Invecchiare con grazia

Invecchiare con grazia. Già, è una parola. Ci si prova, in mancanza di valide alternative; ma resta il fatto che l’immagine di te che hai dentro resta più o meno uguale, ed è quella che ti aspetti di ritrovare nello specchio, mentre lo specchio racconta un’altra storia, e la faccia che ci vedi lì smette di corrispondere a quella che credevi di conoscere meglio di qualunque altra.

Si invecchia comunque, con grazia o senza. E la mareggiata mi lascia un sapore dolceamaro di scelte fatte per far piacere ad altri più che a me stessa. Scelte che qualche volta si sono rivelate comunque giuste, e qualche volta no. Qualche volta mi hanno comunque portato, attraverso percorsi tortuosi e nient’affatto geometrici, verso la realizzazione di un qualche tipo di sogno, e qualche volta no. È il momento per me di decidere davvero, una volta per tutte, quello che desidero fare, e imperniare la mia vita su quel desiderio.

In uno dei primi ricordi che ho, ero sotto un tavolo.

Credo fosse una stanza dei giochi. Da successivi racconti di mia madre, ho dedotto che forse si trattava del posto dove mi aveva portato una volta o due nel tentativo, del tutto fallimentare, di farmi avvicinare all’inglese prima del tempo. Era la lingua di mio padre, dopotutto. Ed era per questo che lo odiavo, ed è per questo che dopo l’ho tanto amato.

Ecco, penso di aver trascorso un sacco di tempo sotto qualche tavolo, nella mia vita. Di solito era un tavolo metaforico, ma la ragione era sempre la stessa: volevo giocare, volevo conoscere gli altri, volevo scrivere, volevo fare la regista, la professoressa, volevo lavorare all’estero, volevo, volevo, volevo; ma la paura è (quasi) sempre stata più forte.

All’asilo, nel pomeriggio, ci facevano stare con “le mani in seconda”, braccia appoggiate al banco e testa sulle braccia, per fare il riposino. Avevo tante cose da fare, da immaginare, ed ero lì costretta su quel maledetto banco a far finta di dormire.

Da lì mi è rimasta una fortissima resistenza a dormire al pomeriggio – non lo faccio mai, a meno che non sia completamente sfinita – e un odore di pasta al sugo di cui non ho mai più sentito l’uguale, ma che doveva essere davvero insopportabile. Qualche volta, mi pare di avvertire qualcosa di simile, ed è sempre in luoghi e momenti sgradevoli. Avrei preferito le madeleines.

Dovevo apparire davvero infelice, e mia madre decise di risolvere la situazione. Mi mandò a scuola in anticipo, a cinque anni, a costo di iscrivermi a una scuola privata, perché quella pubblica al tempo non accettava primini sotto i sei anni.

Di quella scuola non ho praticamente nessun ricordo, pare che tutto sommato mi trovassi abbastanza bene. Solo che ebbero la cattiva idea di dire a mia madre che ero un genio. Se lei aveva avuto qualche dubbio sul farmi proseguire le elementari lì, quella frase infelice lo eliminò definitivamente: non che ci credesse molto, a quella faccenda del genio, ma anche la vaga possibilità che io potessi essere non “normale” la metteva in ansia, e a ogni buon conto mi iscrisse alla scuola pubblica già dalla seconda. Che io fossi “normale” è sempre stato il suo più grande desiderio per me, qualunque cosa questo significhi.

Sarei diventata un genio, se lei non avesse avuto questa ansia?

Improbabile. Molto improbabile. Tanto per cominciare, sono sempre stata troppo dispersiva.

Eppure, il tarlo… sarei diventata una scrittrice all’età giusta? Avrei smesso di inseguire una passione nuova ogni venti giorni e mi sarei accasata con uno o due sogni grandi, ardenti abbastanza da costruirci intorno una vita?

Improbabile, molto improbabile, anche questo. Soprattutto visto come sono andate le cose nella parte successiva della mia infanzia. E comunque, è passato. Quello che conta è l’oggi.

Il fatto è che oggi mi ritrovo con un sacco di passioni, sogni, cose, pensieri, e quando credo di essermi messa in testa di realizzare davvero qualcosa, mi scontro con una sfilza di ormai. Parola che odio, ma tant’è. La faccia che conosco non lo direbbe, ma lo specchio, il malefico specchio dei miei stivali, qualche volta mi illude, dai, su, sei sempre tu, quella di sempre, più o meno, qualche segno, che sarà mai, e poi torna con la sua liscia superficie argentata e maligna a tormentarmi ancora con quella stessa parola sussurrata all’orecchio. Ormai

A volte, invece, ho ancora la sensazione di avere tutto il tempo davanti. Mentre ascolto la musica che ascoltavo anni fa, oppure quella che avrei dovuto ascoltare, ma scoprirla adesso è un privilegio, il privilegio di chi si emoziona per la prima volta e pensa che nessuno mai abbia provato niente di simile; e poi la musica nuova, quella che per la maggior parte delle persone della mia età è rumore; e anche per me, spesso. Ma qualche volta mi piace, e mi commuovo all’idea che nulla si distrugge e tutto si ricrea, e le cose belle non muoiono, comunque. E scopro e riscopro il cinema (e le serie tv). E ricomincio a leggere. E penso di tornare su libri che ho dimenticato, e di riempirmi la libreria e la testa di libri nuovi, e di andare a teatro. E il deltaplano, e il cavallo, il pianoforte, il giardino, i cani e i cavalli (futuri), la patente da prendere, la bici elettrica, e tutte queste salite e discese… quanto tempo ho? Tutto quello che c’è, giorni, ore, minuti e secondi. Ma più di ogni altra cosa, il senso di infinito me lo dà scrivere.

Scrivere è una fatica enorme. Non sempre ne ho voglia, ma è una fiamma che brucia, sempre. A volte penso che te lo devo, ma no, lo devo a me. Di tutte quelle cose, passioni, voglie e quant’altro, è quella che dura da più tempo; insieme al giardino, forse, ma scrivere mi costa di più, mi prosciuga molto più di quanto non lo faccia vangare e zappare ed estirpare erbacce. Tu sai che più forte è la corrente di amore e desiderio che ti trascina verso un mestiere o una passione (o un mestiere che sia anche una passione, e viceversa), più forte è quel senso di gioia e appagamento che riesce a farti provare, più intenso è il dolore che sta dall’altra parte della medaglia. E viceversa.

Ormai lo buttiamo nel tritarifiuti insieme allo sfalcio e ne facciamo pacciamatura per il giardino, che dici? Nel giardino di agosto fioriscono le dalie, l’ibisco, la vinca, e persino le rose. Quest’anno ci pianto anche un hamamelis e un calicanto, per avere colore il prossimo inverno. E insomma, lo vedi, io sto scrivendo.

Ricominciare a scrivere

è una priorità.

Stasera mi è tornata la voglia di scrivere di te. Mi suona strano tornare a rivolgermi direttamente a te, come facevo ormai un bel po’ di tempo fa. L’ho fatto per anni, e poi per un pezzo ho smesso, e ogni tanto riprendo, ma non è più così naturale, quasi inevitabile, come mi sembrava allora.

Non vorrei perdere niente, pensavo stasera, né cose né persone, ma le cose si perdono comunque, e poi la mia distrazione è proverbiale. Anche le persone, qualche volta, si perdono.

Non pensavo a te, ché a te non ti ho mai avuto, ma non ti ho mai nemmeno perso, e non intendo certo farlo adesso. A te, non ti perderò mai, niente può cambiare questo fatto. Nel tempo in cui non ti ho scritto, non ho certo smesso di pensarti. Ti ho solo pensato in un altro modo, facendo altre cose, ricordandoti attraverso la costruzione di altre memorie.

Pensavo, invece, alle persone incontrate ed entrate poi, per poco o per tanto tempo, nella mia vita, conoscenze, amicizie, simpatie, persone con cui ho avvertito un’affinità. Persone con cui a volte sono entrata in intimità, e non parlo tanto di amore, quanto di confidenza, di uno scambio di segreti anche minuscoli, ma importanti. E con le quali adesso non ci si sente più, per tante ragioni.

E allora sai cosa pensavo, che in te, in quella strana distanza-vicinanza, in quel non averti avuto e non averti mai perso, ci sono tutte quelle cose e persone mai dimenticate, tutto quello che è stato detto e ascoltato, tutto quell’amore che c’è e che non posso dare a nessun altro, perché può appartenere solo ai protagonisti di quei ricordi perduti e a te, che non sei memoria né presenza, ma che non ho mai potuto fare a meno di amare.

Che non ho mai voluto fare a meno di amare.

Il senso di scrivere

La scrittura è una fuga, un’ostinazione, un senso vietato, un frullar d’ali, un vuoto a perdere, un rifugio, un guscio, una ferita.

È stare in prima linea, è evitare la battaglia, è un modo indecente di esporsi, nudi e senza cornice, è un quadro, un nascondiglio, la ricerca di una platea, una smania incompiuta di silenzio.

Inizia dal basso, come una piccola scossa che sale su dai piedi, viene dal tuo corpo e lo ricostruisce ogni volta.

È una soluzione di ripiego, una ribellione meno scomoda, un cambiamento minuscolo e testardo. È un’utopia, un miraggio, la forza della realtà, prendersi la responsabilità con incoscienza, è spingersi al limite, è cancellare il limite per distrazione e leggerezza, è immaginarsi un criterio diverso, un’irriverenza rispettosa, senza senso come portar l’acqua con le orecchie, perché l’amore implica sempre una contraddizione.

Sì, viaggiare

Viaggia, esplora, scopri il mondo, offerte pazzesche, hotels ai prezzi più bassi di tutti i tempi, sconti strepitosi sui voli, tra un  po’ mi pagheranno per alloggiare in un albergo, prendere un aereo, sperando di guadagnarci poi su altro, ché spendere, chi viaggia spende sempre.

Sai che partirei domani, no, stanotte, tra un’ora, anzi, subito, senza valige o altri ingombri, e sai cosa vorrei vedere, dove mi fermerei, dove abiterei, senza voglia di tornare, se non per poco.

Stamattina mi usciva sangue dal naso, Sciocchezze. Un po’ d’aria secca. Ma ho pensato che voglio ricominciare da zero, no, da zero no, forse ricominciare da tre o quattro, ma ricominciare, portandomi dietro pochissimo. Un luogo dove i vicini, quando arrivi, vengono a salutarti, e se non lo fanno, diventerei capace di farlo io. Una tavola sempre apparecchiata, una casa sempre aperta, ce la farei? Forse, ma comunque da un’altra parte, in un luogo geografico ed emozionale ben preciso, perché qui non mi sto atrofizzando solo io, troppa parte del mondo intorno a me si è atrofizzata, e hai un bel dire devi combattere da dentro, io mi sono stancata di combattere, che sia da dentro o da fuori.

Non è insegnando, che ti trovo, come credevo, sbagliando. È nel cambiamento. Nel cambiamento e nella scrittura e in un luogo che essendo casa tua, è anche necessariamente casa mia. Poi certo, nel frattempo continuo a combattere qui, ora, da dentro e da fuori. Ma in quel posto che sai, c’è sempre il mio cappello. È là che voglio scrivere, è là che voglio essere. Almeno in sogno. Per ora.

Tra montagne e fiumi e rocce infuocate…

Tra montagne e fiumi, rocce infuocate e freddi gelidi, fame e sete e inondazioni, lupi, orsi e uccelli e fiori, anche il mio terzo libro (secondo romanzo) sta arrivando al termine e adesso mi aspetta un bel lavoro di revisione. Alla mia fanciulla, alla quale sono molto affezionata, ho regalato una storia d’amore preziosa, di quelle che nutrono. Dopotutto se la merita. Per il momento scrivere migliora la mia vita e questo è quello che conta, quanto a pubblicare, vedremo, forse mi deciderò a farlo da me, anche se non sono del tutto convinta… ma intanto almeno qualcuno leggerebbe…

Ancora sulle crisi fertili

Forse mi è utile essere più chiara sulla ragione della “crisi” di cui parlavo nel mio post precedente, perché se è stata interpretata come una crisi di ansia, o una crisi legata a un lasciare troppo spazio alla ragione rispetto all’istinto, forse un motivo c’è e (mi) vale la pena esplorarlo. In realtà succede questo: che quando altri leggono i tuoi scritti, specialmente se lo fanno con attenzione e coinvolgimento, ti aprono sempre nuovi scenari, punti di vista, nuove chiavi di interpretazione. Non è un caso se si dice che una volta che “lasci andare” una tua “opera”, di fatto non ti appartiene più, o comunque appartiene in buona misura anche ai lettori.

C’entra forse anche l’annosa questione “quanto è giusto andare incontro al pubblico” quando non si ha intenzione di scrivere un bestseller a tavolino, ma comunque ovviamente fa piacere che quanto si è scritto non  rimanga a prendere polvere sugli scaffali (altrimenti, tanto valeva lasciarlo nel cassetto e non condividerlo proprio). In realtà non è tanto questo che occupa la mia mente, anche perché il “pubblico” ha innumerevoli teste, diciamo così. Probabilmente entro certi limiti mettersi nei panni del lettore è giusto e necessario, ma resta il fatto che non ci si può mettere nei panni di “tutti” i lettori, ed è importante avere prima di tutto un’idea chiara di quello che “vogliamo dire” e di come “vogliamo dirlo”, della “nostra via”.

Però, ci sono prospettive e punti di vista che ti colpiscono, magari (anche) perché sono del tutto diversi da quelli che avevi in mente, eppure in qualche modo ti appartengono (altrimenti non ci sarebbe nessuna crisi). Ti spingono a metterti in discussione anche nel senso di chiederti “ho davvero detto quello che volevo dire, e nel modo in cui volevo dirlo”?

Forse chi scrive è portato a interrogarsi anche troppo, ma spesso interroga sé stesso, e può essere un peccato. La confusione momentanea che può venire da una lettura altrui forse è più proficua di ore e ore passate a leggere e rileggere da sé il proprio lavoro, e per questo parlavo di una crisi “fertile”. E mi serve anche parlarne qui, in quella che dopotutto, come ho detto altre volte, è la mia casa letteraria.

 

Crisi (vogliononvogliopossononposso)

Tra ieri sera e stamattina sono andata un po’ in crisi. Ci si sono messe un po’ di cose, la rinuncia definitiva al nuovo ufficio per ragioni di costi, l’esigenza, non sempre rispettata, che il mio lavoro venga riconosciuto in famiglia, certe critiche che non mando giù, metteteci anche l’età, un libro di poesie che avrebbe dovuto essere pubblicato questo mese ma mi sa che non vedrà la luce per un bel pezzo, e poi quest’altro libro che adesso sembra “non volermi lasciar andare”, mentre io ero propensa a ritenerlo finito, chiuso, e tornarci sopra ancora è un’esperienza intensa, forse preziosa ma non semplice.

Comunque, quando si dice che le crisi possono essere fertili, qualche volta è vero. E poi mi godo il felice momento con i ragazzi, il grande che ha passato l’esame di teoria per la patente e ha iniziato le guide, il “piccolo” che è più affettuoso che mai e inizia a guardarsi intorno per capire la persona che vorrebbe diventare, avendo un po’ più l’idea che può farcela.

Tanto che pensavo, e se ci rinunciassi del tutto? Non a scrivere, ovviamente (non potrei mai), ma a pubblicare. Se tornassi a scrivere solo per me e per chi ha voglia di leggere, senza questi stress, questi sbalzi d’umore, queste paturnie? Con maggiore libertà e forse maggiore freschezza?

In realtà, passato il momento di sconforto, è tornata l’idea di continuare a provarci, e vada come vada, però uff, che patema, come se non bastassero gli squilibri ormonali (che in realtà secondo me non ho affatto, è tutta solo tensione da celafarònoncelafaròvogliononvogliopossononpossodevo)…

I’m flying

Dormo poco in questo periodo. Mi capita spesso di svegliarmi verso le due, le tre di notte e sentir poi suonare le tre, le quattro, le cinque… poi assopirmi per svegliarmi definitivamente tra le sette e le nove, a volte anche prima, mai più tardi. Dovrei alzarmi e scrivere, tanto so che quando è così, non c’è verso. Non ho sonno, non mi agito, non sono affaticata. Solo, non dormo. Le parole da scrivere scalpitano, questo sì. Forse è segno che dovrei osare davvero, alzarmi, scrivere a quell’ora in cui l’istinto è più attivo, la mente razionale meno allerta.

Stanotte mi sono alzata, ma solo per uscire fuori un momento a guardare il cielo. Non le stelle cadenti, sapevo già che non ne avrei viste, quelle che mi interessano adesso sono le stelle che restano, quel magnifico insieme di puntini che illuminano un percorso, e che ritrovi sempre là, al loro posto, che i desideri li rischiarano, più che realizzarli, perché non è quello il loro compito.

Oggi, nonostante tutto, sono felice. Mi prendo cura di alcune cose importanti, concrete, ed è uno dei modi di prendermi cura dei pensieri che ti appartengono. Non ti aspetto solo in quel luogo tra il sonno e la veglia, ti aspetto mettendo i piedi in terra e ascoltando il modo in cui quel contatto mi vibra dentro, ti aspetto nelle parole che vorrei inventare e in quelle che penso di sapere e che cerco inutilmente, ma ti vivo profondamente nelle parole che arrivano e che metto sul foglio, anche quando poi decido di cambiarle. Cerco nuove angolazioni, strade diverse, mi ribello ed è la tua ribellione poetica, così forte, così impregnata di mondo, di persone, di luoghi.

E penso che questo è un anniversario di vita, non di morte.

I’m flying
Yes, my love”

(da: The World According to Garp)

Di amore e di infinito, di scrittura e di farfalle, e di tante cose di enorme importanza a cui non so dare un nome

E’ che con gli occhi e l’immaginazione possiamo vedere l’infinito e l’eterno, ma l’evidenza ci riporta ogni giorno alla finitezza. Non abbiamo spalle abbastanza forti da reggere a questo contrasto così grande e difficile. Forse è per questo che ce la prendiamo col primo che capita. Perché la verità è che ce l’abbiamo con la vita, e con la nostra incapacità di viverla davvero, con tutta l’intensità possibile.
Quando invece accogliamo questo contrasto come una cosa che c’è, che esiste e che ha un suo valore, si apre quel varco che è ferita ma anche apertura. Da lì entra la musica e ogni forma di canto, di arte. Tutto nasce da un dolore che ci scava dentro, ma che possiamo imparare ad amare quando ci accorgiamo che è quel dolore a dare forma a tutte le cose più preziose che abbiamo creato.

“Non t’ingannavi, sai, sulla dolcezza delle cose.
Non t’ingannavi su quella cenere nell’acqua
in cui certo c’è più vita che in un legno morto sottoterra
e si conserva meglio la tua fede
nella metamorfosi delle farfalle.
La mia lucciola m’illumina il respiro, sussurra
la sua musica d’ali quando la pioggia si rovescia
e tuona e lampeggia e sradica e piega
i rami, forse, ma non la sottile bellezza della sua danza d’insetto.
M’inchino al suo risalire la corrente come i salmoni il fiume
ma con la leggerezza infinita dell’effimero
quel suo indomito cogliere il vento a farne volo…”

[alcuni versi dalla mia poesia La metamorfosi delle farfalle]

Nemmeno a farlo apposta, in questi giorni ti vedo dovunque. E’ uscito un nuovo documentario che non vedo l’ora di guardare, credo mostrerà molte delle tue infinite sfaccettature di uomo poliedrico ma di rara coerenza, uno dei pochissimi che potesse davvero permettersi di dire, con cognizione di causa e dopo essersi cercato con grande fatica e tenacia, “io so chi sono”. È uscita una biografia che dicono bellissima e che ho già a casa, aspetto solo la calma per poterla leggere come si deve. Ma non è solo questo. È che sento parlare di un saluto e penso ai saluti che ti inventavi, vedo un sorriso ed è il tuo, guardo Trump e quella che vedo è la tua caricatura, cerco di guardare un comico e non ci riesco, perché nessuno potrà mai raggiungere quelle vette di capacità di far ridere, con un amore così grande per le persone che vuoi far ridere.

Devo tornare alla prosa, pensavo. Dovunque mi giro, ci sei. E se il cuore continua a balzarmi nel petto ogni volta che ti vedo e che ti ascolto parlare, se tutto congiura con la mia testarda memoria per non far affievolire il ricordo neanche per un attimo, vuol dire che è il momento in cui il mio raccontarti deve riprendere la forma in cui è nato. Cambiando forse punto di vista ancora una volta, perché per ogni sfaccettatura cambia la luce nella mia vita, e a me sono tutte necessarie.

Perché poi, si discuteva di scrittura, e di questo benedetto potere delle parole, che non si sa se esiste, e quanto sia grande, e dove si possa trovarlo, certo non ha senso cercare di convincere altri contrapponendo a una verità prepotentemente affermata come unica, un’altra verità unica. La verità, se c’è uno che lo sapeva meglio di tutti gli altri, poi, eri proprio tu, è un’ombra sfuggente che si cerca sotto le rocce, continuamente, perché è una ricerca che non finisce mai, ed è proprio questo il bello. Eppure, “io so chi sono”: quella meravigliosa pienezza che rendeva unici i tuoi occhi, che anche dove la nebbia era più fitta, non ti ha mai fatto dubitare di poter stare al timone, e di poter dirigere la nave nella direzione giusta.

E in questo casino di vita, emozioni, scrittura e riflessioni varie, mi è venuto da pensare anche che a forza di tuonare contro il buonismo, che per carità è odioso, si rischia di non sapere più qual è il limite della cattiveria. C’è un egoismo sano, che permette di prendersi cura di sé e quindi poi anche degli altri. C’è un egoismo malato che è indifferenza, che invece di chiedere indagini serie e approfondite su eventuali casi di malaffare e sfruttamento, preferisce fare di ogni erba un fascio e approfittarne per non doversi mettere in nessun modo nei panni degli altri. Il buonismo è quello di chi espone crocifissi e gattini e buongiornissimi e meme edificanti, e poi dimentica la fratellanza.
C’è un intenso bisogno di libertà e non so quando questo bisogno si è trasformato in un bisogno di ingabbiarsi in schemi rigidissimi protetti da muri invalicabili. “C’è parecchio materiale su cui discutere”, dicevi tu, “ma bisognerebbe discuterne apertamente. Affrontare i problemi, proporre punti di vista e soluzioni, invece di utilizzare attacchi personali. Parlare, parlare davvero, parlare dell’immigrazione, dell’istruzione, dell’inquinamento”. Come avevo scritto in quel famoso libro che adesso dovrò riprendere, cerco di immaginare cosa diresti di certi personaggi, di certi comportamenti. Mi pare a volte di conoscerla così bene, la tua ironia, da poterti ancora sentire, ed è un balsamo. A volte eccessiva, smodata, nel senso per me positivo di non moderata; talvolta sottile, sempre tagliente, certo incisa nel personale dolore di troppe cose che non avresti condiviso, anche se forse non te ne saresti troppo stupito. Probabilmente, a dire il vero, neanche un po’.
Devo tornare a tuffarmi nel tuo sguardo, perché forse, come te, posso imparare a parlare di me per entrare profondamente negli altri. L’intensità non è mai eccessiva.

Addio al sassofono

Un momento davvero intensissimo sotto ogni punto di vista. Tippete ancora manca, specialmente in certi momenti, quando gli avrei preparato da mangiare, o quando si sentono certi rumori e ci voltiamo di scatto, quasi aspettandoci davvero di vederlo saltar giù da una sedia, o saltarci sopra, muovendo nel processo tutto quello che può esserci intorno.

I premi letterari sono soddisfazioni enormi, viaggi bellissimi e sfiancanti, desideri che si realizzano e desideri nuovi.

Col figlio “piccolo” si parla, lo si tiene tra le braccia, si sta a distanza quando è il caso, si protegge e si lascia andare, si culla quando sembra davvero più “bambino” e si accompagnano i momenti in cui la crescita diventa evidente tutt’a un tratto e intravedi l’uomo che speri diventerà, difficile, inquieto e splendido.

Col figlio grande si parla, si ascoltano soprattutto i suoi silenzi, il non detto, si guardano i gesti, le cose pratiche che per lui sostituiscono quasi sempre le parole, si cerca un raro sorriso, la traccia di un dolore che forse non c’è, o forse tiene dentro.

Negli ultimi dieci giorni ho stralavorato, a compensare il lavoro che era mancato per quasi un mese, tra ricoveri e altro. Aspetto quella piccola operazione, e l’attesa, si sa, è snervante. Mi sento spesso più debole, come se l’età che prima non contava, se non molto poco, adesso si prendesse il suo spazio, ho meno energia, giornate meno lunghe.

Però scrivo, in questi due ultimi giorni, perché per una settimana è stato impossibile, non riuscivo neanche a vedere dieci minuti di film, niente. Ma adesso scrivo, tanto, e in questi momenti c’è una magnifica sensazione di fluidità, come se tutto andasse come deve andare, tutto si trovasse nel posto dove deve essere, almeno interiormente, che poi il mondo è un casino ma questo lo sappiamo.

E poi ci sei tu, che racchiudi ogni assenza e ogni presenza, ogni poesia e ogni piccolo passo, ogni stanchezza e ogni parola, ogni paura e ogni momento felice, la felicità dell’inizio e l’addio di un amico e di tutto quello che si lascia indietro, tutto in un unico sguardo, e in quel brivido che era quasi scomparso dalle mie labbra, e che ho ritrovato stasera. Un tuo sguardo, e io mi sento come se mi fossi persa e ritrovata nello stesso momento. Com’è bello guardarti. Perché a volte vorrei avere il coraggio di non farlo? Lo so, a volte costa fatica, ma il mio piccolo universo è tutto nel tuo sguardo.