
L’intelligenza, è stato detto, non è importante per gli eroi, almeno non per gli eroi greci. Non solo Eracle, ma quasi tutti gli eroi ellenici sembrano affetti da una sorta di “alta ottusità”, una goffaggine che si manifesta nei loro ripetuti errori e orrori, dagli assassinii spietati di Eracle alla fatale distrazione di Teseo che costa la vita a suo padre, alle ripetute violenze sulle donne. Non riescono ad andare oltre un ruolo ben definito, quello di uccisori di mostri: “quando l’eroe stesso riuscirà a spezzare la cornice del suo ruolo, senza abbandonarlo, quando imparerà a essere anche traditore, mentitore, seduttore, viaggiatore, naufrago, narratore, allora sarà Odisseo, allora alla sua prima vocazione, che è quella di sconfiggere tutto, se ne affiancherà una nuova: capire tutto”[1].
Prima ancora di Odisseo, era stato Edipo “il più infelice tra gli eroi, e il più inerme”[2], il primo ad andare oltre quel ruolo prefissato. Edipo che uccide il mostro non con le armi, ma con la parola che precipita la Sfinge nel baratro. E rifiuta di toccarla. Questa è la grande differenza tra lui e gli eroi che lo hanno preceduto, ma anche la sua più grande debolezza. Egli non si riveste con la pelle del mostro, come Eracle, non ne raffigura l’immagine sullo scudo, come Perseo con la Gorgone, non porta con sé alcun talismano, rimane esposto, e per questo finirà cieco e mendico. La sua grande intuizione è che la parola possa laddove nessun’altra arma giunge; la sua grande debolezza è di non aver compreso che limitarsi a vincere il mostro, senza cercare il contatto con lui, senza identificarsi con lui e prenderne il posto, come Apollo con il Pitone, non basta: “La parola… rimane nuda, e solitaria, dopo la sua vittoria”.
Ma Ulisse, Odisseo, è un eroe? Odisseo, che è appunto per noi la personificazione dell’astuzia, che vince i Troiani con il tradimento, anziché combattendo, ci diventa più simpatico nell’Odissea, quando diviene il simbolo di quella sete di conoscenza che già Omero, molto prima di Dante, aveva contrapposto al “viver come bruti”, punendo la rozza ignoranza dei suoi compagni con la trasformazione in porci ad opera di Circe. E nell’Odissea Ulisse deve, questa volta sì, adoperare le proprie virtù eroiche, combattere contro i mostri, rinfrancarsi e lasciarsi allettare dal canto delle sirene come dalla bellezza delle donne che incontra, ma tenendo sempre viva la fiamma dell’amore più domestico per la fedele moglie Penelope.
E tuttavia egli rimane pur sempre il “re degli inganni” che tanto Agamennone come Achille disprezzavano: probabile derivato di una tradizione che ne faceva prima di Omero un personaggio negativo. Si raccontavano di lui azioni ripugnanti: l’inganno con cui indusse Clitemnestra a lasciargli portar via la figlia Ifigenia fu solo una di queste azioni certo poco “eroiche”. La menzogna più orribile egli l’architettò contro Palamede, uno dei compagni di battaglia. Palamede era colpevole di aver smascherato l’inganno con cui Odisseo aveva cercato di sottrarsi alla guerra. Egli aveva finto di essere pazzo, aveva legato all’aratro un bue e un cavallo, si era messo un copricapo da essere primordiale fallico, e in questa strana tenuta si era dato a fingere di dissodare i suoi campi. Ma Palamede aveva messo davanti all’aratro il figlio di Odisseo, Telemaco, e il padre non poté continuare l’inganno. La sua vendetta fu atroce: un giorno, tempo dopo, introdusse nella tenda di Palamede dell’oro e una falsa lettera di Priamo, perché fosse accusato di tradimento. Così infatti si verificò, e Palamede fu lapidato dai suoi stessi compagni.
Incapace di affrontare il nemico a viso aperto, egli evita con tutte le sue forze di diventare, come Achille, un “eroe tragico”: è l’antitesi dell’eroe romantico. Come aveva vinto i Troiani nascondendosi nel cavallo di legno, affronta le Sirene evitandone il pericolo grazie allo stratagemma suggeritogli da Circe, e uccide i Proci dopo essersi mascherato da mendicante[3]. Sembra suo destino indossare sempre una maschera, e quando dà ad intendere a Polifemo di chiamarsi “Nessuno” non fa altro che indossare la maschera più estrema: egli infatti è il “polimorfo”, l’uomo dalla mente variopinta, multiforme e metamorfico come Ermes e chi può essere chiunque, alla fine, è “Nessuno”.
A dire la verità, Ulisse è un eroe “sui generis”: il suo tempo non è il tempo eroico degli Achei, le sue qualità sono quelle di un uomo “domestico”. Egli rappresenta due cose più di ogni altra: l’amore per la conoscenza e l’amore per la casa, la nostalgia della propria terra e dei propri cari. Quando gli tocca combattere, non lo fa certo alla maniera di Achille: i due del resto sono diversi come il giorno dalla notte, e non si comprendono affatto: tanto è diretto, “veritiero”, istintivo e passionale Achille, tanto Ulisse è razionale, infido, doppio, subdolo e freddo, perfino quando rischia la vita, come appunto nell’impresa del cavallo di Troia. A questa sua natura Achille si riferiva quando, senza nominarlo, gli mostrava tutto il suo disprezzo: “odioso come le porte dell’Ade è per me quell’uomo che una cosa nasconde nel cuore e un’altra ne dice”[4].
E Aiace, l’eroe solitamente svelto di mano più che di mente, diventa perfino eloquente, quasi quanto lo stesso Ulisse, quando l’indignazione lo coglie per dover contendere proprio a lui le armi di Achille: “proprio Ulisse mi si vuole paragonare! … Certo è più sicuro contendere con parole menzognere che combattere con la mano! Ma io non sono portato all’eloquenza, come costui non è portato all’azione…. Comunque io non credo di dovermi mettere a ricordare a voi le mie imprese, o Pelasgi; le avete viste coi vostri occhi. Ulisse piuttosto racconti le gesta sue, gesta che compie quando nessuno vede, di cui solo la notte è testimone. Riconosco che grande è l’onore a cui aspiro. Ma l’onore è sminuito dal mio avversario: Aiace non può essere orgoglioso di ottenere una cosa, sia pure grande, sperata da Ulisse”[5]. Il soldato rinfaccia all’uomo astuto la sua astuzia; l’irruente non può sopportare gli inganni, che il “facondo Ulisse” mette in atto non solo contro i nemici, ma anche contro i suoi: l’infame azione che portò alla condanna di Palamede, il vile abbandono di Filottete ferito sull’isola di Lemno. Ma proprio per questo Ulisse finirà per ottenere le armi. La sua è la vittoria della parola, dell’intelligenza contro la forza, sì, ma anche dell’opportunismo contro l’onestà senza compromesso. Perché, è vero, Ulisse ha compiuto tutte quelle missioni nelle quali c’era bisogno dello scaltro diplomatico. Ma, soprattutto: “Se io ho commesso un’infamia accusando falsamente Palamede, voi avete fatto una bella cosa? … Quando al fatto che il figlio di Peante [Filottete] si trovi a Lemno, isola di Vulcano, anche qui è ingiusto farmi responsabile. Giustificatela voi, quest’azione vostra; e infatti voi deste il vostro consenso”[6]. Insomma, Ulisse respinge le accuse reclamando che vengano condivise da tutti. Colpa di tutti, colpa di nessuno. Forse le armi gli vengono alla fine concesse per la sua utilità nel condurre a buon fine difficili opere di convincimento; forse. Ma forse, invece, è stata la sua abilità nel far credere agli altri che, condannando lui per le sue azioni riprovevoli, avrebbero condannato se stessi. E allora, la vittoria è sua, le armi sono sue, e Aiace, sconfitto e furioso, si uccide.
Anche Ulisse è tra gli eroi greci uno dei più umani, nel bene e nel male. Talvolta ha quegli scatti appassionati e velleitari che lo inducono a prendere le armi contro Scilla, quando dovrebbe sapere che nulla si può con le armi nel mondo dei mostri, oppure a gridare il suo nome a Polifemo dopo averglielo nascosto, dimenticando che nel mondo “di là” è meglio tacere. Talvolta si ribella contro il destino che gli strappa i compagni ad uno ad uno, benché sia consapevole della vanità dei suoi sforzi. La sua intelligenza non arriva a comprendere il “mondo di là” e le sue leggi, non intuisce che né il coraggio né l’astuzia possono nulla contro le forze primordiali di Polifemo o di Scilla, e questa è una delle ragioni delle sue sventure e di quelle dei suoi compagni. L’unica cosa che lo aiuta è allora la sua pazienza, la fede incrollabile che nonostante tutto ha ancora negli dei, la rassegnazione[7]. E questi sono forse i momenti in cui lo amiamo di più.
Per molti aspetti lo si potrebbe definire un “anti-eroe”. Tuttavia, il protagonista dell’Odissea ha, molto più dello stesso personaggio nell’Iliade, diversi elementi che possono caratterizzarlo come eroe, la pazienza, l’audacia, ma più di tutto la capacità di accedere all’aldilà. E questa volta Ulisse, cui certo non difetta l’amore per l’avventura, per lo meno intesa come ricerca, viaggio per la conoscenza, rimane sgomento, angosciato, non vorrebbe andare. Se Teseo va tra i morti con la tracotanza di voler rapire anche la loro Regina, come se Persefone non fosse che una qualsiasi fanciulla da sedurre, con l’incoscienza di chi non ha (apparentemente almeno) paura di nulla, Ulisse affronta il viaggio in modo ben diverso. Si avvicina di più a Eracle, in questo, e diviene il precursore di quello che qualcuno dice essere anche più eroe degli altri: l’uomo che affronta i rischi non per sfida e temeraria passione, ma consapevole della propria fragilità e delle proprie angosce, e che tuttavia accetta di cercare di superare i limiti che questa fragilità e queste angosce gli imporrebbero, per qualcosa che ne valga la pena. L’aspetto forse più grande della condizione umana.
Ulisse, che ama la vita sopra ogni cosa, e non comprende il regno della morte, e piange quando gli viene imposto di scendere nell’Ade, cerca di convincere prima di tutto se stesso, quando, incontrando Achille, crede che sia un privilegio poter essere onorato anche dopo la morte, poter dominare tra i defunti come “il più valoroso”.
Ma Achille, l’unico tra gli eroi greci a non avere paura di guardare le cose in faccia sempre, di chiamarle col loro nome, anche la morte, ha il coraggio (e l’onestà) intellettuale di ammettere ciò che Ulisse, il troppo umano, non voleva accettare: la morte è il niente, ed è meglio essere servo di un bracciante senza terra, ma vivo, che dominare una schiera di ombre.
In questo modo così profondamente diverso, Ulisse e Achille affermano la stessa verità: tutto ciò che è importante è la vita, il regno delle ombre cancella tutto, non esiste il regno dei Beati, quella bella immagine di cui la civiltà eroica aveva cercato di circondare la morte[8].
[1]R. Calasso, op. cit., pp. 361-362
[2]Ibidem, pp. 384-85
[3]P. Citati, op. cit., p. 205
[4]P. Citati, op. cit., p. 229
[5]Ovidio, Metamorfosi, op. cit., p. 503
[6]Ibidem, p. 519
[7]P. Citati, op. cit., pp. 167-68
[8]P. Citati, op. cit., p. 198