Radici

Come vivono le radici? | ILSA GROUP
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Ogni tanto ci torno sopra… scrivo, e poi riedito, sempre alla ricerca di onestà, che quando si scrive è cosa del tutto diversa dalla verità, credo; rieditare la propria memoria, il racconto di una vita, è cosa delicata, ma va fatto. Perché bisogna essere onesti non solo nel ricordare, ma anche nel raccontare quei ricordi a chi non c’era. E dopo tutto, anche a chi c’era, ma ricorda in modo diverso. Perché la memoria, lo sappiamo bene, è soggettiva, e paradossalmente fragile, per un oggetto da cui traiamo la nostra forza.

Sono nata alle dieci di un mattino di quasi estate, non è mai stato ben chiaro se in anticipo o in ritardo.

Nel dubbio, il dottore salì con le ginocchia sulla pancia di mia madre per costringermi a uscir fuori. Metodo drastico, allora non del tutto inaudito, oggi, spero, caduto definitivamente in disuso. Nel tempo, ho sviluppato una certa  cautela nel mio approccio verso il mondo e le cose, e chissà che la mia brusca venuta al mondo non abbia avuto, in questo, una parte di un certo rilievo. Fu di certo traumatica per mia madre, furiosa per quell’abuso compiuto mentre si trovava in condizione di debolezza e impossibilità di reagire.

Mia madre è un bizzarro miscuglio di femminismo, insicurezza, difficoltà a farsi valere e dire di no, forza interiore, senso di colpa, bisogno di tenerezza e forte difficoltà di comunicazione emotiva.

Ha, o almeno aveva, anche quella convinzione, comune a non poche donne, di doversi assumere, per qualche oscura ragione, la mission impossible di cambiare un uomo estremamente problematico, tralasciando la propria presente infelicità in cambio della speranza di un’irrealistica, futura felicità perfetta.

Non si spiegherebbe altrimenti perché entrambe le relazioni importanti della sua vita siano state con uomini difficilissimi, molto diversi tra loro, ma comunque segnati dalla malattia e dalla violenza, subita o agita.

Quando conobbe mio padre Donald, in Inghilterra – ha sempre amato quel paese, luogo di fuga dalle catene familiari, di libertâ, di amore ancora puro e incorrotto – lui era già stato in guerra in Indocina, e ne era tornato con strani disturbi, di cui si sapeva pochissimo e si diceva ancora meno. Sindrome post traumatica da stress… forse. Nessuno usava quell’espressione. Si era parlato – certo sottovoce – di schizofrenia. I demoni si combattevano in silenzio. Solitudine. Vergogna. Alcool.

L’alcool che lo ha ucciso, fermandogli il cuore a 37 anni.

Mio padre è una ferita mai chiusa, la prima perdita, morto senza che io potessi fare in tempo a conoscerlo, o anche solo sapere di averlo visto; tanto che il mio dolore è rimasto lì, per anni inconsapevole, un sentimento fuori posto, uno spazio vuoto che bruciava, da cui uscivano, a momenti, granellini di rabbia, di paura, di nostalgia; la mancanza di qualcosa di cui non sapevo niente.

In seguito, per lungo tempo tutti i tentativi di mia madre di farmi innamorare dell’inglese fallirono miseramente: non volevo proprio saperne, a nessun costo. Oggi, benché ci siano nel mondo, a parte Genova, almeno tre o quattro luoghi che mi piacerebbe chiamare casa, mi capita spesso di pensare che la mia vera casa non sia un posto, ma una lingua: e quella lingua è l’inglese.

Mio padre, dicevo, era un inglese alto, dal viso angoloso e dolce. Quando si chinava su qualcosa di piccolo e indifeso, il suo sguardo sembrava assorbire e poi ritrasmettere la luce. La tenerezza gli creava piccole rughe sulla bocca, intorno agli occhi, sulle guance; e da quelle pieghe usciva e poi rientrava, come se, attraverso gli altri, lui potesse almeno un po’, almeno per qualche momento, proteggere sé stesso. Lo so perché ho una sua foto in cui mi guarda, minuscolo esserino in culla, io che forse sbadiglio e piango nello stesso momento, coi pugnetti chiusi, e lui che accenna un sorriso. Tu sei l’unica altra persona in cui io abbia rivisto con tanta intensità quello stesso sguardo.

Da lui ho ereditato qualche foto, i suoi occhi azzurri, una lingua; l’amore per la scrittura; un nome che ricorda il suo Paese di nascita, ma non troppo esotico per il Paese in cui aveva scelto di vivere; un legame tra due culture che mi appartengono entrambe, senza che debba sentirmi divisa; e la fortuna di non credere nei confini.

Non ho ereditato la sua malattia.

Mia madre si è portata dietro per anni la paura che i disturbi di mio padre non fossero solo una conseguenza della guerra, e che potesse averli trasmessi a me. Tremava al più piccolo segno di ribellione, e fino a quando non ho saputo la storia che c’era dietro, la disapprovazione che leggevo nel suo sguardo, o nel modo in cui pronunciava il mio nome, anche quando non avevo la minima idea di che cosa, esattamente, ci fosse da disapprovare, ha bloccato sul nascere ogni possibile allontanamento, anche lieve, dalla retta via di una consolidata normalità.

Credo che un po’ mio padre ti somigliasse; che aveste in comune una certa fragilità, acuita dagli eventi, e al tempo stesso una forza dolce, la capacità di non lasciare che le circostanze esterne cambiassero il nucleo essenziale su cui costruivate la vostra visione del mondo. Una bontà profonda, difficile, dura, che richiede molta più forza d’animo del cinismo e della ricerca di un nemico a cui affidare la parte di noi stessi che non ci piace, o la responsabilità del fallimento delle nostre vite.

Fu per suo desiderio che si trasferirono in Italia, a Genova, città d’origine di mia madre, e credo che lei abbia sempre rimpianto quella scelta.

Forse per questo, benché io abbia con Genova un legame molto stretto, ho sempre avuto e ho tuttora nel cuore una porta aperta verso altri luoghi; ma l’ho amata da subito, anche quando, per un lungo periodo, ho creduto di odiarla. È una città strana, ruvida, scorbutica, solitaria, apparentemente chiusa, ma capace di profonde tenerezze e di accoglienza concreta, senza fronzoli.

A Genova sono nata e ci vivo, ma non è per questo che la amo. È che Genova mi sorprende sempre. I suoi mari e le sue nuvole, San Martino alta e bassa, il Chiappeto e Borgoratti, il forte Richelieu, il Santa Tecla e il Puin, Boccadasse e Sampierdarena, Castelletto e la Maddalena, i carruggi e la Via Nuova, la Ripa Maris e il porto, i suoi monti sventrati e le sue divisioni, De André e Caproni, i salotti e i camalli.

Credo che anche il posto dove siamo nati influenzi il nostro carattere. Io non so se definirmi ruvida; scorbutica credo di sì, a volte; solitaria di sicuro, fino addirittura a una forma di lieve misantropia, che non mi impedisce di  incuriosirmi per le altre persone, di qualunque provenienza, e di coltivare (poche) amicizie profonde e durature.  La mia tenerezza l’ho conquistata a fatica con anni di lavoro, e la riservo a persone molto vicine o a piccoli gesti quotidiani, senza quasi mai esprimerla a parole. Il pudore di Genova. Il pudore di mia madre, e del mare. Perché dopotutto sono una donna di mare, benché non vada (per ora) in barca a vela; e lontano dal mare non potrei vivere; i luoghi dove ho immaginato e immagino, più o meno seriamente, di poter abitare sono molto diversi tra loro, ma tutti hanno in comune il mare.

Il mare, si sa, ha un forte simbolismo come luogo di origine e al tempo stesso di partenza, potrà essere pure una radice, ma è una radice instabile, in perpetuo movimento, aperta e infinita; è liquido protettivo ma anche profondo, abissale, anzi; arioso, azzurro e pieno di luce eppure oscuro e segreto. Chiunque sia nato vicino al mare non può non condividere sia pure in minima parte i suoi mutamenti di umore, i passaggi a volte inspiegabili dalla serenità all’agitazione e persino alla tempesta. E io lo so bene, io che passo per un tipo tranquillo e raramente agisco sopra le righe: perché nei miei pensieri – e nei miei improvvisi scatti d’ira – racchiudo tutte le inquietudini di tutti gli oceani del mondo.

 

La lettrice della domenica – Le città invisibili di Italo Calvino

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Il mio affetto per Calvino risale a tempi quasi preistorici, “Il barone rampante” è uno dei primi romanzi che ricordi di aver letto. Eppure ancora ho alcune lacune per quanto riguarda la sua produzione letteraria, e questa era una di quelle fino a pochissimi giorni fa. Finalmente, uno dei miei viaggi (ultimamente per fortuna frequenti) mi ha permesso di colmarla, e non sono stata per nulla delusa, anzi. Non è un’opera facilmente definibile, e già questa per me è una qualità: non è un romanzo, non è un saggio, non è neppure, propriamente, una serie di racconti, né un diario o una raccolta di impressioni. È un po’ tutto questo, e altro ancora. È la descrizione delle città, di qualunque città, e del nostro modo di viverle e di osservarle. Ognuna delle città immaginarie descrive, di fatto, uno o più aspetti che certamente si possono cogliere nei luoghi che abitiamo, trasfigurato però, dal fatto stesso di essere descritto in modo così “letterario”. Le torri, i bastioni, le ringhiere, le strade, le finestre sono tanto oggetti materiali, riconoscibili dal lettore in quanto parte anche del suo mondo, quanto elementi del sogno, della memoria e del desiderio. Città continue, città capovolte, città che contengono il contrario di sé stesse, città che hanno un rapporto particolare con il cielo, con il mondo sotterraneo e con i morti, ciascuna in un modo che le è proprio, eppure così vicino al nostro: Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.

Il rapporto tra realtà e letteratura mi pare uno dei temi centrali di questo libro (come di molti altri di Calvino), tanto quanto il rapporto tra il viaggiatore e i luoghi. A parlare delle città è infatti Marco Polo, che dialoga con Kublai Khan, ma non è necessariamente lo stesso Marco Polo della storia, è una sorta di fantasma, di pretesto, e di nuovo il rapporto tra immaginario e reale cambia continuamente e diventa chiave di interpretazione:

KUBLAI: Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino. 

POLO: Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.

KUBLAI: Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano una fortezza assediata.

POLO: Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.

KUBLAI: Forse questo dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Khan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.

POLO: Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Khan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.

(Italo Calvino, Le città invisibili, I edizione Oscar Moderni 2016)

2. Il Mondo Secondo Garp / The World According to Garp

The World According to Garp (‘Il mondo secondo Garp’, 1982) è il secondo film interpretato da Robin Williams nel ruolo del protagonista, dopo Popeye. E’ un film a tratti duro, eppure riesce a essere sempre “leggero” (nel senso migliore del termine) e ha dei momenti di grandissima dolcezza.

L’ironia è una costante fin dalla sigla, un’allegra canzone dei Beatles (When I’m 64, quando avrò 64 anni) e potrebbe apparire talvolta un po’ perfida, se non fosse che il messaggio che passa è in realtà proprio questo: qualunque cosa, anche la più drammatica, può essere resa meno dolorosa dallo humour, anche solo un pizzico, magari, che diventa qui un altro modo di esprimere partecipazione umana. Solo le persone più irrimediabilmente infelici del film, infatti, ne sono del tutto prive.

Garp nasce nel 1944, a guerra ancora in corso. La madre Jenny (una Glenn Close molto giovane e già bravissima) aveva fatto l’infermiera al fronte e continuerà a svolgere quel lavoro, in vari modi, per tutta la vita. E’ una donna dal carattere molto forte, guidata da un senso di sé considerevole e da quella che si potrebbe definire un’ossessione per la ‘lussuria’, soprattutto quella maschile (non svelerò, per chi non lo conosce, il modo alquanto inusuale in cui era rimasta incinta). L’affronta tuttavia in modo estremamente personale, anticonformista e in un certo senso anche libertario (o per meglio dire, a tutela della libertà femminile). Molto di quello che accade a Garp e intorno a lui sembra in effetti frutto della lussuria – o della sua repressione. Il clima moralistico e la concezione alquanto ristretta della famiglia sono appena accennati in due scene del film, peraltro a mio parere memorabili e più che sufficienti: la prima è all’inizio, quando Jenny si presenta a casa dei suoi con il piccolo Garp appena nato, provocando un vero sconquasso. La seconda è il momento in cui il vicino di casa, padre di una piccola compagna di giochi di Garp e di un’altra nidiata di bambini, inclusa l’ombrosa Pooh, fa una foto di famiglia da inviare come cartolina di Natale. La mamma che cerca di far sorridere Pooh (‘se non sorridi non troverai mai un marito’) è l’emblema di quell’ambiente gretto. Solo una donna disperatamente anni ’50 e disperatamente fuori dal mondo poteva non accorgersi di come il profondo malessere della figlia andasse già trasformandosi in una feroce infelicità cui neanche le capacità curative di Jenny avrebbero potuto porre rimedio.

Garp sembra in apparenza restare un po’ in ombra, rispetto alla formidabile madre. Non si direbbe un uomo particolarmente forte, tuttavia finisce per sviluppare un proprio modo di essere se stesso di fronte a lei e a tutti gli altri, facendo della propria stessa mitezza una ‘cifra stilistica’ che gli permette di non lasciarsi smontare di fronte a nulla. Dalla scelta dello sport a quella della ragazza che diventerà sua moglie, fino ad altre decisioni più ‘rischiose’, cammina sulla strada della vita con una sorta di quieta ma indomabile determinazione. Inseguendo sempre, tra l’altro, il sogno di volare, salvo poi rendersi conto che ci sono molti modi di far crescere le proprie ali, persino dalle cicatrici che ci portiamo dietro le spalle.

Garp riesce a creare una famiglia ‘vera’, piena di conflitti e di difficoltà, ma ben lontana dalle finzioni di felicità perfetta che tanto danno avevano provocato e provocavano in quegli anni. Questo anche grazie al fatto che Helen, la moglie (Mary Beth Hurt, che mi è piaciuta moltissimo nel ruolo), con tutte le sue fragilità e i momenti di sperdimento, sa essere davvero una compagna di vita, con tutto ciò che questo comporta, capace di un amore forte e profondo ma senza alcuna forma di resa o di quella sopportazione passiva e paziente che in generale si richiedeva alle donne.

D’altra parte, Garp ha anche degli evidenti spigoli nel carattere, l’incapacità di frenarsi di fronte a quelle che considera ‘vessazioni’ o ‘ingiustizie’, e quello che l’amica Roberta (altro personaggio notevole, per inciso) definirà l’unico tratto che ha ereditato dalla madre, un talento per far infuriare la gente.

Quando Garp decide di diventare scrittore, la madre sembra ancora una volta soverchiarlo. Mentre lui è acclamato dalla critica ma vende pochissimo, lei, per una fortunata combinazione di tempi (siamo a questo punto tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ‘70), scrive un libro che diventa un manifesto del femminismo e la rende ricchissima. Apre allora una sorta di clinica per prendersi cura di donne dal passato difficile. Tra loro, alcune appartenenti a un’associazione che prevede l’automutilazione come forma di protesta contro la violenza sessuale, in nome (ma contro il volere) di una donna che era stata violentata da bambina. Tutto questo avrà conseguenze di non poco conto sulla vita di Garp, il quale ha perfettamente chiara la distanza che esiste tra un’accettazione profonda (molto più della semplice ‘tolleranza’) per il modo di ognuno di esprimere la propria personalità, e lo sfruttamento (pur inconsapevole) del dolore altrui come arma contro il mondo, nell’inutile tentativo di sanare le proprie ferite causandone altre.

Come si vede, molti dei temi affrontati sono ‘forti’, in nessun momento ci viene permesso di dimenticare che al mondo esiste la violenza, il pregiudizio, esistono molte forme di fanatismo e alcuni tipi di inferno, compreso quello lastricato di buone intenzioni. E che però, per contrastare tutto questo, a parte il senso dell’umorismo, l’unico modo è non lasciarsi cambiare, non avere mai paura di restare se stessi. Senza tracotanza, ma con rabbia e determinazione se è necessario. Perché alla fine, quello che conta è comportarsi come è giusto, e non come sarebbe più facile. E quando si sbaglia, saper medicare le ferite. E quando si vive, preoccuparsi del “come” molto più che del “quanto”.

Da questo film è tratta una delle mie citazioni preferite, tratta da un dialogo tra Garp e la moglie Helen, in cui si parla della memoria e dell’importanza di ricordare:

Helen – You can’t live in the past
Garp – I’m not. But I can live in the present and think about the past.
Helen – You’re supposed to do that when you’re old and grey.
Garp – Oh, to hell with that. When I’m old and grey, I probably won’t remember my past. You’ve got to be young when you do it. It’s really nice, you know. To look back and see the arc of your life. It’s all connected. How you got from there to here. To see the line, you know? It really has been an adventure.
Helen – I’m going to start teaching again.
Garp – I’m going to try hang-gliding.

“Helen – Non puoi vivere nel passato
Garp – Non lo faccio. Però posso vivere nel presente e pensare al passato.
Helen – Dovresti aspettare di essere un vecchio coi capelli grigi.
Garp – Oh, al diavolo. Probabilmente non me lo ricorderò il passato, quando sarò vecchio. Devi farlo da giovane. E’ bellissimo, non trovi? Guardare indietro e vedere l’arco della tua vita, come tutto è collegato. Da dove sei partito e come sei arrivato fin qui. La linea, capisci. E’ stata davvero un’avventura.
Helen –Riprenderò a insegnare.
Garp – Io voglio provare il deltaplano”.

La traduzione è mia perché non ho la versione italiana del film.

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The World According to Garp (1982) is the second movie with Robin Williams in the leading role, after Popeye. It is quite hard now and then, yet it manages at all times to be ‘light’ (in the best meaning of the word) and certainly has a few very sweet moments. Even from the initial tune, a cheerful Beatles’ song (When I’m 64) irony is a constant. It might actually even seem poisonous at times, were it not for the message it conveys and that is, in fact, this: anything, even the most dramatic event can be made less painful by humour, just a pinch, maybe, which is, here, just another way to express empathy and warmth. Indeed, only the people who are most hopelessly unhappy in this movie lack it entirely.
Garp was born in 1944, with the war still raging. His mother Jenny (a very young and already marvelous Glenn Close) had been a nurse at the front, and she would continue to work as such, in different ways, throughout her life. She’s a very strong woman, driven in her life by a considerable sense of herself and by something we could describe as an obsession for ‘lust’, and especially for male lust (I won’t reveal, for those who don’t already know, the quite unusual way in which she managed to get pregnant). On the other hand, she deals with it in a rather personal, nonconformist and even libertarian way (or rather, in a way to protect the women’s freedom).
Indeed, quite a lot of what happens to Garp and around him seems to be the result of lust – or of its repression. The moralistic atmosphere and the narrow conception of family are just hinted at, in two scenes which, however, I find memorable and more than sufficient for the purpose. The first one is at the beginning, when Jenny appears at her parents’ house with the little, newborn Garp, causing not a small turmoil. The second scene is when a neighbour, the father of a little girl, a playmate of Garp, and a crop of other children, including the umbrageous Pooh, takes a family photograph to be sent around as a Christmas card. His wife, who tries her best to make Pooh smile (‘if you don’t smile you will never find a husband’), is an emblem of that short-sighted environment. Only a woman who was desperately 50s-minded and desperately out of the world could fail to notice how unhappy her daughter was, and how that unhappiness was, even then, already becoming a form of meanness, against which, even Jenny’s healing skills would not be of any help.
Garp seems somehow overshadowed by his formidable mother. You wouldn’t think of him as a particularly strong man, and yet, he ends up developing his own way of being himself in front of her and of everyone else. He makes of his own gentleness a ‘hallmark’ that allows him not to be discouraged by anything. From the choice of his sports to that of the girl who will become his wife, and then to other more ‘dangerous’ decisions, he walks along the way of life with a sort of quite but indomitable determination. Always pursuing the dream of flying, as it is, only to realize at some point that there are many ways in which you can grow your wings, even from the scars on your back.
Garp manages to create a ‘real’ family, full of conflicts and troubles, but rather far from the pretence of perfect happiness that had been causing so much damage in those years. This was also thanks to the fact that Helen, his wife (Mary Beth Hurt, whom I liked a lot in this role), with all her fragility and moments in which she seems to go astray, is capable of being a true life companion, with everything that this implies. Her love is strong and deep, but with none of that surrender or passive and patient acceptance that was generally expected of women.
On the other hand, there are some sharp edges in Garp’s personality, the inability to restrain himself in front of what he considers to be ‘oppression’ or ‘injustice’, combined with something that his friend Roberta (another remarkable character, by the way) will define as the only trait he has inherited from his mother, a “natural ability to piss people off’.
When Garp decides to become a writer, his mother seems, once again, to overpower him. Whereas he is acclaimed by critics but does not sell very much, she writes a book which, thanks to good timing (we are now between the end of the ’60s and the early ‘70s), becomes a feminist manifesto and makes her immensely rich. So she opens a clinic to take care of women with a difficult past. These include a few members of an association which sees self-mutilation as a form of protest against sexual violence, in the name (although against the will) of a woman who had been raped when she was a child. All this will be of no small consequence for the life of Garp, who is perfectly aware of the distance that there is between deep acceptance (much more than mere ‘tolerance’) of the way of each one to express their personality, and the exploitation (in good faith as it may be) of the pain of others as a weapon against the world, in a useless attempt to heal one’s wounds by causing other wounds.
As can be seen, many ‘strong’ issues are dealt with. We are never allowed to forget that there is violence in the world, and prejudice, and many forms of fanaticism and quite a number of types of hell, including the one that is paved with good intentions. And that in order to contrast all that, apart from humour, the only way is not letting them change you, never be afraid of remaining yourself. With no arrogance, but with anger and resolution, if necessary. Because when all is said and done, what counts is to choose the right course, not the easy one. And when you make a mistake, be able to heal the wounds. And when it comes to living, think about ‘how’ rather than ‘how long’.
One of my favourite quotes is taken from this film, from a dialogue between Garp and his wife Helen, who talk about memory and how important it is to remember:

Helen – You can’t live in the past
Garp – I’m not. But I can live in the present and think about the past.
Helen – You’re supposed to do that when you’re old and grey.
Garp – Oh, to hell with that. When I’m old and grey, I probably won’t remember my past. You’ve got to be young when you do it. It’s really nice, you know. To look back and see the arc of your life. It’s all connected. How you got from there to here. To see the line, you know? It really has been an adventure.
Helen – I’m going to start teaching again.
Garp – I’m going to try hang-gliding.

Tra nuvole e marciapiedi / Between clouds and sidewalks

Quando sarà che ho fatto l’ultimo giro in giostra?
E’ così tanto tempo che neppure più ricordo
il colore e la forma, o in che giardino mi trovavo.
Abito qui, ora, tra nuvole e marciapiedi,
volo tra i rami degli ulivi e ridiscendo a volte
per l’occasionale dolcezza dei lamponi;
ho traslocato da poco e forse
non sarà l’ultima volta che succede.
Faccio ancora castelli che viaggiano sull’aria,
i miei occhi sono sempre ben aperti quando sogno
e lancio ancora piccoli sassi dentro il mare,
ch’è il mio modo di rompere la quiete
per riaggiustarla dopo a cose fatte;
ma non penso più che sia la spiaggia l’importante,
solo qualche granello ogni tanto, o qualche fiore
dimenticato tra le sdraio alla fine del tramonto.
Ho anche riordinato un poco le mie cose,
lo spazio l’ho trovato gettando via i rimpianti.
La nostalgia no, ché può sempre venir bene:
sta a portata di mano in un cassetto semi-chiuso;
e poi non pensare ch’io non viva,
ho da stendere i panni e far le lavatrici,
ho figli e tastiere e giorni d’incastri e gambe stanche,
e un gatto che s’arrotola in improbabili pose nella cesta;
ho tempo per amare e prendo anche il raffreddore,
ma tengo un sole di riserva nella tasca
per qualche anomala stagione delle piogge.
Però ti prego, accarezza ancora dolcemente
le semicancellate linee dei miei fragili confini
perché svaniscano del tutto sotto le tue dita.
S’intersecano i tuoi passi disallineati
sui duri solchi delle mie pietre natali
creando quel mosaico di molteplici percorsi
tra le tue personali vie dei canti e i miei colori.
So cosa diresti di queste brecce offese,
delle crepe nei muri che esplodono
crollando in polvere inflessibile,
di queste nebbie che screpolano il cielo.
Si scioglierebbe ancora in parole la tua faccia
e riconoscerei tra mille quella smorfia ferita
che spegnerebbe i tuoi occhi appena un attimo prima
che l’illumini la compassione un’altra volta,
lo sprazzo del tuo fulmineo riso
ad inventarci una bellezza temporanea ed infinita
nascosta tra gli anfratti della nostra pelle stanca.
Per questo mi accoccolo tra i tuoi pensieri
e ti ritrovo, come sempre, dentro i miei.

Wall crack (original image on http://lokiev.deviantart.com/art/Crack-in-the-Wall-182406671)

Crack in the Wall by Lokiev

When was I last on a merry-go-round?
It’s been so long I don’t even remember
the colour and shape, or the garden I was in.
I live here now, between clouds and sidewalks,
I fly through olive branches and come down at times
for the occasional sweetness of raspberries;
it’s not long since I’ve moved house, and perhaps
it won’t be the last time either.
I still make castles and have them travel in the air,
my eyes are always wide open when I dream
and I still throw pebbles into the sea,
it’s my way to break the quiet to then fix it late in the day;
but I no longer think that it’s the beach that counts,
only some grains, now and then, or some flower
forgotten among the loungers at the end of sunset.
I’ve also tidied up my things a little bit,
I’ve made room by throwing regrets away.
Not longing, though, as it can always come in handy
It’s at my fingertips, in a drawer that I keep ajar;
and then, don’t you think I’m not living,
I’ve got to do my wash and hang the laundry out to dry
I’ve got children, and keyboards,
days with so much to wedge in, and legs that hurt
and a cat that rolls up in unlikely positions in his basket;
I’ve got time to love and sometimes catch a cold
but keep a spare sun in my pocket
for some unexpected rainy season.
But please, keep fingering with your sweetness
the semi-deleted lines of my fragile boundaries
so they will melt completely at your touch.
Your out-of-line footprints cross at times
the unyielding groove in my native stones
and create that mosaic of multiple paths
with your personal songlines and my colours.
I know what you’d say of these injured breaches,
of the cracks in the walls that blow up and collapse
into an inflexible dust,
of these fogs that chap the sky.
Your face would break up in words once again
and anywhere would I recognize that hurt frown
that would turn off your eyes just before
they’re lightened up by compassion once again,
the spark of your lightning-quick laugh
that would invent for us a temporary beauty without end
hidden in the clefts of our weary skin.
that’s why I nestle into your thoughts
and find you, as always, within mine.