PADRI

Le cose che volano,
come la polvere che siamo
portano messaggi al cielo in altre lingue,
un canto d’ali che freme
tra le scapole e il cuore.
Penso a te, padre mio:
raccontami come stai,
come si vive camminando su una fune
trasportando paglia per il nido
da uno spazio a un altro.
E penso a tutti i padri che mi sono costruita,
che ho immaginato e scritto;
i padri d’albero e di lingua,
di casa e di viaggio e di mani e piedi
di penna e di spada, di tenebra e colore.
I padri dei miei libri, della mia voglia inaffermata,
delle cose inanimate che prendono vita
nella mia testa scarruffata
e di quelle che muoiono piano, sottovoce,
perdute senza far rumore e senza drammi.
Padri miei di cielo e terra, oggi
vi amo tutti ad uno ad uno
nella mia lingua, l’unica che so.
Vi sono debitrice di queste pagine di fuoco,
dell’ombra del gatto tra le tende,
degli sbagli scintillanti che ho adoperato ad ogni bivio
perché di andare dritti non è il caso
e per diverse che siano le mie e le vostre ali
tutto quello che vola si somiglia
della mia lingua d’albero voi siete i rami
della mia casa siete le mani e la penna
e siete la voglia dei miei libri, la spada
di tutto quello che non fa rumore,
la terra dove si ritrovano
tutte le cose perdute.

Lingua padre

Di questo cielo che mi attraversa come un fulmine improvviso
resta la luce impietosa del vetro delle auto
che avvizzisce la mia carne per il tempo
trascorso a offuscare i finestrini con il fiato.
Ho attraversato
un abbandono di spine,
un abbandono di foresta;
e ora non ho più scuse per non tornare
all’uovo delle origini
a quel ponte che unisce ad ogni inizio la sua fine.
Mi resta la tua lingua
lingua padre,
lingua di alberi,
cortecce riarse;
ombrello aperto alle raffiche di fuoco
che làncinano la mia casa di sale fino alle radici.
Vedi, ho scoperto una nuova parola:
ma potrò usarla, dici?
Raccontami dell’ultima volta
che ti sei spaccato la schiena per la parola giusta
limando le frasi con le unghie, dimmi
se ti sei addugliato come le spire dei cavi nautici
quando la solitudine della polvere non ti bastava
e volesti abbattere a mani nude
la congiura del silenzio che fa deragliare i muri.
Dimmi:
ti sei spinto a guardare il mare dagli ulivi,
dalle coste dei monti, dove è troppo freddo
per far crescere il grano, ma il mare
si vede ancora?

Sto leggendo…

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Libro amaro, rabbioso, ribelle, commovente, umano, sarcastico. Dalle radici ebreo-ortodosse a una vera e propria battaglia con Dio, conflitto-riavvicinamento-messa in discussione costante che ha molti elementi in comune con il rapporto padre-figlio, o forse più ancora il rapporto di un uomo adulto con il sé stesso padre e il sé stesso bambino represso e oppresso. Dietro ogni ironia, ogni battuta c’è un senso di profonda ingiustizia che colpisce allo stomaco, la consapevolezza del rischio di perdersi, ma anche la consapevolezza della possibilità di trovarsi, anche usando la stessa rabbia in modo diverso, in mezzo a un labirinto di esperienze, immaginarie e reali, di letture e scritture, di incontri e di scontri che conducono a superare in qualche modo quel senso di ingiustizia, sapendo che ha lasciato segni ma anche che si può sempre andare oltre.

Cominciavo a sentirmi anch’io un po’ come un prepuzio. […] Reciso dal mio passato, incerto sul mio futuro, insanguinato, pestato, buttato via. Mi chiesi se esistesse un posto dove i prepuzi possono andare, un posto in cui possono vivere insieme in pace, amati, voluti, una nazione di prepuzi, fatta dai prepuzi, per i prepuzi. (Shalom Auslander, il lamento del prepuzio, Guanda).

IL BOSCO – Capitolo 1 – IV

IV

“Suonano, Elisa, puoi andare tu per favore?”

Elisa si alzò di malavoglia; stava leggendo Piccole Donne, sbuffando lo gettò sul letto, aperto così com’era, senza curarsi affatto che non si rovinasse, e andò verso la porta lentamente, a passi strascicati. Non era certo difficile immaginare chi potesse essere, e non migliorò il suo umore il fatto di averci azzeccato.  Fabrizio era là, davanti al cancelletto d’ingresso al giardino, aspettando nella pioggia. Doveva esserci un vero e proprio acquazzone là fuori, a giudicare dallo stato in cui era ridotto. I capelli gocciolanti, la camicia fradicia, larghe chiazze scure sui pantaloni dalle ginocchia in giù. Aveva un grosso sacchetto in una mano, un vaso di margherite nell’altra e in qualche modo, non era ben chiaro come, riusciva anche a tenere in equilibrio un ombrello aperto, peraltro del tutto inutile a quanto pareva. Elisa ebbe l’impulso di lasciarlo lì sotto l’acqua ancora un po’, lui e il suo sacco e le margherite e tutto quanto. D’altra parte non sarebbe servito comunque. La pioggia sembrava non sentirla neppure, non dava nessun segno d’impazienza o di disagio. Era perfettamente se stesso, come sempre. Lei premette il pulsante che apriva sia il cancelletto che il portone.

Fabrizio entrò in casa e posò uno dei sacchetti per chiudere l’ombrello, mentre l’acqua che grondava da ogni parte di lui e delle cose che aveva in mano formava una pozza sul pavimento. Ben ti sta, pensò lei. Lo guardò con intenzione, aspettando di vedere cosa avrebbe detto, come avrebbe giustificato la figura ridicola che stava facendo.

“Ho-ho”, disse lui, come un Babbo Natale in anticipo, l’allegria che gli danzava nello sguardo. “Ciao Elisa”, aggiunse, poi attaccò a cantare Singing in the Rain.

Elisa ricordò il moto di simpatia che aveva provato per lui fin dalle prime volte che veniva a cena ed ebbe la tentazione di scoppiare a ridere, ma la scacciò.

“Patetico”, borbottò invece, andando a cercare sua madre.

Lei stava finendo di prepararsi ed era più attraente che mai, i capelli biondi che quasi brillavano sotto i colpi di spazzola, gli occhi verdi luminosi, un abito color prugna che le aveva visto indossare molto raramente, benché sembrasse addirittura esaltare la sua femminilità, già di per sé piuttosto pronunciata. La sua bella madre. E la sua bella sorella. Mentre lei, lei era quella che purtroppo non aveva i capelli biondi, né gli occhi chiari, quella che purtroppo doveva portare gli occhiali, quella che si vestiva male e si pettinava peggio. La mamma, invece… alla sua età!  Un attimo dopo si trovò avvolta nella scia del profumo Dior preferito di sua madre. Aveva sempre amato quel profumo. Ma le venne da pensare a suo padre, al suo bilocale, alla cameretta arredata apposta per loro, che stava lì solo per aspettare le loro visite, e si sentì mordere il cuore da un istinto feroce.

“Di là c’è il tuo boyfriend”, annunciò.

Prima ancora che irritata, Viviana fu stupefatta dal tono aggressivo della sua voce. Naturalmente Elisa non era mai stata un modello di buone maniere come Cristina, ma l’aperta maleducazione era una cosa diversa. Non era contemplata in casa sua. Le diede uno dei suoi sguardi più temibili, uno di quelli che soffocavano sul nascere qualunque minima trasgressione. Questa volta non parve avere un grande effetto. Elisa rimase in silenzio, e continuava ad esservi un’aura ostile intorno a lei.

“Elisa?!” Disse Viviana. C’era nel suo tono un’aperta riprovazione e l’attesa esplicita di spiegazioni convincenti.

“Già. Sì. Scusa mamma”.

Fabrizio tirò fuori dal sacco due pacchetti piuttosto voluminosi e li porse a Cristina ed Elisa.

“Questi sono per voi”.

Cristina prese il pacco, ringraziò con un sorriso, ma sembrava un po’ a disagio. Elisa lo guardò senza prenderlo, ringraziò perché non poteva farne a meno, prese tutto il tempo che poteva per decidere se aprirlo o no.

“Non preoccupatevi, non costano abbastanza da poter comprare il vostro affetto”, disse Fabrizio, e nonostante il tono leggero, i suoi occhi erano molto seri.

“Fabrizio!”

“Vi, andiamo, diciamo le cose come stanno. La famiglia come loro l’hanno sempre conosciuta non c’è più. Al suo posto c’è qualcosa che probabilmente non sanno neanche come chiamare, e quanto a me, non mi conoscono quasi, sono solo un estraneo che viene troppo spesso a cena e che è in parte responsabile della confusione in cui si trovano. Se mi accusano solo di voler cercare di comprarmi il loro affetto, mi riterrò molto fortunato”.

Elisa pensò che la cosa più curiosa era che almeno a lei, l’idea che lui potesse cercare di fare qualcosa del genere non l’aveva neppure sfiorata. Ma il resto di quello che lui aveva detto era tutto vero.

Cristina aveva sorriso con aria più distesa e ora stava slacciando pazientemente il fiocco per aprire la confezione senza strappare la carta, che avrebbe conservato con cura per altre occasioni. Sicuramente l’avrebbe usata per fasciare un altro regalo o avrebbe ritagliato i gattini stampati per decorare qualcosa. Elisa pensò che quei gattini erano proprio melensi, ma sapeva che a Cristina sarebbero piaciuti. Guardò la sua carta aspettandosi che fosse uguale, ma suo malgrado incuriosita: era decorata con dei velieri, invece. Sembrava quasi che Fabrizio conoscesse i loro gusti e questo aumentò la sua irritazione, forse perché era difficile capire come facesse. La mamma aveva raramente indovinato un regalo per loro, per non parlare delle confezioni, e quanto a papà, lui non si era praticamente mai occupato dei regali, non lo considerava compito suo. Scrollò le spalle, dicendosi che la carta non significava niente.

Cristina nel frattempo era finalmente riuscita a districare tutti i nodi, a salvare la preziosa carta e a vedere cosa c’era dentro. Un puzzle. Sì, decisamente Cristina era un tipo da puzzle. Elisa pregò che Fabrizio avesse comprato un puzzle anche per lei, così avrebbe potuto dirgli di nuovo grazie, mostrandogli chiaramente con gli occhi la sua delusione, e poi chiuderlo in un armadio e non pensarci più. Ma aveva già capito che non sarebbe stato così. Strappò la carta, lo faceva sempre, ma questa volta se ne pentì subito, perché era così bella, e si sentì ancora più infuriata. Pattini. Come diavolo aveva fatto a… era una vita che li sognava. Guardò la faccia di sua madre e avrebbe quasi potuto perdonare Fabrizio, solo per l’espressione che le vide in volto. Cose da ragazzacci, le aveva sempre risposto quando aveva osato affrontare l’argomento. Glieli avrebbe lasciati usare, ora che a regalarglieli era stato Fabrizio? E lei avrebbe voluto usarli? Come si permetteva lui di entrare così nella loro testa? Forse aveva persino frugato tra le sue scarpe, per trovare i pattini della misura giusta. O aveva indovinato solo guardando i suoi piedi?

Le parve che tutto quello che si agitava nella sua mente si fosse come materializzato; paura, rabbia, tenerezza, confusione, amore, odio, tutti quei nomi astratti erano diventati concreti, si potevano vedere e toccare, avevano preso la forma esatta, il peso, la durezza del materiale di cui quei pattini erano fatti. Non avrebbe saputo dire se questo era un bene o un male.

“Beh, grazie”, disse, con lo sguardo fisso a terra. “Sono belli. Però no, non basteranno a comprare il mio affetto.” Adesso aveva alzato gli occhi e vi si leggeva una sicurezza ostentata, a mascherare la paura di non sapere lei stessa, per la prima volta in vita sua, cosa davvero pensava.

“Elisa, vergognati”, disse sua madre. E come tante altre volte era successo e sarebbe successo ancora, quel tono le fece dimenticare la vergogna che forse c’era, le fece sentire l’ira bruciarle lo stomaco e salirle fino al viso.

“No, no – disse Fabrizio, – non c’è niente di cui vergognarsi. Avete tutto il diritto di arrabbiarvi, di pensare di me tutto il male che volete, anche di urlarmelo in faccia se vi serve. Dopotutto un’amicizia si costruisce anche così, sempre se e quando vorrete provarci”.

Nessuna delle due rispose, ma in entrambe adesso si agitavano pensieri, incertezze, domande alle quali avevano creduto di aver già dato una risposta, ma era una risposta che adesso suonava falsa alle loro stesse orecchie.