Bilanci

Avevo promesso di non sparire, e non intendo farlo, ma ebbene sì, questo anno pieno, come per molti, credo, più di sogni, nuovi progetti e nuove idee che di azioni concrete e di realizzazioni ha messo a dura prova tutto. Persino la scrittura, l’unica attività che pensavo sarebbe stata una presenza granitica in ogni momento della mia vita, qualunque cosa potesse succedere.

Non potendo viaggiare, non potendo praticamente vedere nessuno (e avendo scoperto che a me, misantropa quale sono, questa cosa è mancata un casino), mi sono messa a studiare. Un sacco di cose, come sempre. Nello stesso modo caotico e dispersivo con cui nella vita mi sono innamorata e disamorata varie volte di argomenti, passioni, canzoni, qualche volta anche di persone, e, spessissimo, del mondo.

E a guardare serie TV. Una, in effetti. E non so se ringraziare il Cielo e l’Inferno per Supernatural e per Sam e Dean, attraverso i quali ho potuto vivere, se non altro di riflesso, una vita eroica (e per Jared Padalecki, e per altri, che sono pure loro un balsamo per gli occhi), oppure maledire questa ulteriore, ennesima causa di distrazione che mi allontana dai miei obiettivi e, in certa misura, dalla realtà. L’unica cosa di cui ho scritto in questi mesi (in inglese, come vedrete se cliccate sul link), perché mi sono nascosta dietro storie e vite altrui e dietro la passione, questa sì irrinunciabile, per quella lingua che come ho detto altre volte, dovrebbe essere casa mia, e vorrei che lo fosse, e a volte la sento tale, ci provo con tutte le mie forze, perché lì sono metà delle radici del mio albero, e metà della strada su cui cammino.

Sam – dolce, leale, riflessivo, testardo, ironico e coscienzioso Sam del mio cuore, che quando non sa come affrontare un problema, che sia un mostro, la fine del mondo, Dean in pericolo di vita o la ricetta di un incantesimo, legge e studia, anche su Internet, ma preferibilmente sui libri (come non amarlo?). Sam che ha un cuore grande come una casa, ed è a causa di quel cuore che commette i suoi peggiori sbagli. Per essere quello “prescelto” dai demoni da piccolo, ha una commovente fiducia nelle possibilità del bene, anche nei momenti più oscuri. Quando viene toccato negli affetti più cari, diventa spietato e quasi senza scrupoli, ma si finisce per perdonargli anche questo, perché è estremamente generoso e pronto a dare la vita per proteggere o salvare altri (tutti gli altri, se potesse: ogni morte gli pesa come un macigno). Questo gli interessa molto di più che uccidere mostri, cosa che vede più che altro come un mezzo per raggiungere quel risultato: non lo fa per senso del dovere, ma perché ogni singola persona è importante per lui. Frase preferita: there’s always a way (c’è sempre un modo) e I/we will fix it (ce la farò/faremo, sistemerò/sistemeremo le cose). Difetto più grave: adora suo fratello e gli permette di fare il bello e il cattivo tempo anche quando non ce n’è motivo, perché Dean si è preso cura di lui da piccolo e tacitamente continua a farglielo pesare, sicché Sam si sente in colpa ogni volta che tenta di farsi una vita sua, lontano da demoni e mostri.

Dean – il macho che scherza di fronte al pericolo – di fatto il più tormentato dei due, sempre arrabbiato con qualcosa e/o qualcuno, di solito col mondo intero, a mascherare un cuore di panna (è molto più sentimentale di Sam, ma non lo ammetterebbe mai) e, soprattutto, un senso di responsabilità che comprende tutti e nessuno in particolare. Ama il rock classico e il cibo spazzatura, beve troppo e gli piacciono molto le donne: in genere ha molta fortuna con loro, è contento ma anche geloso quando qualcuna gli preferisce Sam, al quale toccano comunque, ovviamente, gli affetti più profondi e duraturi, perché l’unica “creatura” di genere femminile che Dean è in grado di amare nel tempo è Baby, la sua macchina (la famosa Chevrolet Impala del 1967). Dean è quello che irrompe ad armi spianate e spara a qualunque cosa gli sembri lontanamente “non umana”. Crede nel dovere di lottare contro il male, ma non nella possibilità di vincere. È del tutto incapace di stare da solo. A volte mi fa tenerezza, a volte lo detesto. Frase preferita: awesome (fantastico: sia in senso proprio, sia in senso ironico). Difetto più grave: l’arroganza.

Gabriel – che è (un pochino) meno bello ma assai più simpatico di quanto sembri qui. Decisamente il mio arcangelo preferito. Non compare molto (purtroppo), ma tutte le volte che succede è una gioia.

Crowley, il Re dell’Inferno, perfido Inglese, adorabile canaglia (e forse non uo dei più belli, ma sexy da morire!)

Castiel, l’angelo dalle molte personalità e dai magnifici occhi blu

Vero, trovo le sceneggiature di Supernatural alquanto ben scritte, in generale, pur con qualche caduta (ma suvvia, se fosse perfetto ci piacerebbe di meno, no?), e penso che potrei imparare come si scrivono i dialoghi, come dire senza dire, come esprimere emozioni con un breve tratto di penna, un primo piano e un aside.

Ma la verità vera è che se la nostra vita ci bastasse, se non fossimo infinitamente contraddittori e non volessimo cose diverse e in insanabile contrasto tra loro, probabilmente non avremmo inventato né la scrittura, né il cinema e la musica, e nemmeno le serie TV.

Per cui, mentre cerco di capire se voglio rimettermi in gioco ancora una volta, e come, e quanto; se il mio scarso senso pratico mi permetterà di realizzare un progetto che coinvolgerebbe le lingue, l’amore per i viaggi, le mie arrugginite conoscenze giuridiche, un paio di talenti che forse ho e un altro paio che dovrei inventarmi e costruirmi; e se la realizzazione di questo progetto (o sogno, o vaga idea) finirebbe per compromettere irrimediabilmente l’unica cosa che credevo valesse per me più di ogni altra (la scrittura, again, e tutti i suoi contorni e dintorni); mentre continuo a fare bilanci di quest’anno e of the road so far sempre nel modo caotico di cui dicevo, uso Supernatural e lo benedico, sì, perché mi ha messa ancora una volta di fronte al fatto che volevo rendere straordinaria la mia vita e non l’ho (ancora) fatto, non quanto chiedevo a me stessa (peraltro, sono consapevole che mi sono sempre chiesta e continuo a chiedermi parecchio). Di fronte al fatto che volevo lasciare qualche traccia buona nel mondo, qualunque cosa questo potesse costare, e ogni giorno mi arrendo un po’ e poi un pochino riprendo a combattere, contro demoni, parti oscure, stanchezza e molto altro. Che mi piacciono gli eroi, purché siano testardamente leali e non perdano mai la tenerezza (e amino leggere e fare ricerche). E che la mia vita continua a non bastarmi, e io continuo a volere almeno venti cose diverse e in insanabile contrasto tra loro.

E dunque, sono ancora, e di nuovo, qui, oggi, e forse domani, o dopodomani, o tra una settimana o un mese, a preparare il pandolce, questa volta solo per noi quattro, e a domandarmi quanto, davvero, sono disposta a dare e togliere e fare, in concreto, per la scrittura, quanto mi importa di ritrovarla in fondo alle stanze segrete murate nel seminterrato in cui troppe volte la nascondo, e ritirarla fuori e non nasconderla più.

P.S. perdonatemi se ho messo solo foto di personaggi maschili: ci sono alcuni personaggi femminili che adoro, e le donne del cast sono tutte una più bella dell’altra, ma in questi giorni avevo voglia di rifarmi un po’ gli occhi. Magari nei prossimi giorni…

Long time no hear

È trascorso oltre un mese dal mio ultimo post. Un tempo notevolmente lungo, benché poco dopo l’inizio della vita del blog sia stata quasi due anni senza scrivere niente. Nel frattempo sono successe molte cose, belle e brutte, alcune molto brutte. Altre molto belle. Ma mi sono presa una lunga pausa dalla scrittura, non del tutto voluta. Tutta la scrittura, non solo qui: non una riga, né in prosa, né in versi. È come se, da una parte, la vena si fosse inaridita; dall’altra, stare senza scrivere mi crea talvolta un malessere quasi fisico, eppure non sempre riesco a vedere il senso di farlo. Ma passerà. Credo.

Nell’orrida vicenda di Quargnento, di cui non voglio neanche parlare, è morto tra gli altri un caro amico di mio marito, che veniva in campagna nello stesso posto dove andiamo noi. Una persona d’oro, padre di una bimba spericolata e simpaticissima che adorava suo padre. E che l’ha perduto a causa di uno totalmente vuoto, che sembra incapace non dico di tener conto degli altri, ma anche solo di vederli, di accorgersi che esistono.

Poi ci sono le alluvioni nella zona, il crollo del muro del giardino, la ristrutturazione della casa dove, con un po’ di fortuna, vorremmo andare a vivere in un futuro non troppo lontano,  e di cui mi sto innamorando sempre più, dedicandole cure, attenzioni, tempo ed energie, ma che sta prosciugando le nostre risorse; e ancora, tutte le paure e le gioie legate ai figli e al resto della famiglia “allargata”.

E poi c’è il lavoro, gli alti e bassi, fasi di “stanca”, con tutte le preoccupazioni che comportano, finanziarie e di altra natura, e le fasi di improvvisa esplosione, quando tutto il mondo sembra aver bisogno di te (quasi in senso letterale, visto che ho ricevuto dagli Stati Uniti più lavoro in un mese di quanto me ne fosse arrivato nei precedenti quindici anni) e non riesci nemmeno a respirare. Nel frattempo, sono anche riuscita a ottenere la certificazione ISO. Sì, di pentole sul fuoco ne metto comunque sempre tante, e di solito riesco a non bruciare niente, o quasi.

Negli ultimi giorni, sono riuscita a trovare abbastanza tempo libero da guardarmi tutte le prime quattro stagioni di Downton Abbey, una serie che non avevo mai visto, ed è stato quasi un colpo di fulmine (a scoppio leggermente ritardato, ma non troppo). Ora devo recuperare le ultime due, ma devo trovarle in inglese. Il cofanetto delle prime quattro contiene alcuni episodi in italiano e inglese (con sottotitoli solo in italiano) e alcuni, inspiegabilmente, in italiano e russo. Da traduttrice, capisco bene le difficoltà di doppiaggio e sottotitolazione e capisco che è stato fatto un ottimo lavoro. Resta il fatto che si perde moltissimo. In alcuni casi, con la lingua e la voce sembra cambiare addirittura il carattere dei personaggi, persino l’atmosfera stessa, che dopotutto, è una parte tutt’altro che secondaria del fascino della serie. Comunque, se riesco ne parlerò magari nel prossimo post. Non vorrei passasse di nuovo così tanto tempo tra uno e l’altro.

Però a qualcosa bisogna rinunciare, e per un po’ è stata la scrittura. Spero non sia per molto.

Il senso di scrivere

La scrittura è una fuga, un’ostinazione, un senso vietato, un frullar d’ali, un vuoto a perdere, un rifugio, un guscio, una ferita.

È stare in prima linea, è evitare la battaglia, è un modo indecente di esporsi, nudi e senza cornice, è un quadro, un nascondiglio, la ricerca di una platea, una smania incompiuta di silenzio.

Inizia dal basso, come una piccola scossa che sale su dai piedi, viene dal tuo corpo e lo ricostruisce ogni volta.

È una soluzione di ripiego, una ribellione meno scomoda, un cambiamento minuscolo e testardo. È un’utopia, un miraggio, la forza della realtà, prendersi la responsabilità con incoscienza, è spingersi al limite, è cancellare il limite per distrazione e leggerezza, è immaginarsi un criterio diverso, un’irriverenza rispettosa, senza senso come portar l’acqua con le orecchie, perché l’amore implica sempre una contraddizione.

Il blog (e la scrittura): passione indisciplinata

Sono disordinata, sconclusionata, disorganica, lo sapete. Non sempre, qualche volta. Per scelta, più spesso che no. Faccio duemila cose perché ne inizio cinquecento e poi devio, vado un po’ qua e un po’ là, ne incontro altre, mi lascio incantare e perdo la strada, trovo altri sentieri nascosti.

Tutto questo per dire che ho iniziato tante rubriche e sono anche riuscita, per qualche tempo, a seguirle con una certa regolarità, ma credo che questo non sia il momento adatto per proseguire in quel modo. Scriverò, d’ora in poi e non so per quanto, forse per sempre, quello che voglio quando ho tempo e quando mi viene, per cui può essere che un giorno posti tre articoli, o chissà, magari quattro o cinque, e poi non scriva per una settimana. Come già sta accadendo, del resto, sto solo prendendo maggiore consapevolezza del fatto.

Scrivere è una fatica, bellissima, ma una fatica. Molta della sua bellezza sta, per me, nel fatto che è una fatica non organica, non sistematica, indisciplinata. Alla fine, mi ci sono voluti oltre cinquant’anni, ma ho capito che ogni volta che comincio a fare qualcosa con una cadenza fissa, perdo la passione, e quella, proprio non voglio perderla.

Quindi ecco, volevo dirvi, non aspettate il Robin’s Monday o il Sabatoblogger o il Cinema del Martedì, o la Lettrice della Domenica (e poi la musica, allora? e i viaggi? e…) perché mi sa che tutto potrà succedere in qualunque giorno della settimana…

Spostamenti

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Basta un’influenza a scompigliare un po’ tutto. Sono dieci giorni che non scrivo sul blog e non mi ero resa conto che fosse passato tanto tempo. Quando avevo la febbre e gli altri spiacevoli effetti dell’influenza, ero troppo a terra per lavorare o fare altro che dormire e sonnecchiando guardarmi passivamente qualche filmetto carino ma poco impegnativo (la cosa migliore che ho visto? Kate & Leopold, peraltro era la seconda volta).

Quando ho cominciato a star meglio (in un giorno o due, poi, mica una vita), mi sono messa a scrivere e scrivere. Ho tra l’altro editato ancora un po’ il vecchio romanzo che a suo tempo avevo postato anche qui. Un romanzo di persone colte, mi è stato fatto notare. E di persone molto ragionevoli (come io cerco di essere, ovviamente senza riuscirci bene come loro, che sono pur sempre personaggi, benché voglia loro bene come se fossero persone). La cosiddetta “realtà” di cui si parla (che è poi la realtà nel suo aspetto peggiore, non l’unico) ci entra quasi “di straforo”, attraverso il lavoro della protagonista. In effetti, sì, parlo di persone per le quali la cultura è vita, respiro, movimento. Persone che esistono, e che non stanno nei salotti a guardare il mondo da dentro la loro torre d’avorio, ma che amano, soffrono perdite, tradiscono e lavorano e si contraddicono esattamente come gli altri, forse con un po’ di consapevolezza in più, perché hanno qualche strumento in più per leggere sé stessi e ciò che li circonda. Non sono “lontani dalla gente”, sono “gente” anche loro, anche se non si urlano in faccia, non bestemmiano, dicono poche parolacce, si parlano cercando di comunicare in modo per quanto possibile chiaro e onesto.

Perché io credo che la strada sia questa. L’unica strada per la libertà, per venire a patti con la finitezza della vita, per sopportare il dolore e vivere pienamente la bellezza e la gioia. È la mia utopia, ma è anche quello a cui sono arrivata al termine di una ricerca non facile e fatta interamente sulla mia pelle. Di cose brutte potrei parlarne, eccome. Ho preferito dare spazio a quello che secondo me può rendere la vita migliore, perché i mostri che sono dentro di noi sono già in molti a descriverli, e molto meglio di me.

Sono andata avanti anche col nuovo libro, che c’entra col femminismo, con l’ambiente, con i rapporti tra uomini e donne, con il viaggio e la conquista e anche con le trappole del mondo cosiddetto “civilizzato”, ma sempre per una via (tortuosa e se vogliamo anche molto avventurosa e irta di ostacoli) tutta sua.

Ho iniziato una lista di cose da fare “prima di morire”, o piuttosto diciamo nei prossimi dieci anni, possibilmente anche meno. Al momento sono a tre: provare il deltaplano, nuotare con i delfini e vedere i parchi della California (percorrendo, prima, la rotta del Corps of Discovery almeno dal Dakota in poi). Forse arriverò a dieci, o a sette, o mi fermerò qui. Sono tutti numeri magici. Il mondo possiede davvero una stupefacente bellezza, a cui diamo poco valore per via del fatto che siamo mortali, ma potremmo ribaltare la prospettiva e pensare che questo ci dovrebbe “costringere” a dare valore soltanto a ciò che davvero ne ha, ad appassionarci profondamente e a vivere e morire per l’intensità di quello che facciamo e delle emozioni che proviamo.  E sì, sto pensando tra l’altro a Daniele Nardi, che non conoscevo e che aveva una passione che io non ho, ma la cui vicenda mi ha commossa per un aspetto in cui spero un giorno di poter dire di riconoscermi: decidere che vuoi fare una cosa, prendere e andare, perché nessuno può farla al posto tuo e perché vivere è questo, non c’è altro modo, il resto è restare fermi in un posto dove qualcuno ti ha messo a tua insaputa. e rassegnarsi a star lì fino a quando quello stesso qualcuno, sempre a tua insaputa, ti sposterà.

L’ora della battaglia è passata

Al supermercato, davanti
alle marche di pasta sciorinate
a profusione, quasi svenivo,
come il tuo Volodya,
assetato di bellezza
al reparto del caffè.
Il troppo ci annega,
è tempo di piantare le peonie,
di coltivare la pienezza
dei nidi e delle foglie,
tempo di immaginarsi piccoli,
alleggerire la valigia sulle spalle,
far pace con la manchevolezza.
L’ora della battaglia è passata,
lasciatemi piangere i miei morti,
torno a scrivere la guerra in versi,
c’è meno rischio di uccidersi e morire
ma il sangue scorre a fiumi
dalle nostre vertebre alle tempie,
fino a quell’ombra nell’ombra,
la sola capace di captare
l’impercettibile suono
di un cuore che si sbaglia.

Sì, mi sono ritirata, non scendo più nelle piazze, non manifesto, non parto lancia in resta a discutere con chi ha una visione del mondo inconciliabile con la mia. Lo facevo. E qualche volta mi pesa aver smesso. Ma oggi so che ci si può incontrare nel verso di una poesia, in due righe di un racconto, in un autore comunemente amato, anche quando su tutto il resto non c’è una cosa su cui si vada d’accordo. La mia, oggi, è una battaglia per cercare il nucleo che può farci rispecchiare e riconoscere in chiunque altro, anche solo per un momento, anche solo per una parola.

Robin’s Monday – L’arco della vita

Helen – Non puoi vivere nel passato.
Garp – No, però posso vivere nel presente e pensare al passato.
Helen – È una cosa che si fa da vecchi, quando si hanno i capelli bianchi.
Garp – Oh, al diavolo. Probabilmente non me lo ricorderò, il passato, quando avrò i capelli bianchi. Devi farlo da giovane. È una cosa bellissima, non trovi? Guardare indietro e vedere l’arco della tua vita, come tutto è collegato. Da dove sei partito e come sei arrivato fin qui. La linea, capisci. È stata davvero un’avventura.
Helen – Riprenderò a insegnare.
Garp – Io proverò il deltaplano.

(da: Il mondo secondo Garp)

Esibirsi davanti a un pubblico è un po’ come andare in deltaplano o volare. Interpretare Garp è stato più un processo di erosione. È come affogare, come correre per salvarti la vita. Non ho punti di riferimento. (…) È un territorio del tutto sconosciuto, come trovarsi in combattimento.

Ho finito un giorno di riprese una volta e ho pensato ‘Dio, sono morto’. Benché si trattasse di una sola scena, avevo questa bizzarra sensazione, e dopo ho pianto per un paio d’ore.

Alla fine, quando vedrò il film, mi guarderò indietro e dirò ‘ce l’ho fatta’, e ne sarò orgoglioso. Mi sento orgoglioso anche adesso, solo che non posso dirlo, appunto perché non è ancora finito.’ (…)

Ho bisogno di provare cose nuove – come Garp – spingermi oltre, cogliere nuove opportunità. Perché la mia più grande paura è quella di diventare mediocre, ripiombare nella solita routine, riproporre sempre la stessa roba stantia e non riuscire a trovare niente di nuovo. Vale anche per la vita, cerco di non atrofizzarmi, ho questo timore di ripiombare indietro, richiudermi di nuovo in me stesso (…)

Ho dovuto entrare in me stesso profondamente, indagare su cose dolorose e meravigliose. (…)

(Da un paio di interviste fatte a Robin Williams per il film).

Non è la prima volta che riporto quel dialogo, che mi ha colpita da subito, tratto da un film che amo moltissimo; né è la prima volta che cito questi pensieri in cui (non è strano) mi rispecchio profondamente, anche se nel mio caso valgono per la scrittura. Le traduzioni sono mie, i pensieri ogni tanto mi fa bene ri-conoscerli.

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Tra montagne e fiumi e rocce infuocate…

Tra montagne e fiumi, rocce infuocate e freddi gelidi, fame e sete e inondazioni, lupi, orsi e uccelli e fiori, anche il mio terzo libro (secondo romanzo) sta arrivando al termine e adesso mi aspetta un bel lavoro di revisione. Alla mia fanciulla, alla quale sono molto affezionata, ho regalato una storia d’amore preziosa, di quelle che nutrono. Dopotutto se la merita. Per il momento scrivere migliora la mia vita e questo è quello che conta, quanto a pubblicare, vedremo, forse mi deciderò a farlo da me, anche se non sono del tutto convinta… ma intanto almeno qualcuno leggerebbe…

Di istinto e di scrittura

Ha ragione alla fine chi dice: segui l’istinto. Che può ben essere aiutato da altri, quando percepisci che ti hanno “vista” e capita anche oltre le parole. Anche dalla ragione, ci mancherebbe. Ma alla fine devi sentire con forza dentro di te il momento in cui arrivi a qualcosa che è giusto per te, profondamente vero e onesto. Sentire che in fondo era quello che volevi scrivere davvero fin dall’inizio. Magari qualcuno se n’è accorto prima di te, ma solo tu puoi sapere fino a che punto. Per le rifiniture c’è sempre tempo, ma io so che con alcune osservazioni che ho accolto, il libro sta arrivando a un bellissimo traguardo, un momento in cui posso davvero posarlo e lasciare che vada, consapevole di aver dato quello che volevo e potevo dare. Grazie a chi lo ha letto e a chi, spero, lo leggerà.