Dr. Jekyll and Mr. Hyde Dr Jekyll and Mr. Hide è uno dei pochissimi libri dell’orrore che io abbia non solo letto, ma anche apprezzato, e moltissimo, davvero moltissimo. probabilmente perché non è tanto un libro dell’orrore, quanto un libro, semplicemente, un bellissimo libro – e non stupisce, se si pensa che è di Stevenson. Ha a che fare con il nostro essere “doppi”, e con l’impossibilità di annullare una parte di sé. Pretendere di essere soltanto “angeli” e di cancellare quegli impulsi che siamo abituati a considerare meno nobili, come la rabbia, il desiderio sessuale e persino l’odio, rischia di portare a conseguenze ben peggiori, come sperimenta a sue spese l’idealista dottor Jekyll, che volendo allontanare da sé per sempre la propria parte meno “pura”, finisce invece per esserne dominato. Questa versione cinematografica del 1931 (se cliccate sul link potete vederla) vede la regia di Rouben Mamoulian ed è considerata una delle migliori (beneficiando forse anche del fatto di essere precedente al famigerato Codice Hays, che a breve avrebbe introdotto regole moralistiche e rigidissime, restando in vigore fino al 1968). Fredric March dipinge con notevole bravura le speranze e il desiderio di integrità morale assoluta del dottore, ma anche i suoi tormenti e l’incapacità, tutto sommato, di essere “umano”, così come l’animalità sfrenata di Hyde, che anche nelle movenze e nell’atteggiamento del corpo rivela la propria natura violenta e crudele. Tuttavia, egli condivide l’assenza del limite con il suo “doppio” Jekyll, portato alla rovina proprio da questo sfasamento rispetto alla realtà.
realtà
La lettrice della domenica – Le città invisibili di Italo Calvino
Il mio affetto per Calvino risale a tempi quasi preistorici, “Il barone rampante” è uno dei primi romanzi che ricordi di aver letto. Eppure ancora ho alcune lacune per quanto riguarda la sua produzione letteraria, e questa era una di quelle fino a pochissimi giorni fa. Finalmente, uno dei miei viaggi (ultimamente per fortuna frequenti) mi ha permesso di colmarla, e non sono stata per nulla delusa, anzi. Non è un’opera facilmente definibile, e già questa per me è una qualità: non è un romanzo, non è un saggio, non è neppure, propriamente, una serie di racconti, né un diario o una raccolta di impressioni. È un po’ tutto questo, e altro ancora. È la descrizione delle città, di qualunque città, e del nostro modo di viverle e di osservarle. Ognuna delle città immaginarie descrive, di fatto, uno o più aspetti che certamente si possono cogliere nei luoghi che abitiamo, trasfigurato però, dal fatto stesso di essere descritto in modo così “letterario”. Le torri, i bastioni, le ringhiere, le strade, le finestre sono tanto oggetti materiali, riconoscibili dal lettore in quanto parte anche del suo mondo, quanto elementi del sogno, della memoria e del desiderio. Città continue, città capovolte, città che contengono il contrario di sé stesse, città che hanno un rapporto particolare con il cielo, con il mondo sotterraneo e con i morti, ciascuna in un modo che le è proprio, eppure così vicino al nostro: Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
Il rapporto tra realtà e letteratura mi pare uno dei temi centrali di questo libro (come di molti altri di Calvino), tanto quanto il rapporto tra il viaggiatore e i luoghi. A parlare delle città è infatti Marco Polo, che dialoga con Kublai Khan, ma non è necessariamente lo stesso Marco Polo della storia, è una sorta di fantasma, di pretesto, e di nuovo il rapporto tra immaginario e reale cambia continuamente e diventa chiave di interpretazione:
KUBLAI: Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO: Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.
KUBLAI: Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano una fortezza assediata.
POLO: Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.
KUBLAI: Forse questo dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Khan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.
POLO: Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Khan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.
(Italo Calvino, Le città invisibili, I edizione Oscar Moderni 2016)
Robin’s Monday – politica, religioni e bombe…
… ossia, tutto quello che avreste voluto sapere sul mondo contemporaneo e che pochi saprebbero spiegarvi meglio. Magari bisogna mettere la velocità ridotta e sentirlo due o tre volte, poi però si capisce come tutto ha un senso, anche le (rare) pause, le parole dette tra le righe e le virgole. E quello che non smette di meravigliarmi, è che potrebbe essere stato fatto oggi. Cambierebbe qualche riferimento, ma non la lettura della realtà.
Cogli l’attimo (ma continua a sognare)
Quanta pazienza ci vuole per realizzare un sogno. Quanta pazienza per continuare a godersi la vita di ogni giorno come se, pur appartenendoti il sogno, l’attesa e il dubbio non dovessero avere influenza sul presente; come se, realizzazione o meno, niente cambiasse; come se potessimo far tesoro del fatto che nel lavandino ci sono i piatti da lavare, senza mai “non veder l’ora” che qualcosa accada. L’aspettativa toglie sostanza a ciò che stiamo vivendo? Ancora non lo so, non sono convinta. Ma certo devo imparare che portare un sogno nel regno del reale significa sapergli dare concretezza, e questo ha delle conseguenze. Bisogna avere fiducia in chi ha gli strumenti per fare in modo che dall’immaginazione si passi all’azione, per così dire. Anche quando significa considerare aspetti che consideri di secondaria importanza, ma che forse non lo sono. E nel frattempo andare avanti come se solo il “qui e ora” importasse.
No, non mi farò prendere dalla fretta, o peggio, dall’ansia. Stanotte non ho dormito e in questi giorni mi è capitato altre volte. No, dico, questo non c’entra niente. Di solito dormo come un masso, ma non lascerò che l’ansia influisca sul mio sonno.
La verità è che credevo fossimo a un passo e invece saremo in cammino ancora per un po’. Non voglio lasciare che le esigenze della realtà influiscano sul benefico effetto che i sogni hanno sempre avuto nella mia vita, però voglio che i sogni diventino un’impronta visibile, che lascino una traccia.
McAllister: Non sono cinico, sono realista. «Mostratemi un cuore non contaminato da folli sogni e io vi mostrerò un uomo felice.»
Keating: «Ma solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi. È da sempre così, e così sarà per sempre.»
McAllister: Tennyson?
Keating: No, Keating.
Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo lo sai che vola e lo stesso fiore che oggi sboccia domani appassirà. Perché il poeta usa questi versi? Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Citando Walt Whitman, «O me o vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.» Quale sarà il tuo verso?