
Ogni tanto ci torno sopra… scrivo, e poi riedito, sempre alla ricerca di onestà, che quando si scrive è cosa del tutto diversa dalla verità, credo; rieditare la propria memoria, il racconto di una vita, è cosa delicata, ma va fatto. Perché bisogna essere onesti non solo nel ricordare, ma anche nel raccontare quei ricordi a chi non c’era. E dopo tutto, anche a chi c’era, ma ricorda in modo diverso. Perché la memoria, lo sappiamo bene, è soggettiva, e paradossalmente fragile, per un oggetto da cui traiamo la nostra forza.
Sono nata alle dieci di un mattino di quasi estate, non è mai stato ben chiaro se in anticipo o in ritardo.
Nel dubbio, il dottore salì con le ginocchia sulla pancia di mia madre per costringermi a uscir fuori. Metodo drastico, allora non del tutto inaudito, oggi, spero, caduto definitivamente in disuso. Nel tempo, ho sviluppato una certa cautela nel mio approccio verso il mondo e le cose, e chissà che la mia brusca venuta al mondo non abbia avuto, in questo, una parte di un certo rilievo. Fu di certo traumatica per mia madre, furiosa per quell’abuso compiuto mentre si trovava in condizione di debolezza e impossibilità di reagire.
Mia madre è un bizzarro miscuglio di femminismo, insicurezza, difficoltà a farsi valere e dire di no, forza interiore, senso di colpa, bisogno di tenerezza e forte difficoltà di comunicazione emotiva.
Ha, o almeno aveva, anche quella convinzione, comune a non poche donne, di doversi assumere, per qualche oscura ragione, la mission impossible di cambiare un uomo estremamente problematico, tralasciando la propria presente infelicità in cambio della speranza di un’irrealistica, futura felicità perfetta.
Non si spiegherebbe altrimenti perché entrambe le relazioni importanti della sua vita siano state con uomini difficilissimi, molto diversi tra loro, ma comunque segnati dalla malattia e dalla violenza, subita o agita.
Quando conobbe mio padre Donald, in Inghilterra – ha sempre amato quel paese, luogo di fuga dalle catene familiari, di libertâ, di amore ancora puro e incorrotto – lui era già stato in guerra in Indocina, e ne era tornato con strani disturbi, di cui si sapeva pochissimo e si diceva ancora meno. Sindrome post traumatica da stress… forse. Nessuno usava quell’espressione. Si era parlato – certo sottovoce – di schizofrenia. I demoni si combattevano in silenzio. Solitudine. Vergogna. Alcool.
L’alcool che lo ha ucciso, fermandogli il cuore a 37 anni.
Mio padre è una ferita mai chiusa, la prima perdita, morto senza che io potessi fare in tempo a conoscerlo, o anche solo sapere di averlo visto; tanto che il mio dolore è rimasto lì, per anni inconsapevole, un sentimento fuori posto, uno spazio vuoto che bruciava, da cui uscivano, a momenti, granellini di rabbia, di paura, di nostalgia; la mancanza di qualcosa di cui non sapevo niente.
In seguito, per lungo tempo tutti i tentativi di mia madre di farmi innamorare dell’inglese fallirono miseramente: non volevo proprio saperne, a nessun costo. Oggi, benché ci siano nel mondo, a parte Genova, almeno tre o quattro luoghi che mi piacerebbe chiamare casa, mi capita spesso di pensare che la mia vera casa non sia un posto, ma una lingua: e quella lingua è l’inglese.
Mio padre, dicevo, era un inglese alto, dal viso angoloso e dolce. Quando si chinava su qualcosa di piccolo e indifeso, il suo sguardo sembrava assorbire e poi ritrasmettere la luce. La tenerezza gli creava piccole rughe sulla bocca, intorno agli occhi, sulle guance; e da quelle pieghe usciva e poi rientrava, come se, attraverso gli altri, lui potesse almeno un po’, almeno per qualche momento, proteggere sé stesso. Lo so perché ho una sua foto in cui mi guarda, minuscolo esserino in culla, io che forse sbadiglio e piango nello stesso momento, coi pugnetti chiusi, e lui che accenna un sorriso. Tu sei l’unica altra persona in cui io abbia rivisto con tanta intensità quello stesso sguardo.
Da lui ho ereditato qualche foto, i suoi occhi azzurri, una lingua; l’amore per la scrittura; un nome che ricorda il suo Paese di nascita, ma non troppo esotico per il Paese in cui aveva scelto di vivere; un legame tra due culture che mi appartengono entrambe, senza che debba sentirmi divisa; e la fortuna di non credere nei confini.
Non ho ereditato la sua malattia.
Mia madre si è portata dietro per anni la paura che i disturbi di mio padre non fossero solo una conseguenza della guerra, e che potesse averli trasmessi a me. Tremava al più piccolo segno di ribellione, e fino a quando non ho saputo la storia che c’era dietro, la disapprovazione che leggevo nel suo sguardo, o nel modo in cui pronunciava il mio nome, anche quando non avevo la minima idea di che cosa, esattamente, ci fosse da disapprovare, ha bloccato sul nascere ogni possibile allontanamento, anche lieve, dalla retta via di una consolidata normalità.
Credo che un po’ mio padre ti somigliasse; che aveste in comune una certa fragilità, acuita dagli eventi, e al tempo stesso una forza dolce, la capacità di non lasciare che le circostanze esterne cambiassero il nucleo essenziale su cui costruivate la vostra visione del mondo. Una bontà profonda, difficile, dura, che richiede molta più forza d’animo del cinismo e della ricerca di un nemico a cui affidare la parte di noi stessi che non ci piace, o la responsabilità del fallimento delle nostre vite.
Fu per suo desiderio che si trasferirono in Italia, a Genova, città d’origine di mia madre, e credo che lei abbia sempre rimpianto quella scelta.
Forse per questo, benché io abbia con Genova un legame molto stretto, ho sempre avuto e ho tuttora nel cuore una porta aperta verso altri luoghi; ma l’ho amata da subito, anche quando, per un lungo periodo, ho creduto di odiarla. È una città strana, ruvida, scorbutica, solitaria, apparentemente chiusa, ma capace di profonde tenerezze e di accoglienza concreta, senza fronzoli.
A Genova sono nata e ci vivo, ma non è per questo che la amo. È che Genova mi sorprende sempre. I suoi mari e le sue nuvole, San Martino alta e bassa, il Chiappeto e Borgoratti, il forte Richelieu, il Santa Tecla e il Puin, Boccadasse e Sampierdarena, Castelletto e la Maddalena, i carruggi e la Via Nuova, la Ripa Maris e il porto, i suoi monti sventrati e le sue divisioni, De André e Caproni, i salotti e i camalli.
Credo che anche il posto dove siamo nati influenzi il nostro carattere. Io non so se definirmi ruvida; scorbutica credo di sì, a volte; solitaria di sicuro, fino addirittura a una forma di lieve misantropia, che non mi impedisce di incuriosirmi per le altre persone, di qualunque provenienza, e di coltivare (poche) amicizie profonde e durature. La mia tenerezza l’ho conquistata a fatica con anni di lavoro, e la riservo a persone molto vicine o a piccoli gesti quotidiani, senza quasi mai esprimerla a parole. Il pudore di Genova. Il pudore di mia madre, e del mare. Perché dopotutto sono una donna di mare, benché non vada (per ora) in barca a vela; e lontano dal mare non potrei vivere; i luoghi dove ho immaginato e immagino, più o meno seriamente, di poter abitare sono molto diversi tra loro, ma tutti hanno in comune il mare.
Il mare, si sa, ha un forte simbolismo come luogo di origine e al tempo stesso di partenza, potrà essere pure una radice, ma è una radice instabile, in perpetuo movimento, aperta e infinita; è liquido protettivo ma anche profondo, abissale, anzi; arioso, azzurro e pieno di luce eppure oscuro e segreto. Chiunque sia nato vicino al mare non può non condividere sia pure in minima parte i suoi mutamenti di umore, i passaggi a volte inspiegabili dalla serenità all’agitazione e persino alla tempesta. E io lo so bene, io che passo per un tipo tranquillo e raramente agisco sopra le righe: perché nei miei pensieri – e nei miei improvvisi scatti d’ira – racchiudo tutte le inquietudini di tutti gli oceani del mondo.