primo di tenere per sé la figlia allontanando i pretendenti; dall’altro che sia “necessario” sconfiggere il re e prenderne il posto (di fronte alle continue pretese del re, spesso anche il genero “tira fuori le unghie” e si ripromette di prendere la principessa e il regno con la forza se il fidanzamento gli verrà rifiutato ancora una volta, oppure in altri casi esauriti i propri compiti affida al re a sua volte dei compiti che questi fallisce). In questo caso si può pensare che l’impresa dell’eroe sia quella di crescere e diventare uomo e sostituire se stesso come “capo” di una nuova famiglia o piuttosto, nella nostra società, sostituire i propri valori e la propria concezione della vita a quella del padre (questo potrebbe essere rafforzato dal fatto che talvolta non è il padre ad essere ostile, ma la madre della fanciulla). L’ostilità della fanciulla sarebbe allora spiegabile nella sua difficoltà a crescere e lasciare la casa genitoriale per unirsi al fidanzato e diventare, appunto, “adulta”[2]. Ancora di più si può qui osservare un’analogia con quanto sostenuto da Bettelheim riguardo al rapporto edipico della bambina con il padre che è alla base di tante fiabe.
Talvolta la fiaba non finisce con le nozze, e lo sposo deve affrontare una prova ulteriore consistente in un pericolo riguardante appunto la notte di nozze. Il pericolo ravvisato dai popoli arcaici nella stessa deflorazione della donna sarebbe alla base di queste fiabe, nella quali talvolta la prima notte è trascorsa non dall’eroe ma dall’aiutante magico, che sostituirebbe il rito di iniziazione della donna col quale essa acquistava la fertilità, e solo dopo poteva avere rapporti sessuali e sposarsi[3].
Il potere di procreazione, legato al potere sessuale, ancora tempo dopo che la dominazione femminile ha ceduto a quella maschile, è rimasto l’unico che ancora l’uomo teme; ma quando questo potere le viene tolto, rendendo l’iniziazione solo maschile, ella diviene del tutto asservita all’uomo, e questo spiegherebbe anche le torture che in alcune fiabe le vengono inflitte e che precedono la felicità finale con lo sposo (percosse con le verghe ecc.). Con questi mezzi la donna viene privata della sua forza.
[1]Vladimir Ja. Propp, Le radici storiche…, op. cit., p. 453
[2]Ibidem, pp. 424-427
[3]P. 447
IL PAESE INFELICE (L’eroe nel mito e nella fiaba) – Parte I Inizio del Capitolo I
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PRECISAZIONE: i due estratti che avevo postato in precedenza costituivano l’introduzione, qui entriamo nel vivo dell’argomento “eroe” 😀
PARTE PRIMA – STORIA DEI CARATTERI EROICI
CAPITOLO I – I primordi: l’eroe sciamano
Quando Propp parla degli aiutanti, ne individua tra l’altro quattro particolarmente legati al ruolo dell’eroe come “sciamano”. L’“uomo del fiume”, l’“uomo della montagna”, l’“uomo della foresta”, il “signore del gelo” rappresentano evidentemente le forze della natura, e la loro sottomissione all’eroe è la sottomissione della natura. Infatti senza il sostegno dell’uomo anche il signore della natura perisce, e in cambio di questo sostegno egli fornisce il suo aiuto[1].
Esistono dei miti nei quali l’eroe crea o contribuisce a creare il mondo, fa nascere boschi, fiumi e montagne, in una parola dà origine alla natura. Alla luce del ruolo dell’eroe come sciamano, Propp ritiene che vi sia un collegamento tra questa sua prerogativa e le fiabe nelle quali appare la fuga mediante lancio di oggetti (il pettine o pezzo di legno che diventa bosco, il sasso che diventa montagna, ecc.).
Vedremo che la qualità di eroe richiede sempre, nelle sue pur diversissime espressioni, la capacità di raggiungere un “altro mondo” che ha evidenti riferimenti al Regno della Morte. Questo passaggio è strettamente collegato ad una richiesta, perlopiù impossibile, che viene fatta all’eroe da qualcuno, e che necessariamente implica il ricorso a mezzi soprannaturali: sono quelli che Propp chiama i “compiti difficili”.
Tuttavia non è nel mondo “di là” che vengono affidati all’eroe questi compiti sovrumani: il signore del “regno di là”, strega, fata, vento, animale o altro, assume il ruolo del donatore, ovvero il mezzo con il quale l’eroe viene in possesso di un oggetto o di un aiutante magico. Questo dono (che consentirà poi l’assolvimento del “compito difficile” gli viene dato in genere gratuitamente. Talvolta deriva dal fatto che l’eroe è stato gentile con un essere fatato (ha aiutato ad esempio una vecchina che si è rivelata una fata), ma più spesso non viene spiegato, e non avrebbe in effetti necessità di essere spiegato. Il fatto, ad esempio, di conoscere la magia che apriva la porta della capanna, il “sacrificio” alle belve che impedivano l’accesso (è ricorrente anche in Italia l’idea di gettare del pane unto d’olio ai cani, o della carne ai leoni custodi), l’aver mangiato il cibo ecc. sono altrettante prove che l’eroe ha superato. Talvolta egli sa tutte queste cose perché un precedente “donatore” o aiutante gli ha spiegato cosa fare, ma di norma egli sa già tutto “perché è l’eroe. Il suo eroismo consiste anche nella sua magica conoscenza, nella sua forza”[2]. Del resto, se accettiamo l’idea di Bettelheim per cui aiutanti e donatori non sono in realtà che proiezioni di particolari qualità del protagonista della fiaba, questa importantissima caratteristica dell’eroe come colui che ha la “conoscenza magica” e la forza di piegare la natura ostile non viene smentita neppure nel caso che egli scopra il modo di superare le prove grazie a queste figure.
Dunque, se in origine al cacciatore è possibile entrare nell’altro regno grazie alla sua forza, in seguito, vengono elaborati dei sistemi di verifica delle “virtù”, e tra queste può anche rientrare la capacità appunto di svolgere un compito difficile. Questo compito può essere necessario per entrare in questo mondo “altro” (ad esempio, per poter entrare nel castello fatato occorre gettare il pane ai cani, attendere che i leoni custodi abbiano gli occhi aperti, perché quando li hanno chiusi vuol dire che dormono, non parlare con nessuno, per quanto la tentazione sia forte, e così via), oppure viceversa può essere una sfida lanciata avente proprio lo scopo di far sì che l’eroe dimostri di essere stato nell’”altro regno”: così, se il re ordina di “andare non-so-dove a prendere non-so-cosa”, è evidente che per risolvere il problema l’eroe dovrà rivolgersi al sovrannaturale, dovrà, in sostanza, dimostrare il proprio potere sulle forze della natura, incluse quelle più oscure della morte. Quasi tutti i compiti impossibili, tutti forse, hanno in comune questo: la prova di aver affrontato e vinto le forze benefiche come quelle malefiche che sono alla base del benessere o della sventura del popolo al quale l’eroe appartiene.
Col tempo queste qualità vengono in identificate tout court con quella forza morale, che, appunto, sola consente di vincere non solo e non tanto la forza fisica, quanto l’oscurità, la paura, l’orrore che ancora oggi, in un mondo tanto cambiato, resta dentro di noi forse dettata in realtà dall’angoscia per la nostra stessa parte oscura, l’unica che ancora non sappiamo non solo dominare, ma neppure conoscere. Infatti solo conoscendo e accettando questa parte possiamo sconfiggerla, come tutte le fiabe e le varie saghe sulla lotta del bene contro il male vogliono in realtà insegnarci. In “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, alla fine Dumbledore (il Professor Silente) dice al protagonista che in fondo insegnargli l’”Occlumanzia” per impedire a Voldemort di entrare nella sua mente e impadronirsi dei suoi pensieri non era poi così indispensabile: alla fine è stato il tuo cuore a salvarti, quella forza che Voldemort conosce ma sottovaluta, e che è quella che invece Harry possiede in misura superiore a lui.
Il fatto di poter entrare nel Regno della Morte e tornare indietro poi tra gli uomini si ricollega strettamente all’idea dell’eroe come “sciamano”. Una delle più affascinanti e sfaccettate manifestazioni di questa capacità è la lotta contro il drago che, correlativamente, è una delle figure più multiformi della storia dei racconti mitici, fiabeschi e leggendari.
Il rapporto estremamente complesso che esiste da sempre tra il drago e l’eroe, e che non è che una delle espressioni del rapporto dell’eroe con le forze della natura, è ben espresso da Propp quando osserva che (nella fiaba russa, ma in realtà il concetto può applicarsi senza differenze ovunque) l’eroe è il nemico di sempre del drago, che sa della sua esistenza e sa anche che perirà per mano sua: “In tutto il mondo non ho altro nemico che il Principe Ivan…”[3].
Questo rapporto percorre con la stessa complessità, le stesse contraddizioni, gli stessi aspetti oscuri, tutti i tempi dagli sciamani fino ai giorni nostri.
Tra i Greci Apollo, sconfitto e ucciso il Pitone, oracolo della Terra, ne ereditò le virtù profetiche, ne assimilò la forza, “giocò coi serpenti, figli prediletti della terra”: e così Apollo, dio della luce, accolse dentro di sé la notte e la sua potenza[4]
Ed Ercole non ha forse iniziato la sua “carriera” di eroe, quando ancora era in fasce e si chiamava Alceo, uccidendo i due serpenti che il padre Anfitrione aveva messo nella sua culla e in quella del fratello gemello per metterlo alla prova e svelarne così la natura divina?
E se veniamo a quello che è oggi il più famoso eroe fiabesco, possiamo vedere che Voldemort, il nemico di Harry Potter, sapeva già prima ancora che Harry nascesse, che quello era il nemico che avrebbe dovuto distruggere per poter sopravvivere. Voldemort non è un drago ma ha una stretta relazione con i serpenti (ed è interessante il fatto che anche Harry ha questo rapporto, fin da piccolo sa parlare con i serpenti).
Serpente e drago spesso si confondono, e fin da epoche antiche. Atena affiderà a Cecrope, mezzo drago e mezzo uomo, l’unico “figlio” Erittonio, il primo uomo, destinato ad essere re di Atene, nato dal desiderio di Efesto che le ha lanciato contro il proprio seme: ed Erittonio, nascosto in un cesto che nessuno dovrebbe aprire, è protetto da un serpente che lo avvolge tra le sue spire[5]. Le figlie di Cecrope, disobbedendo al divieto, terrorizzate si gettano dalle rocce sull’Acropoli, poiché l’occhio umano non può sopportare, senza morirne, la vista della natura divina delle cose. A meno che, appunto, non si tratti dell’occhio di un eroe.
Il mostro divoratore (che diventerà poi il drago) è in stretta relazione con il rito iniziatico, osserva Propp. In questi riti il neofita veniva quasi sempre “inghiottito” sotto varie forme e poi “risputato fuori” come uomo nuovo, avendo acquisito qualità di grande cacciatore, forza magica, ecc. Dunque il collegamento con il ruolo di sciamano ne risulterebbe confermato
L’inghiottimento ad opera di un animale viene poi sostituito da quello ad opera dell’acqua: chi ha il coraggio di nuotare in uno stagno dove si trovano gli spiriti (o i draghi) oppure nel mare riceve da questi esseri virtù particolari di sciamano. Mentre la funzione di inghiottitore del drago non è in stretta connessione col suo aspetto (possono essere tali anche pesci, lucertole, uccelli ecc.), la sua caratteristica di signore delle acque è al contrario legata alla sua natura di serpente prima e di serpente-drago poi[6].
Da questo “inghiottimento” l’eroe riporta selvaggina (il potere sugli animali) o frutti della terra e più tardi facoltà taumaturgiche e medicinali, il fuoco, l’arte di modellare la creta… Potrebbero spiegarsi in questa luce anche i miti di Cronos che divora i propri figli (e inghiottendoli conferisce loro il proprio carattere divino) e di Giona che uscendo dal ventre della balena ha acquistato facoltà profetiche[7].
La ferocia del drago convive dunque con gli aspetti benefici. Il dualismo, carattere essenziale di questa figura, viene da lontano. E’ lo stesso carattere doppio del serpente, che è il protettore di Erittonio tanto quanto il mostro ucciso da Eracle. E questo dualismo si fonde nel Pitone ucciso da Apollo, che l’uccisore sostituisce nel potere divinatorio e nella potenza ricollegata in origine alle forze primordiali.
In seguito però l’accesso al Regno della Morte viene identificato con il viaggio verso un luogo lontano piuttosto che con l’entrata nell’animale totemico, e l’inghiottimento perde la sua funzione. A questo regno si giunge talvolta ugualmente nel ventre di un animale, perché il nesso con i riti arcaici esiste ancora, ma il senso dell’utilità, del beneficio di questo è andato perduto, e l’animale che ingoia è diventato comunque un nemico pericoloso.
Questa forma di “eroismo magico” di colui che entra nel ventre del mostro per trarne forza viene così col tempo sostituita dal valore e dal coraggio individuale. Il mostro diviene una raffigurazione del male e l’eroe è colui che lo uccide. Il passaggio avverrebbe dunque dall’eroe che viene ingoiato e poi “eruttato”, all’eroe che si lascia ingoiare (di solito per essere trasportato nel “regno lontano”) ma poi uccide il mostro (v. Assipatte, fiaba evidentemente molto antica); infine, il personaggio si sdoppia, e colui che viene inghiottito dal mostro è la “vittima” che l’eroe dovrà salvare uccidendo il mostro. Questa uccisione avviene dapprima pur sempre dall’interno, come appunto nella leggenda di Assipatte; in un secondo momento la lotta tra drago ed eroe avverrà invece soltanto dall’esterno, senza più alcun “inghiottimento”.
Un’altra ragione per questa trasformazione dell’essere amico in nemico potrebbe risiedere secondo Propp nel già menzionato carattere acquatico del drago: il drago è colui che governa le acque presso molte popolazioni antiche, dalle quali è considerato un essere temibile e spaventoso ma fondamentalmente benefico, appunto perché regola il corso delle acque e dona la fertilità.
Con il passaggio ad un’economia agricola più stabile e alle prime pur rudimentali forme di stato, gli antichi animali totemici vengono sostituiti dagli dei antropomorfi che ne assumono le funzioni, tra cui in particolare quella di dispensatori di acqua: nei miti spesso la lotta col drago è messa in rapporto con un abuso che egli ha fatto del suo potere, scatenando alluvioni o siccità, e questo avviene anche in molte fiabe, non solo russe[8].
A parte le ragioni socio-economiche, tuttavia, sembrano sfuggire a Propp i nessi derivanti dalla mutata concezione della morte: man mano che la società si evolve, anche il rapporto con la morte diviene sempre meno naturale e accettabile. Oggi sarebbe forse difficile pensare ad una fiaba in cui la fanciulla varca effettivamente il regno dei morti e viene riportata indietro: anche per questa ragione il salvataggio avviene quasi sempre “prima” che la vittima venga divorata.
Il drago passa nella fiaba in questa concezione tarda di terrore del regno dei defunti, divoratore dei morti, vinto il quale l’anima può infine raggiungere la beatitudine eterna.
A questo punto il divoramento si è trasformato in qualcosa di ripugnante, e diviene anche “punizione” dando a tutto il motivo una sfumatura moralistica[9], pur convivendo con il diverso aspetto del combattimento.
E’ per questo che, come vedremo, uno dei fondamentali caratteri eroici del protagonista delle fiabe sta nel superare la paura della morte: quando il rapporto con la morte era più naturale, ciò che contava era piuttosto il fatto di “superare un confine”, perché da questo derivava una speciale protezione e benefici straordinari per il popolo. Quando invece la morte è divenuta un orrore da cui tutti fuggono, chi non fugge è “eroico”.
Ma l’aspetto forse più interessante è un altro. Se è vero, come afferma Propp, che l’espulsione dalle fauci del drago rappresenta anche la nascita dell’eroe, ne deriva che il drago è anche il padre, l’antenato, o comunque in qualche modo l’origine dell’eroe. Nell’ultima fase colui che è nato dal drago, cioè l’eroe, uccide il drago. Anche in questo caso, da alcuni riferimenti si può dedurre che il drago o lo spirito acquatico conferiranno al nuovo nato la propria forza e la propria natura[10]. In questo modo si giunge alla conclusione che il drago è ucciso da un essere della sua stessa specie, forse perché l’antica concezione del drago benefico non è del tutto scomparsa e questo drago combatte allora contro il drago-mostro temibile[11]. In sostanza, la sconfitta del drago, non diversamente da quella dell’orco o dal gigante, rappresenterebbe la conquista della propria autonomia, del proprio potere, da parte dell’eroe-figlio, ovvero il passaggio da una generazione a un’altra. Il drago non è più capace di dominare le forze della natura, di portare benessere alla sua gente, al contrario diviene una minaccia, e il suo posto è preso dal suo erede più giovane.
Questo spiegherebbe anche perché solo l’eroe, che appunto ha la stessa natura del drago, è in grado di sconfiggerlo. Diventa ancora più evidente, in Harry Potter, il motivo dello stretto legame tra Harry e Voldemort. Harry è nato in modo “normale” ma è stato comunque “marchiato”, sia dalla madre che lo ha protetto con la sua morte, sia dallo stesso Voldermort che tentando di ucciderlo senza riuscirci gli ha trasmesso i suoi poteri.
Partendo dall’analisi psicologica, Bettelheim giunge a conclusioni simili. Qualsiasi bambino, egli osserva, sogna di essere al posto del padre e avere per sé l’attenzione esclusiva della madre; tuttavia ovviamente lo spaventa l’idea di vivere senza la protezione del padre e anche la sua vendetta se conoscesse i suoi pensieri. La storia dove l’eroe uccide il drago (o altro mostro) e salva la principessa lo conforta a più livelli: gli dice che in realtà non è il padre con cui egli vuole combattere, ma un drago malefico; che non è la madre che egli vuole, ma una donna magnifica che certamente incontrerà; che, lungi dal doversi sentire in colpa per le proprie fantasie, egli può identificarsi con l’eroe, che è sempre giovane e innocente come lui, oltre che dotato di quelle qualità appunto “eroiche”[12].
Da questo punto di vista la lotta contro il drago non è altro che la lotta contro il padre (o l’antenato, che è lo stesso), volta da un lato a superare il proprio conflitto edipico, dall’altro ad asserire la propria indipendenza e mostrare il proprio valore e quindi la capacità di “prendere il posto” del padre, o, in altre parole, di assumere il proprio ruolo di adulto. “L’eroe”, dice Calasso, “diventerà egli stesso il nuovo mostro… Quando l’eroe affronta il mostro, non ha ancora potere, né sapienza. Il mostro è il suo padre segreto, che lo investirà di un potere e di una sapienza che sono soltanto di un singolo, e soltanto il mostro gli può trasmettere[13].
Per questo allora il drago e colui che lo combatte hanno in realtà la stessa natura, per questo il drago sa fin dall’inizio chi sarà il suo nemico, e per questo solo l’eroe può sconfiggere il drago. La “marcatura” dell’eroe non pregiudica allora né la sua umanità, né la possibilità per il bambino di identificarsi con lui, che è anzi lo scopo stesso della storia. Non è perché l’eroe è speciale che può sconfiggere il drago, ma perché solo un figlio può prendere il posto del padre.
[1]Vladimir J. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Ed. Newton, Roma 2003 p. 302-305
[2]Ibidem, p. 200
[3]Ibidem, p. 341
[4]Pietro Citati, La mente colorata. Ulisse e l’odissea, Mondadori, Milano 2002, p. 19
[5]G. Mascioni, op. cit., p. 88
[6]V. Propp, op. cit., p. 374
[7]Ibidem, p. 349
[8]Pp. 375-378
[9]P.393
[10]p. 395
[11]Pp. 396-7
[12]B. Bettelheim, op. cit., p. 110
[13]R. Calasso, op. cit., p. 383
Di sciarpe e berretti e lupi e altre cose / Of scarves and caps and wolves and other things
Tre giorni fa, lezione d’inglese coi bambini di terza/quarta elementare (ma ce n’è anche uno di seconda). Ogni volta un rebus, cerca attività adatte ai vari livelli, cerca di farli divertire, cerca di farli lavorare, parla solo inglese, anche se non capiscono pazienza, non parlare solo inglese altrimenti non capiscono…
Poi, agli ultimi quindici-venti minuti, il lampo di genio, o piuttosto, il colpo di fortuna (e meno male che non era quello della strega, che un po’ qualcuno forse già mi vede in quella veste). Uno dei bambini, che già non vedeva l’ora di prepararsi per andare via, s’infila un berretto di lana a forma di lupo. E’ fatta! Glielo chiedo in prestito e comincio a portarlo in giro, infilato a mo’ di marionetta mostrandolo agli altri. Hai paura del lupo? Ti piacciono i lupi? Conosci Cappuccetto Rosso? E intanto Qualche ruggito ci scappa, anche se in realtà, gli ululati sarebbero stati più in carattere. Così riesco a salvare capra, cavoli e anche il lupo e la lezione: inglese, divertimento, risate, parole e strutture nuove…
Così ho ripensato a quella volta in cui hai creato, con la sciarpa chiesta a una ragazza tra il pubblico, uno dei tuoi momenti straordinari fatti di piccole cose ordinarie e quella sciarpa è diventata tutto, improvvisazione, magia, libertà totale di espressione della mente e del corpo. E’ quella magia, quella libertà che voglio, e l’avrò, e saprò trasmetterla, da insegnante, a tutti quelli che vorranno sentirla e capirla e viverla.
Three days ago, English lesson with the third/fourth-graders (and one is a second-grader). inspired guesswork is needed every time: look for activities that may be suitable for each level, try to make them have fun, try to make them work, speak only in English, never mind if they don’t understand, don’t speak only in English, otherwise they don’t understand…
And then, there were just 15-20 minutes left, a sudden stroke of genius! (A stroke of luck, more likely, and it was just as well that it wasn’t that back strain we call colpo della strega, or witch’s stroke, as “my” kids probably already see me as one): one of the kids, who couldn’t wait to get ready to go, apparently, put on a woollen wolf-shaped cap. That was it! I borrowed it, put it on my hand puppet-like and began to show it around: ‘are you afraid of wolves?’ ‘Do you like wolves?’ ‘Have you ever heard of “Red-Riding Hood?’ And some roars came out too, even though howls would have been more appropriate, I suppose. So I’ve run with the hares, hunted with the hounds, and brought all of them safely home 🙂 I mean everything was there, the lesson, English language, fun, laughs, new words and structures…
Then I’ve thought of that time when you created, with the scarf of a girl among the public, one of your extraordinary moments made of very little, ordinary things and that scarf became everything: magic, improvisation, total freedom of expression, mind and body. It’s that magic, that liberty I want, and I’ll have it and I’ll learn how to pass it on, as a teacher, to everyone that wants to feel it and understand it.