Long time no hear

È trascorso oltre un mese dal mio ultimo post. Un tempo notevolmente lungo, benché poco dopo l’inizio della vita del blog sia stata quasi due anni senza scrivere niente. Nel frattempo sono successe molte cose, belle e brutte, alcune molto brutte. Altre molto belle. Ma mi sono presa una lunga pausa dalla scrittura, non del tutto voluta. Tutta la scrittura, non solo qui: non una riga, né in prosa, né in versi. È come se, da una parte, la vena si fosse inaridita; dall’altra, stare senza scrivere mi crea talvolta un malessere quasi fisico, eppure non sempre riesco a vedere il senso di farlo. Ma passerà. Credo.

Nell’orrida vicenda di Quargnento, di cui non voglio neanche parlare, è morto tra gli altri un caro amico di mio marito, che veniva in campagna nello stesso posto dove andiamo noi. Una persona d’oro, padre di una bimba spericolata e simpaticissima che adorava suo padre. E che l’ha perduto a causa di uno totalmente vuoto, che sembra incapace non dico di tener conto degli altri, ma anche solo di vederli, di accorgersi che esistono.

Poi ci sono le alluvioni nella zona, il crollo del muro del giardino, la ristrutturazione della casa dove, con un po’ di fortuna, vorremmo andare a vivere in un futuro non troppo lontano,  e di cui mi sto innamorando sempre più, dedicandole cure, attenzioni, tempo ed energie, ma che sta prosciugando le nostre risorse; e ancora, tutte le paure e le gioie legate ai figli e al resto della famiglia “allargata”.

E poi c’è il lavoro, gli alti e bassi, fasi di “stanca”, con tutte le preoccupazioni che comportano, finanziarie e di altra natura, e le fasi di improvvisa esplosione, quando tutto il mondo sembra aver bisogno di te (quasi in senso letterale, visto che ho ricevuto dagli Stati Uniti più lavoro in un mese di quanto me ne fosse arrivato nei precedenti quindici anni) e non riesci nemmeno a respirare. Nel frattempo, sono anche riuscita a ottenere la certificazione ISO. Sì, di pentole sul fuoco ne metto comunque sempre tante, e di solito riesco a non bruciare niente, o quasi.

Negli ultimi giorni, sono riuscita a trovare abbastanza tempo libero da guardarmi tutte le prime quattro stagioni di Downton Abbey, una serie che non avevo mai visto, ed è stato quasi un colpo di fulmine (a scoppio leggermente ritardato, ma non troppo). Ora devo recuperare le ultime due, ma devo trovarle in inglese. Il cofanetto delle prime quattro contiene alcuni episodi in italiano e inglese (con sottotitoli solo in italiano) e alcuni, inspiegabilmente, in italiano e russo. Da traduttrice, capisco bene le difficoltà di doppiaggio e sottotitolazione e capisco che è stato fatto un ottimo lavoro. Resta il fatto che si perde moltissimo. In alcuni casi, con la lingua e la voce sembra cambiare addirittura il carattere dei personaggi, persino l’atmosfera stessa, che dopotutto, è una parte tutt’altro che secondaria del fascino della serie. Comunque, se riesco ne parlerò magari nel prossimo post. Non vorrei passasse di nuovo così tanto tempo tra uno e l’altro.

Però a qualcosa bisogna rinunciare, e per un po’ è stata la scrittura. Spero non sia per molto.

New Orleans 24/10/2018 – French Quarter (e qualche considerazione personale del tutto fuori tema)

Il Vieux Carré e altre case sulla linea del tram St. Charles, senza trascurare il fatto che eravamo in piena Voodoo Fest, che dura tutta la settimana precedente Halloween. Halloween, per esempio, è una cosa che in qualche modo celebro anche in Italia, ma in America acquista tutto un altro sapore. C’è questo miscuglio tutto particolare di dialogo tra vivi e morti, di lutto e di memoria, di effetto catartico per fare i conti con la paura e il dolore della perdita e di sdrammatizzazione, di macabro e di scherzoso, ma anche di vera e propria celebrazione, un po’ come i banchetti e i festeggiamenti che presso certi popoli seguono immediatamente i riti funebri, per dire che tutto sommato, è vita anche questa, e che comunque i legami veri non si rompono mai, e quello che si celebra, dopotutto, è proprio questo. Io avverto, e amo profondamente, questa partecipazione che coinvolge le città nella loro interezza e ciascun individuo ugualmente nella sua interezza.

Del resto penso che se una qualche forma divina c’è, dev’essere probabilmente inclusiva, e non deve dispiacerle troppo questa commistione di sacro e profano, materiale e spirituale, tradizionale e contemporaneo, importato (da tempo immemorabile o di recente, poco importa) o autoctono, cristiano, pagano e altro ancora. Per cui capisco perfettamente le critiche allo “Halloween italiano”, specialmente alcune (legate all’aspetto più commercial-consumistico che comunque l’accomuna a tutte le altre feste, se non vissute profondamente), ma non le condivido. L’idea che ognuno debba strettamente tenersi la sua cultura (di quando? Delle caverne? Del medioevo? hmmm… già troppe mescolanze, all’epoca…), così come quella delle precedenze e dei privilegi la trovo molto difficile da associare a una qualunque divinità. E poi, siamo proprio sicuri che se così fosse, darebbe la precedenza agli Italiani? o agli occidentali? o ai terrestri, se è per questo? o agli abitanti della Via Lattea? Magari ci sono infinite altre galassie prima di noi, di cui non sappiamo niente… Sì lo so, sono uscita dal seminato, ma dopotutto, scrivo apposta per questo, per uscire impunemente dal seminato, andare fuori tema, ora che posso (revenge! [cit.]).

La leggerezza dell’infinito

Due giorni splendidi, con un gruppo che amo moltissimo. È un gruppo di “psicoterapia avanzata”, nel senso che siamo tutte persone che hanno finito la terapia ma affiniamo i nostri strumenti incontrandoci e lavorando insieme 4-5 volte l’anno. Ne esco ogni volta più forte e questa è stata particolarmente intensa. Emozioni, colori, il mio amatissimo mare, ricordi, sensazioni presenti e una porta aperta sul futuro, dietro la quale ho visto, per la prima volta con questa chiarezza, che quello che voglio è prima di tutto scrivere, o forse, anzi, solo scrivere. Ho avuto un senso fortissimo di morte e rinascita, qualcosa che mi ha coinvolta completamente, mi sono sentita come se fossi immersa nel mare e avessi il mare dentro di me, tutto il mio corpo era mare, e si è perso e ritrovato sull’onda di un fremito vitale, di una tale dolcezza e bellezza da stordire. Davvero non ho più paura. Sono io. Sono l’ala dell’aereo che si muoveva nel mio presente, e il cielo in cui volava, sono piena di amore e passione, di tenerezza ed energia, ho finalmente riconosciuto la mia capacità di scompigliare, riprendermi in mano la mia scintilla di follia, a cui tengo tanto, il gioco, la leggerezza dell’infinito. Sono io e sono in movimento, e amo così tanto esserci che neanche io sapevo fino in fondo quanto.

68. The Angriest Man in Brooklyn

Solo tu potevi interpretare un film così. Sulla rabbia, sul dolore e la paura che sono sempre dietro ogni rabbia e dietro l’isolamento (lo sapevi dai tempi di Mork). Sul fatto che vivere significa farci i conti per aprirsi alla felicità possibile. Credo diventerà un altro dei miei più amati. Dicono che sia tutt’altro che perfetto. Forse è per questo, sai. A volte penso che più sono imperfetti, più li amo. Tocca argomenti che sento moltissimo e lo fa in questa maniera per me tanto più profonda e commovente proprio nel suo essere sentimentale e leggera al tempo stesso. L’ho guardato ieri sera pensando, sarà una cosa fatta, visto che oggi è il giorno in cui parlo dei tuoi film. E invece oggi l’ho rivisto quasi tutto, per avere ben impressi in mente i toni, gli sguardi, le parole. Non necessariamente per riportarli qui, solo perché comunque ci fossero, in mezzo a tutto il resto, anche non visti, ma percepiti.

Due vite che rischiano di andare in malora, quella di Henry e quella di Sharon. L’uno reso furioso dalla morte di uno dei due figli, e che non riuscendo a vivere il suo dolore altro che nella forma di quella rabbia costante, si è alienato la moglie e l’altro figlio, il fratello e tutte le persone che avrebbero potuto stargli vicino. L’altra che odia altrettanto il mondo, pur essendo molto più giovane, perché già sta rischiando di lasciar andare alla deriva i suoi sogni. Tocca a Sharon dire a Henry che ha un aneurisma al cervello che gli lascia pochissimo da vivere, e di fronte a una delle sue crisi di rabbia, finisce per dirglielo nella peggior maniera possibile, al che Henry se ne va senza neanche rivestirsi.
Henry cerca di recuperare il tempo perduto mettendo in quell’ora e mezza più cose che può, ma essendo fuori allenamento nell’esprimere le emozioni positive, rischia di incasinarsi ulteriormente. Vorrebbe riunire vecchi amici a una festa, far l’amore con sua moglie (quale potrebbe essere la posizione più “giusta” in una situazione del genere?), riconciliarsi con il figlio, ma a parte il suo caratteraccio, che non rende le cose più facili, incappa in molti di quei contrattempi che spesso sperimentiamo quando abbiamo fretta e tutto sembra congiurare contro di noi, mentre Sharon parte all’inseguimento per trovarlo e portarlo in ospedale. L’alternanza di speranze, delusioni, buone intenzioni e pessime messe in pratica si riflette in quella faccia che è l’essenza stessa della libertà di espressione.

Insomma, se qualcuno si aspettasse un film molto triste si sbaglierebbe perché no, non lo è, e qui è l’aspetto straordinario. Al contrario, almeno a tratti è divertentissimo. Macabro, nemmeno. Beh, forse un pochino. Henry viene da una famiglia ebrea di New York, dopotutto. Indubbiamente scava nelle emozioni più forti, ma è attraversato interamente da quell’ironia che mi è così cara, che non dissacra ma allevia, entra più profondamente dentro e graffia quel tanto che basta perché la verità delle emozioni possa colpirti, ma senza ferire. Affrontando a viso aperto la violenza di alcune delle cose che ci devastano il cuore, perché possiamo parlarne se le accogliamo, e sorriderne significa accoglierle. Purché in quel sorriso ci sia tutta l’intensità possibile, perché è denso il nostro sentire, e deve esserlo, è giusto che lo sia.

E’ spiritoso, commovente, tenero, caldo, affettuoso.
Dicono che l’amore è puro e generoso. Non è vero. E’ meschino ed egoista. Ti volevo nello studio con me perché non riuscivo a concepire niente di meglio che averti vicino. Quello che volevi tu, che sognavi tu, io non volevo ascoltarlo. E poi, tuo fratello. Perché? Che razza di Dio, che razza di mondo è questo? E’ solo una stramaledetta truffa. Il dolore, dicono che poi passa. Stronzate. Non tenerti la rabbia dentro, dicono. Lasciala andare. Ti ucciderà. Fanculo, dico io. La rabbia è l’unica cosa che mi hanno lasciato. La rabbia è il mio rifugio, il mio scudo. La rabbia è il mio diritto di nascita.

E’ quello spazio tra il cuore e lo stomaco, tra la realtà e la trasfigurazione, tra la poesia e l’esistente, tra la vita come vorremmo che fosse e quella che è, che non è necessariamente peggiore, solo diversa. Il resto sta a noi. Cosa faresti se sapessi che ti resta poco da vivere? Cercherei il modo di essere felice. E allora perché non lo fai?
Non sono concetti nuovi, anzi. Si accompagnano da sempre ai pensieri che non possiamo fare a meno di avere sulla temporaneità del nostro esserci. Ma sono espressi in un modo che li senti vivi, ti ci picchi, combatti davvero contro quello che ti impedisce di portarli nella tua vita. Sono carne e sangue, sono nostri come difficilmente li sentiamo quando ci scivoliamo sopra intravedendo con occhi distratti una delle infinite citazioni sul non lasciarsi vivere.
Sulla mia lapide ci sarà scritto, Henry Altmann, 1951 trattino 2014. Non ci avevo mai pensato prima, ma non sono le date che contano. E’ il trattino.

Per otto giorni, Henry Altmann non si arrabbiò mai, neanche una volta. Tranne che proprio alla fine, quando disse alla morte di andare a farsi f..re. Poi riportò i suoi pensieri sulle cose che amava, e levò le ancore.
E’ un’accettazione senza resa, quella faticosa dolcezza che si conquista attraversando tutto il resto. Difficile togliermi dalla testa l’idea che tu sapessi fin troppo bene di cosa stavi parlando. Non avevi ancora risposte sicure, ma in cuor tuo sapevi. Comprese le ceneri nell’acqua, e magari anche tu odiavi l’idea, ma in fondo era l’unico modo di non separarti mai del tutto dalla terra.

 Perdonate quello che può apparire come uno spoiler, ma in realtà non lo è, perché non è la fine che conta, quella la si conosce fin da subito. Mi è venuto spontaneo utilizzare la seconda persona, rivolgermi a Robin direttamente, mi succede spesso, ma nelle recensioni di solito cambio, almeno quando le inserisco qui. Questa volta, ho deciso di lasciarla com’era. Il regista è Phil Alden Robinson, di cui non ho visto altri film. Sharon è Mila Kunis, Aaron Altmann (il fratello) è Peter Dinklage, la moglie è Melissa Leo, tutti molto intensi secondo me, ma non sono in grado di dare giudizi “tecnici”. Nota: le traduzioni sono mie, ho solo la versione inglese del film quindi non conosco i dialoghi italiani del doppiaggio.

Prismi, ricordi e uragani

Tutti noi sappiamo di avere un’infinità di mondi dentro. Le persone che amiamo e ammiriamo di più spesso sono quelle che scardinano le nostre certezze, abbattono i cliché e non si lasciano incasellare in alcun modo. Persone al tempo stesso contraddittorie ed estremamente coerenti, ricchissime di sfaccettature che come in un prisma scintillano di colori diversi a seconda del luogo e del momento da cui le guardi, eppure si ricompongono in un tutto inscindibile.

E’ buffo, allora, che ci intestardiamo comunque, prima o poi, a cercar di rinchiudere queste persone in una qualche casella. Abbiamo bisogno di creare categorie e di classificare, pur quando qualcuno ci affascina per il fatto stesso di avere un numero maggiore di mondi e sfaccettature di quanti siamo abituati a vederne. Forse persino di più in questo caso, perché siamo affascinati ma anche intimoriti, preoccupati, magari un po’ contrariati, per quanto ci sforziamo, quello che è insolito e non comune ci sbilancia un po’ e quindi facilmente ci irrita; se una persona ci piace, cerchiamo di ricondurla a una sorta di armonia universale, o quanto meno al nostro personale senso di armonia: dopotutto era uno di noi, anche i ricchi piangono, il clown triste, la depressione dei comici, il lato oscuro della fama. Tu ne hai sempre sorriso, ogni volta che ti accorgevi di questi tentativi, continuando poi per la tua strada senza arrabbiarti – talvolta con un po’ di amarezza – e senza lasciarti cambiare.

E’ come se ci piacesse scompigliare il nostro mondo per un poco, così tanto per fare, per gioco, con la certezza che l’ordine sarà presto ripristinato. Il vento può muoverci i capelli, purché non ci agiti troppo e non ci faccia volare. Ma queste persone, quando sono sostanza e non apparenza, sono uragani, magari anche dolci e gentili, ma pur sempre uragani, e un uragano non lo riconduci all’ordine. Dovremmo desiderare soltanto di trovarci lì mentre passano, accettare lo scompiglio che lasciano e non cercare di cambiare la loro direzione o il loro movimento, che è perfetto così com’è, con tutta la sua illogicità, anzi, proprio per la sua illogicità, o meglio ancora, per il fatto che risponde a una logica insolita.

Dell’accanimento della vita contro chi meno lo meriterebbe quasi tutti ne abbiamo esperienza, fa male l’ingiustizia, male male, tanto da pensare che una forma di giustizia superiore deve esserci e se non c’è, bisognerebbe inventarla. Io ancora non so accettare che uno degli uomini più geniali, creativi, generosi, eccentrici, discreti, gentili, umili, buoni e altruisti al mondo abbia dovuto affrontare un destino che è forse il peggiore che possa capitare: perdere pezzo per pezzo la memoria e la ragione (oltre al controllo sul proprio corpo) ed esserne consapevole.

Ad ogni piccolo tassello che si aggiunge sempre più mi rendo conto che non solo eri unico e speciale (a nostro modo lo siamo tutti), ma che a questa unicità tu avevi saputo non dare un confine. La tua grandezza è tanto più preziosa perché bisogna cercarla, scoprirla, può forse intuirsi ma non è palese, mai e poi mai ostentata, ché tu poi neanche ci credevi del tutto.

E allora con tutto il dolore e l’ingiustizia che a volte mi agitano dentro come furie, penso che sono contenta che tu abbia dato alla tua donna una giornata speciale per dirle addio e abbia deciso di morire tenendo quell’addio ancora negli occhi e nel cuore. Che tu non fossi affatto infelice, come forse, egoisticamente, avremmo voluto, anche per non doverti rimproverare di una decisione che del resto non era di nessun altro che tua (mentre per qualche forma di morale che non capisco, non si dovrebbe poter morire fino quando l’infelicità e la pena non abbiano consumato completamente noi e le persone che abbiamo accanto). E anche, forse, perché nel nostro cuore molti di noi avrebbero voluto poterti rendere felice, ed era più facile pensare che nessun altro ne fosse capace. Se pure di depressione hai mai sofferto, non è stata quella la causa della tua decisione. Sono contenta che abbia mantenuto la scintilla di follia che ti eri scelto tu, e non quella che ti sarebbe stata imposta dalla malattia, contenta che abbia deciso di morire integro, finché eri vivo, senza lasciarti ghermire da alcuna forma di costrizione, neppure quella della morte. Sono contenta (forse il termine contenta suona strano in questo contesto, ma so che tu capiresti e questo mi basta) che tu abbia mantenuto fino all’ultimo quella capacità infinita di pensare agli altri prima di tutto e di prenderti cura di loro, che era in fondo la base di tutta quella gioia di vivere che, qualunque cosa dicano, hai sempre posseduto e trasmesso. Tu non ascoltarli, hai fatto bene a tenerti stretti i ricordi che ti erano rimasti, impedire che fossero cancellati, mai, né prima né dopo, perché se perdi quelli, cosa ti resta poi da desiderare al di là dei sogni? Ah, la tua memoria, la memoria prodigiosa con cui ricordavi una per una le battute di qualunque spettacolo e il nome di chiunque ti incrociasse per la strada, la memoria che hai voluto conservare, per quanto possibile, fino all’ultimo, in questo modo, almeno, resterà nel ricordo di chi resta. Più grande della tua memoria, solo la tua forza d’animo, con cui hai voluto sperare fino all’ultimo, per amore della vita e delle persone che amavi, che un finale diverso fosse possibile. Quando è stato chiaro che non era così, hai preso quell’amore e tutto il coraggio di cui disponevi, che non era poco, era un bel peso da portare, ma senza pensarci troppo ne hai fatto un fagotto, come quello dei viandanti di un tempo, te lo sei caricato sulle spalle e sei partito per il tuo cammino, lasciando a chi restava la parte migliore di tutto quello che avevi dato e avuto.

Tu sei il mio uragano, amore mio, lascia che ti chiami ancora così, nonostante tutto, sapessi come è stato importante per me trovarmi lì mentre passavi, com’è stato importante vederti e cercare solo di capirti, senza fare altro, per potermi capire, raccogliere quell’infinito numero di ricordi che hai lasciato per cercare di non perdere mai la mia memoria. Ci sono molti modi di incontrarsi. La mia ricerca non è finita. Io sono sempre qui.

Nuovo Inizio

Anche quest’anno l’anniversario è passato e del resto io l’ho celebrato a modo mio. A me non servono gli anniversari, persino quello del mio matrimonio se lo ricordano meglio gli altri, e non è perché non m’importi, proprio l’opposto.

Gli omaggi resi a uno come te, poi, uno che è stato così incommensurabilmente vivo,  mi fanno quasi paura. Qualche film, sempre quelli, un paio di frasi a effetto, una battuta e il dovere è compiuto. Quant’era bravo, che peccato, eh, si sa, la tristezza dei comici, signora mia… Mi si digrignano i denti. Io la presenza e l’assenza delle persone che ho amato la vivo ogni giorno e la tua persino di più, forse perché dopotutto non ho bisogno di dimenticare per riprendere a vivere.

Tradisco i miei amori di terra per una finestra vista mare, sottraggo tempo e pensieri e loro lo sanno, forse questo non mi giustifica, ma non c’è giustificazione che tenga. Tradire me non posso.

Ho detto molto di quello che poteva essere giusto condividere qui, e anche  di più. Nel tempo ho lasciato ogni pudore, quel fondo di vergogna che ancora provo, a volte, quando mi trovo a parlare di te faccia a faccia con qualcuno. Ma ho smesso di nascondermi, di evitare di pronunciare il tuo nome, anche dirlo a chiare lettere è una forma di amore e di rispetto. Non sono l’unica a essere strana e comunque questa stranezza di cui un tempo mi sarei preoccupata, oggi l’ho molto cara. Le mie ragioni le conosco solo io, posso provare a spiegarle, è uno dei motivi del libro, ma restano comunque mie.

Per questo ho condiviso molto, fin troppo, il resto fa parte del libro e se entrerà qui, sarà in quella veste. Il libro… è come se adesso, scrivendo di te qui, mi allontanassi, ti sentissi più distante; non era così prima, in questo momento però è così, è il libro la cosa che mi fa sentire più vicina e ci sto girando intorno perché non è facile scavare dentro se stessi, chi può saperlo meglio di te? L’essenziale ha bisogno di tempo e se lo merita, quindi a quello voglio dedicarmi anima e corpo. Forse non riuscirò a rendere straordinaria la mia vita ma è sicuramente straordinario questo lasciarmi andare alle emozioni, tutte, nessuna esclusa, con sempre meno interesse per il limite del decoro, accogliendo tutte le capacità del mio cuore fino in fondo.

Ma basta celebrazioni, non hai voluto essere seppellito allora, dovremmo forse farlo adesso? Basta l’oceano a custodire memorie, il resto sono azioni, pensieri, arte, e si deve vivere.

Dopo giorni di tramonti, stamattina mi sono svegliata in tempo per vedere l’alba. Qualcosa di nuovo sta per iniziare. O ricominciare forse.

Orson         Mork, I know this may be painful, but tell me exactly how you felt when Mandy passed on.

Mork          Hm. Well I felt anger at first and anguish and a sense of deep loneliness.

Orson         I can’t even fully comprehend one emotion. All those emotions at once. It must cause insanity.

Mork          Well, it does at first, sir. Then after you have time to think, you realize the good side.
You realize that love can extend beyond universes and even beyond death.

/

Mork, so che potrebbe essere doloroso, ma dimmi esattamente cosa hai sentito quando Mandy è morta.

Ecco, rabbia, dapprima, e poi angoscia, e un senso di profonda solitudine

Non riesco neanche a comprenderne appieno una sola, tutte queste emozioni nello stesso momento, dev’essere una cosa da impazzire.

Sì, signore, in un primo momento succede. Poi, dopo che hai il tempo per pensarci, capisci che c’è un lato positivo. Ti rendi conto che l’amore può andare oltre gli universi, persino oltre la morte.
(Mork in Wonderland, da Mork e Mindy, seconda stagione 1° ep.)

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 15. Sepulveda

Le rose di Atacama          Sepúlveda è un autore che amo molto. Tra i suoi libri, questo è uno dei miei preferiti, se non il preferito, forse anche perché è stato il primo. Mi è stato regalato molti anni fa, e da lì mi è venuta voglia di leggere gli altri. Sono “storie marginali”, come le chiama l’autore, di eroi quotidiani, persone poco conosciute che fanno cose straordinarie solo per passione, senza clamore; o di eventi che restano nella memoria solo di chi li ha vissuti in prima persona, e di chi deciderà di leggere e sarà lì al momento giusto per cogliere lo spettacolo effimero di quei piccoli fiori rossi che sbocciano nel deserto per morire dopo poche ore. Le rose di Atacama, appunto. Un bellissimo libro.  In L’amore e la morte si parla di Zorba. Sì, il gatto di La gabbianella e il gatto. Che era anche un gatto realmente esistito, compagno amatissimo da tutta la famiglia dello scrittore. Per una di quelle coincidenze che ci emozionano di solito profondamente, a Zorba è stato diagnosticato un cancro incurabile proprio nel momento in cui Sepúlveda riceveva la prima copia del romanzo della Gabbianella appena uscito. E lui ha dovuto parlare ai suoi figli della morte. So che capirete questa citazione così lunga di un racconto tanto breve.

Ho lottato con le parole cercando quelle più adeguate per spiegare loro due terribili verità.

La prima era che Zorba, per una legge che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo accettare anche a spese del nostro orgoglio, sarebbe morto, come tutto e come tutti. La seconda era che dipendeva da noi evitargli una fine atroce e dolorosa, perché amare significa non soltanto fare la felicità dell’essere amato, ma anche evitargli le sofferenze e salvaguardare la sua dignità.

So che le lacrime dei miei figli mi accompagneranno per tutta la vita. Come mi sono sentito disgraziato, debole, davanti alla loro mancanza di difese. Come mi sono sentito miserabile davanti all’impossibilità di condividere la loro giusta ira, il loro rifiuto, il loro canto alla vita, le loro imprecazioni contro un Dio che per loro e solo per loro avrebbe trovato in me un credente, e anche davanti all’impossibilità di condividere le loro speranze, invocate con tutta la purezza degli uomini nel loro momento migliore.

La morale è un attributo o un’invenzione dell’umanità? Come potevo spiegare ai miei figli che avevo il dovere di salvaguardare la dignità e l’integrità di quell’esploratore di tetti, di quell’avventuriero dei giardini, terrore di ratti, scalatore di ippocastani, bullo di cortili al chiaro di luna, eterno abitante delle nostre conversazioni e dei nostri sogni?

Come potevo spiegare che ci sono malattie che hanno bisogno del calore e della compagnia dei sani, mentre altre sono solo un’agonia, solo un’indegna e terribile agonia, dove l’unico segno di vita è il veemente desiderio di morire?

E come rispondere al drastico “perché lui”? Il nostro compagno di passeggiate nella Selva Nera. Che gatto folle!, mormorava la gente quando lo vedeva correre accanto a noi oppure seduto sul portapacchi della bicicletta. Perché proprio lui? Il nostro gatto di mare che aveva navigato con noi su un veliero nelle acque del Kattegat. Il nostro gatto che, appena aprivo la portiera dell’auto, era il primo a salire, felice all’idea di viaggiare. Perché proprio lui? A che mi serviva aver vissuto tanto, se non sapevo rispondere a questa domanda?

Un nome da torero            L’avventura di un anomalo “investigatore” alla ricerca di un tesoro nascosto molto compromettente che è al tempo stesso, come sempre in Sepúlveda, l’occasione per parlare del suo Paese, di un passato pesante, di un’eredità impegnativa, del coraggio e della tentazione di rassegnarsi al “meno peggio”.

Incipit:

All’autista del Lucero de la Pampa si illuminarono gli occhi quando vide il cavaliere sul ciglio della strada. Erano cinque ore che teneva le pupille inchiodate sulla carreggiata diritta, e l’unica distrazione che ricordava erano un paio di nandù, che aveva spaventato col suo clacson stridente. Davanti aveva la strada. A sinistra la pampa coperta di graminacee e arbusti di calafate. A destra il mare, che attraversava col suo incessante mormorio d’odio lo Stretto di Magellano. Nient’altro.

Il cavaliere distava circa duecento metri e montava un matungo, un cavallo a lungo pelo che se ne stava lì a brucare l’erba. Il cavaliere era avvolto in un poncho nero che copriva anche i fianchi dell’animale, portava un cappello da gaucho con la tesa abbassata sugli occhi e non muoveva un muscolo.

Incontro d’amore in un paese in guerra     Ventiquattro racconti nel più puro “stile Sepúlveda”: la vita in tutti i suoi aspetti, mescolata alla politica in tutti i suoi aspetti. Che poi la politica è anche un aspetto della vita, naturalmente, e forse anche la vita è un aspetto della politica.

Da “Incontro d’amore in un paese in guerra”:

Erano già molti mesi che non abbracciavo un corpo tiepido, un corpo morbido, qualcuno che mi facesse domande, qualcuno che rispondesse alle mie. Era passato troppo tempo senza dare né ricevere un po’ di tenerezza. Il tempo giusto per trasformarsi in una bestia in mezzo alla guerra.

Una precisazione importante: la traduzione dallo spagnolo di tutti e tre libri è opera di Ilide Carmignani, traduttrice ormai “consolidata” ed espertissima, non solo di Sepúlveda ma di Garcia Márquez, Bolaño, Neruda, Borges e diversi altri.

Qualcosa che brucia (leggendo Bukowski)

Scrivo tanto. Oh, lo so. Ma appunto, c’è qualcosa che brucia dentro. Forte.

Succede, poi, di farci l’abitudine
a starsene un po’ in disparte,
un passo indietro, non troppo dentro alle cose
come a non avere più vento per andare.
Io avevo aperto la finestra e pensavo
che almeno un frammento di mondo
devi pur lasciarlo entrare, presto o tardi
Tutte queste strade, tutte queste stelle
disperse in innumeri cieli distratti
che lasciano volar via i pensieri
e restituiscono aquiloni colorati in volo.
Ma a che serve?
A che serve questo amore infinito ed eterno,
il riflesso tremulo del vento nelle foglie?
si piega come una canna docile il mio cuore
ma a che serve?
Potrei pregare per il sangue, la morte,
l’aria riempita della danza dei rapaci,
potrei gridare, oh, non passerebbe giorno
ma a che serve?
Preferisco non soffocare il riso, preferisco
far voto al sole di ridere per sempre in ogni luogo
di proteggere il mio piccolo spazio in cui vivo
la mia vita e morirò, lo spero, la mia morte
non la loro vita, non la loro morte
non il loro odio, né il loro amore
il mio amore, la mia rabbia, forse
il tuo amore, certo.
Scrivere, certo.
Che lo so io se non c’è qualcosa che mi brucia dentro.
Il tuo poeta, certo.
La tua bocca, la tua mente, le tue viscere, certo,
perché sono i miei
e serve, oh, lo so che serve
non agli altri, no, a nessun altro, a pochi, a qualcuno
ma serve
la tua vita, la mia vita, la tua morte, la mia morte
perché voglio morire nel tuo oceano, tremarti
come una piccola foglia sulle labbra
Questo mi serve.

Pensieri sulla vita (un po’ tristi ma…)

Ho messo insieme un po’ di pensieri e non so quanto nesso logico ci sia tra uno e l’altro. Diciamo che si sono presentati un po’ alla rinfusa, e alla  rinfusa ve li racconto.

Ieri mattina sono stata a un funerale. Un uomo giovane, padre di un bimbo piccolissimo. Una malattia che non perdona. Quelle cose che sappiamo che accadono e ogni volta vorremmo urlare che non dovrebbero succedere, che non è giusto, e ci ribelliamo, ma poi la vita non è giusta. Ci diciamo anche che questo dovrebbero spingerci a inseguire i sogni, a non avere paura, a non preoccuparci delle piccolezze, a ricordare le cose importanti. E già sappiamo che non lo faremo, o lo faremo in parte, perché non è vero che non curiamo le cose importanti, ma quest’uomo che è stato ricordato per il sorriso, per le mangiate con gli amici, per gli scherzi e la serietà sul lavoro, penso avesse capito che anche le piccolezze sono importanti. Vivere, va fatto col cuore, e col cuore ci arrabbiamo per i brutti voti a scuola, per la prima cotta non ricambiata, con il cuore soffriamo e siamo felici anche, a volte, per cose che poi non avrebbero tanta importanza, ma ce l’hanno perché sono nostre e finché siamo vivi anche le cose piccole ci toccano. La lavatrice che si guasta continuerà a renderci isterici anche se sappiamo che i problemi sono altri, una passeggiata in montagna o un’alba sul mare ci renderà felici anche se (o perché)  la vita finisce, ed è questo che rende importante viverla, davvero, questo può renderla non “giusta”, probabilmente, ma comunque “viva” in tutti i suoi piccoli istanti preziosi.

E mi chiedevo, allora… quando qualcuno muore, tutti noi cerchiamo, dopo il primo momento di lutto, di relegarlo in qualche angolo del cuore e della mente, ricordandolo tutto sommato sempre meno, solo occasionalmente, quando qualcosa, un odore, un sapore, un luogo, una frase ce lo riportano alla mente perché sono strettamente legati a quella persona. E’ questione di sopravvivenza in fondo, eppure mi chiedevo se nonostante le apparenze, non possa essere più di aiuto la memoria, invece. Scriverne, parlarne, insieme a mille altre cose, certo, perché non c’è dubbio che la vita debba andare avanti. Ma “avanti” è solo una direzione, quella direzione va riempita, di piante da coltivare, piatti da cucinare, bambini da portare e andare a riprendere all’asilo e poi a scuola e poi da accompagnare lungo la strada che prenderanno, amori di cui prendersi cura, lavori da fare, sogni da sognare. E memorie.

E qui vengo a un altro pensiero, chiedo scusa a chi pensa che l’accostamento sia inopportuno, o che le due cose siano troppo distanti per poterle accostare. Per me non lo sono. Perché semplicemente, gran parte di quello che ho imparato sulla vita, poco o tanto che sia, lo devo a lui.

Leggevo, sempre in questi giorni, che la figlia di Robin Williams non riesce ancora a rivedere i film del padre. Anche persone che non lo hanno conosciuto, ma che lo ammiravano, hanno la stessa difficoltà. Pensavo a come i suoi figli, tutti e tre, hanno vissuto la sua morte, il contrasto tra l’intensità fortissima del dolore che si legge nei loro gesti, nelle loro parole e nei loro silenzi, e la compostezza, mi viene da dire la consapevolezza che mostrano. Zelda ha la stessa dolcezza e la stessa luce negli occhi di suo padre e anche se non conosco né lei né i suoi fratelli, per quello che posso vedere del loro comportamento, che è sempre un aspetto limitato, certo, me ne rendo conto, però pensavo che per quello che traspare, la conferma migliore di tutto quello che continuo a credere della morte e soprattutto della vita di Robin Williams sono loro.

Se la nostalgia, il senso di mancanza e di perdita che quest’uomo ha lasciato sono così grandi in me e in milioni di altre persone che non lo conoscevano, cosa dovranno provare loro? Vorrei abbracciarla, abbracciarli tutti, stretti stretti, e per quanto sia difficilissimo e forse sbagliato entrare nel dolore degli altri, vorrei dire a lei, a loro, provate, provate a riguardarle, tutte le sue cose, l’inizio sarà duro, questo è certo, forse persino quasi insopportabile in alcuni momenti. Ma poi vedrete, sarà lui stesso a darvi conforto, perché è la cosa che lo ha reso così speciale, far stare bene gli altri. E’ come se tutto il suo lavoro fosse stato dedicato a darci un senso. Come esseri umani, intendo. Accipicchia se la sua vita è stata straordinaria e spettacolare, ma era la sua convinzione, la convinzione profonda, non solo a parole nella scena di un film, che tutti potessimo renderla tale, che ha cambiato la vita a così tante persone. E’ un pensiero un po’ confuso e il pensiero di una persona la cui vita si è intrecciata con la sua solo da molto, molto lontano. Però non so se sia vero solo per me, questo fatto magari un po’ paradossale, cioè che l’unico balsamo, l’unica cura possibile all’assenza sia viverla così a fondo da farla diventare presenza. Costante e incancellabile.

Ecco, se c’è un nesso è questo, questo amore che dura, perché davvero è la vita di una persona che dovrebbe restare nel nostro cuore, permetterci di non distaccarci, anzi, di entrare corpo e anima nel nostro dolore per poter poi superarlo non pensandoci di meno, ma pensandoci “meglio”, facendo sì che sia la costanza dell’amore e non l’affievolirsi del ricordo, a salvarci. Siamo tutti così abituati a pensare che dobbiamo “farcene una ragione”. Ma forse non è quello che davvero vogliamo, non è quello che ci fa stare bene. Può sembrare. Ma davvero poi è così? O il dolore non resta poi, silenzioso, a impregnare le nostre giornate senza che ne accorgiamo, proprio perché abbiamo tentato di scacciarlo?

Oh, io lo so che il mio è un amore ideale, quasi “letterario”, certo scriverne lo ha cambiato, e lo ha cambiato scriverne “in pubblico”. Immagino sia un po’ come quando uno deve fare leva sui propri sentimenti personali per rappresentare un’emozione di fronte a una telecamera o su un palcoscenico.

Quindi, si potrebbe dire, non è la stessa cosa.

Chi mi conosce e mi vuole bene però suggeriva, all’inizio, di pensarci meno, di non guardarli, i suoi film e i suoi spettacoli, le sue interviste, din non leggere gli articoli che lo riguardavano, perché sembrava che mi facessero stare più male. E io avevo dei dubbi, ma testardamente ho continuato, perché in quel male volevo immergermici, non per masochismo, anzi, perché in qualche modo sentivo dentro di me che era la cosa più “viva” che avessi. Perché la mia paura più grande era proprio che certe cose sbiadissero. E per questo, in gran parte scrivo e ho scoperto che sono molto più felice, oggi. Come dicevo qualche giorno fa, felicità significa per me prendere tutto quello che abbiamo avuto, che abbiamo, che siamo, tutto il nostro tempo, nel bene e nel male, e farne consapevolezza, capacità di essere noi stessi in ogni momento. Inutile dire che questo è stato uno degli insegnamenti più preziosi che abbia preso da lui.

E allora mi chiedo se dal momento che il dolore più grande lo proviamo per chi abbiamo amato di più, non sia proprio tenere ostinatamente quell’amore molto, molto presente in ogni aspetto della nostra vita, la cosa che può, alla fine, restituirci il senso.

[ho tolto il video perché non era quello giusto, non trovo quello di Mork in Wonderland, purtroppo, da cui è tratta questa scena]

Orson: Mork, I know this may be painful, but tell me exactly how you felt when Mandy passed on. (Mork, so che può essere doloroso, ma dimmi esattamente cosa hai provato quando Mandy   è morta)  [Nota: nella puntata Mork rimpiccioliva fino a trovarsi in una specie di mondo parallelo lillipuziano in cui ritrovava personaggi molto simili a coloro che conosceva, “miniaturizzati” e con nomi leggermente diversi]

Mork: Hm. Well I felt anger at first and anguish and a sense of deep loneliness. (Mmh, ecco, ho provato rabbia all’inizio, poi angoscia, e un profondo senso di solitudine).

Orson: I can’t even fully comprehend one emotion. All those emotions at once. It must cause insanity. [Non riesco a comprendere appieno neppure un’emozione alla volta. Tutte queste emozioni insieme, dev’essere una cosa da impazzire).

Mork Well, it does at first, sir. Then after you have time to think, you realize the good side. You realize that love can extend beyond universes and even beyond death. Till next week, sir. Nanu. (Beh, è così in un primo momento, signore, poi, dopo che hai avuto tempo di pensarci, cominci a vedere l’aspetto positivo. Ti rendi conto che l’amore può estendersi oltre gli universi e persino oltre la morte. Alla settimana prossima, signore. Na-nu).

 

Odisseo – (da: IL PAESE INFELICE – L’eroe nel mito e nella fiaba)

Tiepolo_Il cavallo di Troia

L’intelligenza, è stato detto, non è importante per gli eroi, almeno non per gli eroi greci. Non solo Eracle, ma quasi tutti gli eroi ellenici sembrano affetti da una sorta di “alta ottusità”, una goffaggine che si manifesta nei loro ripetuti errori e orrori, dagli assassinii spietati di Eracle alla fatale distrazione di Teseo che costa la vita a suo padre, alle ripetute violenze sulle donne. Non riescono ad andare oltre un ruolo ben definito, quello di uccisori di mostri: “quando l’eroe stesso riuscirà a spezzare la cornice del suo ruolo, senza abbandonarlo, quando imparerà a essere anche traditore, mentitore, seduttore, viaggiatore, naufrago, narratore, allora sarà Odisseo, allora alla sua prima vocazione, che è quella di sconfiggere tutto, se ne affiancherà una nuova: capire tutto”[1].

            Prima ancora di Odisseo, era stato Edipo “il più infelice tra gli eroi, e il più inerme”[2], il primo ad andare oltre quel ruolo prefissato. Edipo che uccide il mostro non con le armi, ma con la parola che precipita la Sfinge nel baratro. E rifiuta di toccarla. Questa è la grande differenza tra lui e gli eroi che lo hanno preceduto, ma anche la sua più grande debolezza. Egli non si riveste con la pelle del mostro, come Eracle, non ne raffigura l’immagine sullo scudo, come Perseo con la Gorgone, non porta con sé alcun talismano, rimane esposto, e per questo finirà cieco e mendico. La sua grande intuizione è che la parola possa laddove nessun’altra arma giunge; la sua grande debolezza è di non aver compreso che limitarsi a vincere il mostro, senza cercare il contatto con lui, senza identificarsi con lui e prenderne il posto, come Apollo con il Pitone, non basta: “La parola… rimane nuda, e solitaria, dopo la sua vittoria”.

            Ma Ulisse, Odisseo, è un eroe? Odisseo, che è appunto per noi la personificazione dell’astuzia, che vince i Troiani con il tradimento, anziché combattendo, ci diventa più simpatico nell’Odissea, quando diviene il simbolo di quella sete di conoscenza che già Omero, molto prima di Dante, aveva contrapposto al “viver come bruti”, punendo la rozza ignoranza dei suoi compagni con la trasformazione in porci ad opera di Circe. E nell’Odissea Ulisse deve, questa volta sì, adoperare le proprie virtù eroiche, combattere contro i mostri, rinfrancarsi e lasciarsi allettare dal canto delle sirene come dalla bellezza delle donne che incontra, ma tenendo sempre viva la fiamma dell’amore più domestico per la fedele moglie Penelope.

            E tuttavia egli rimane pur sempre il “re degli inganni” che tanto Agamennone come Achille disprezzavano: probabile derivato di una tradizione che ne faceva prima di Omero un personaggio negativo. Si raccontavano di lui azioni ripugnanti: l’inganno con cui indusse Clitemnestra a lasciargli portar via la figlia Ifigenia fu solo una di queste azioni certo poco “eroiche”. La menzogna più orribile egli l’architettò contro Palamede, uno dei compagni di battaglia. Palamede era colpevole di aver smascherato l’inganno con cui Odisseo aveva cercato di sottrarsi alla guerra. Egli aveva finto di essere pazzo, aveva legato all’aratro un bue e un cavallo, si era messo un copricapo da essere primordiale fallico, e in questa strana tenuta si era dato a fingere di dissodare i suoi campi. Ma Palamede aveva messo davanti all’aratro il figlio di Odisseo, Telemaco, e il padre non poté continuare l’inganno. La sua vendetta fu atroce: un giorno, tempo dopo, introdusse nella tenda di Palamede dell’oro e una falsa lettera di Priamo, perché fosse accusato di tradimento. Così infatti si verificò, e Palamede fu lapidato dai suoi stessi compagni.

            Incapace di affrontare il nemico a viso aperto, egli evita con tutte le sue forze di diventare, come Achille, un “eroe tragico”: è l’antitesi dell’eroe romantico. Come aveva vinto i Troiani nascondendosi nel cavallo di legno, affronta le Sirene evitandone il pericolo grazie allo stratagemma suggeritogli da Circe, e uccide i Proci dopo essersi mascherato da mendicante[3]. Sembra suo destino indossare sempre una maschera, e quando dà ad intendere a Polifemo di chiamarsi “Nessuno” non fa altro che indossare la maschera più estrema: egli infatti è il “polimorfo”, l’uomo dalla mente variopinta, multiforme e metamorfico come Ermes e chi può essere chiunque, alla fine, è “Nessuno”.

            A dire la verità, Ulisse è un eroe “sui generis”: il suo tempo non è il tempo eroico degli Achei, le sue qualità sono quelle di un uomo “domestico”. Egli rappresenta due cose più di ogni altra: l’amore per la conoscenza e l’amore per la casa, la nostalgia della propria terra e dei propri cari. Quando gli tocca combattere, non lo fa certo alla maniera di Achille: i due del resto sono diversi come il giorno dalla notte, e non si comprendono affatto: tanto è diretto, “veritiero”, istintivo e passionale Achille, tanto Ulisse è razionale, infido, doppio, subdolo e freddo, perfino quando rischia la vita, come appunto nell’impresa del cavallo di Troia. A questa sua natura Achille si riferiva quando, senza nominarlo, gli mostrava tutto il suo disprezzo: “odioso come le porte dell’Ade è per me quell’uomo che una cosa nasconde nel cuore e un’altra ne dice”[4].

            E Aiace, l’eroe solitamente svelto di mano più che di mente, diventa perfino eloquente, quasi quanto lo stesso Ulisse, quando l’indignazione lo coglie per dover contendere proprio a lui le armi di Achille: “proprio Ulisse mi si vuole paragonare! … Certo è più sicuro contendere con parole menzognere che combattere con la mano! Ma io non sono portato all’eloquenza, come costui non è portato all’azione…. Comunque io non credo di dovermi mettere a ricordare a voi le mie imprese, o Pelasgi; le avete viste coi vostri occhi. Ulisse piuttosto racconti le gesta sue, gesta che compie quando nessuno vede, di cui solo la notte è testimone. Riconosco che grande è l’onore a cui aspiro. Ma l’onore è sminuito dal mio avversario: Aiace non può essere orgoglioso di ottenere una cosa, sia pure grande, sperata da Ulisse”[5]. Il soldato rinfaccia all’uomo astuto la sua astuzia; l’irruente non può sopportare gli inganni, che il “facondo Ulisse” mette in atto non solo contro i nemici, ma anche contro i suoi: l’infame azione che portò alla condanna di Palamede, il vile abbandono di Filottete ferito sull’isola di Lemno. Ma proprio per questo Ulisse finirà per ottenere le armi. La sua è la vittoria della parola, dell’intelligenza contro la forza, sì, ma anche dell’opportunismo contro l’onestà senza compromesso. Perché, è vero, Ulisse ha compiuto tutte quelle missioni nelle quali c’era bisogno dello scaltro diplomatico. Ma, soprattutto: “Se io ho commesso un’infamia accusando falsamente Palamede, voi avete fatto una bella cosa? … Quando al fatto che il figlio di Peante [Filottete] si trovi a Lemno, isola di Vulcano, anche qui è ingiusto farmi responsabile. Giustificatela voi, quest’azione vostra; e infatti voi deste il vostro consenso”[6]. Insomma, Ulisse respinge le accuse reclamando che vengano condivise da tutti. Colpa di tutti, colpa di nessuno. Forse le armi gli vengono alla fine concesse per la sua utilità nel condurre a buon fine difficili opere di convincimento; forse. Ma forse, invece, è stata la sua abilità nel far credere agli altri che, condannando lui per le sue azioni riprovevoli, avrebbero condannato se stessi. E allora, la vittoria è sua, le armi sono sue, e Aiace, sconfitto e furioso, si uccide.

            Anche Ulisse è tra gli eroi greci uno dei più umani, nel bene e nel male. Talvolta ha quegli scatti appassionati e velleitari che lo inducono a prendere le armi contro Scilla, quando dovrebbe sapere che nulla si può con le armi nel mondo dei mostri, oppure a gridare il suo nome a Polifemo dopo averglielo nascosto, dimenticando che nel mondo “di là” è meglio tacere. Talvolta si ribella contro il destino che gli strappa i compagni ad uno ad uno, benché sia consapevole della vanità dei suoi sforzi. La sua intelligenza non arriva a comprendere il “mondo di là” e le sue leggi, non intuisce che né il coraggio né l’astuzia possono nulla contro le forze primordiali di Polifemo o di Scilla, e questa è una delle ragioni delle sue sventure e di quelle dei suoi compagni. L’unica cosa che lo aiuta è allora la sua pazienza, la fede incrollabile che nonostante tutto ha ancora negli dei, la rassegnazione[7]. E questi sono forse i momenti in cui lo amiamo di più.

            Per molti aspetti lo si potrebbe definire un “anti-eroe”. Tuttavia, il protagonista dell’Odissea ha, molto più dello stesso personaggio nell’Iliade, diversi elementi che possono caratterizzarlo come eroe, la pazienza, l’audacia, ma più di tutto la capacità di accedere all’aldilà. E questa volta Ulisse, cui certo non difetta l’amore per l’avventura, per lo meno intesa come ricerca, viaggio per la conoscenza, rimane sgomento, angosciato, non vorrebbe andare. Se Teseo va tra i morti con la tracotanza di voler rapire anche la loro Regina, come se Persefone non fosse che una qualsiasi fanciulla da sedurre, con l’incoscienza di chi non ha (apparentemente almeno) paura di nulla, Ulisse affronta il viaggio in modo ben diverso. Si avvicina di più a Eracle, in questo, e diviene il precursore di quello che qualcuno dice essere anche più eroe degli altri: l’uomo che affronta i rischi non per sfida e temeraria passione, ma consapevole della propria fragilità e delle proprie angosce, e che tuttavia accetta di cercare di superare i limiti che questa fragilità e queste angosce gli imporrebbero, per qualcosa che ne valga la pena. L’aspetto forse più grande della condizione umana.

            Ulisse, che ama la vita sopra ogni cosa, e non comprende il regno della morte, e piange quando gli viene imposto di scendere nell’Ade, cerca di convincere prima di tutto se stesso, quando, incontrando Achille, crede che sia un privilegio poter essere onorato anche dopo la morte, poter dominare tra i defunti come “il più valoroso”.

            Ma Achille, l’unico tra gli eroi greci a non avere paura di guardare le cose in faccia sempre, di chiamarle col loro nome, anche la morte, ha il coraggio (e l’onestà) intellettuale di ammettere ciò che Ulisse, il troppo umano, non voleva accettare: la morte è il niente, ed è meglio essere servo di un bracciante senza terra, ma vivo, che dominare una schiera di ombre.

            In questo modo così profondamente diverso, Ulisse e Achille affermano la stessa verità: tutto ciò che è importante è la vita, il regno delle ombre cancella tutto, non esiste il regno dei Beati, quella bella immagine di cui la civiltà eroica aveva cercato di circondare la morte[8].

[1]R. Calasso, op. cit., pp. 361-362

[2]Ibidem, pp. 384-85

[3]P. Citati, op. cit., p. 205

[4]P. Citati, op. cit., p. 229

[5]Ovidio, Metamorfosi, op. cit., p. 503

[6]Ibidem, p. 519

[7]P. Citati, op. cit., pp. 167-68

[8]P. Citati, op. cit., p. 198