Sepùlveda

No, non c’è un senso, è inutile cercarlo. Se c’è, sta semplicemente nel fatto che ci sia data, forse per caso, forse no, una possibilità su un fantastiliardo di avere una coscienza e farne qualcosa. Ecco, Sepùlveda di questa coscienza ne ha fatto più di qualcosa. L’ha usata a fondo, l’ha spremuta, tenuta costantemente sotto pressione, interrogata, amata, se ne è preso cura, l’ha ascoltata e usata fino all’ultima briciola. Questo, almeno, è quello che a me a sempre fatto pensare. Uno che vedeva chiaramente il valore della bontà e dell’allegria, perché la crudeltà e il dolore li aveva vissuti senza risparmiarsi mai. Uno che poteva permettersi di parlare di sogni, perché della realtà conosceva ogni aspetto, e che non ha mai parlato di coraggio perché non ne aveva bisogno, il coraggio gli respirava dentro. Ecco, Sepùlveda è un altro per cui, che ci sia o meno un significato più profondo, di questa possibilità su un fantastiliardo che è stata data anche a me e che mi permette di leggere, ascoltare musica e venire a contatto con certe persone, sono profondamente grata.

DECIMA TESTIMONIANZA
《Quando riposa il lungo treno si riuniscono gli amici…》 Questo treno, don Pablo, si è fermato già da troppo tempo, eppure il presagio della poesia si è compiuto ugualmente. Eccoci qua, noi amici, i Dodici della Fama, i dodici apostoli che tentano la resurrezione di un arrugginito drago britannico. Come tutti gli uomini, vogliamo realizzare un piccolo, minuscolo ma evidente miracolo, e lassù, sopra la macchina, c’è Juan Riquelme, il fuligginoso, uno di quei tanti modesti Juan, illustri sconosciuti, ma sicuri di riuscire a pulirsi le mani sporche di grasso in un pezzo di stoffa o di storia, di accendersi una sigaretta e, senza dare troppa importanza a quanto hanno realizzato, di dire al miracolo, come a Lazzaro, alzati e cammina!
Forse, don Pablo, stiamo scrivendo con ferri vecchi un nuovo verso che tirerà fuori per qualche istante il “lungo treno” dal suo giusto letargo.
E deve farcela. Se riusciamo a smuoverlo anche solo di un centimetro, sarà la vittoria, il trionfo dell’allegria sullo sputo dell’odio. E in questo mare di sabbia, sole, vento e sottile pioggerellina, questi Dodici Argonauti si preparano, perché come ha detto lei, don Pablo, “il ferroviere è marinaio in terra e nei piccoli porti senza mare”. (Da: Incontro d’amore in un paese in guerra).

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 15. Sepulveda

Le rose di Atacama          Sepúlveda è un autore che amo molto. Tra i suoi libri, questo è uno dei miei preferiti, se non il preferito, forse anche perché è stato il primo. Mi è stato regalato molti anni fa, e da lì mi è venuta voglia di leggere gli altri. Sono “storie marginali”, come le chiama l’autore, di eroi quotidiani, persone poco conosciute che fanno cose straordinarie solo per passione, senza clamore; o di eventi che restano nella memoria solo di chi li ha vissuti in prima persona, e di chi deciderà di leggere e sarà lì al momento giusto per cogliere lo spettacolo effimero di quei piccoli fiori rossi che sbocciano nel deserto per morire dopo poche ore. Le rose di Atacama, appunto. Un bellissimo libro.  In L’amore e la morte si parla di Zorba. Sì, il gatto di La gabbianella e il gatto. Che era anche un gatto realmente esistito, compagno amatissimo da tutta la famiglia dello scrittore. Per una di quelle coincidenze che ci emozionano di solito profondamente, a Zorba è stato diagnosticato un cancro incurabile proprio nel momento in cui Sepúlveda riceveva la prima copia del romanzo della Gabbianella appena uscito. E lui ha dovuto parlare ai suoi figli della morte. So che capirete questa citazione così lunga di un racconto tanto breve.

Ho lottato con le parole cercando quelle più adeguate per spiegare loro due terribili verità.

La prima era che Zorba, per una legge che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo accettare anche a spese del nostro orgoglio, sarebbe morto, come tutto e come tutti. La seconda era che dipendeva da noi evitargli una fine atroce e dolorosa, perché amare significa non soltanto fare la felicità dell’essere amato, ma anche evitargli le sofferenze e salvaguardare la sua dignità.

So che le lacrime dei miei figli mi accompagneranno per tutta la vita. Come mi sono sentito disgraziato, debole, davanti alla loro mancanza di difese. Come mi sono sentito miserabile davanti all’impossibilità di condividere la loro giusta ira, il loro rifiuto, il loro canto alla vita, le loro imprecazioni contro un Dio che per loro e solo per loro avrebbe trovato in me un credente, e anche davanti all’impossibilità di condividere le loro speranze, invocate con tutta la purezza degli uomini nel loro momento migliore.

La morale è un attributo o un’invenzione dell’umanità? Come potevo spiegare ai miei figli che avevo il dovere di salvaguardare la dignità e l’integrità di quell’esploratore di tetti, di quell’avventuriero dei giardini, terrore di ratti, scalatore di ippocastani, bullo di cortili al chiaro di luna, eterno abitante delle nostre conversazioni e dei nostri sogni?

Come potevo spiegare che ci sono malattie che hanno bisogno del calore e della compagnia dei sani, mentre altre sono solo un’agonia, solo un’indegna e terribile agonia, dove l’unico segno di vita è il veemente desiderio di morire?

E come rispondere al drastico “perché lui”? Il nostro compagno di passeggiate nella Selva Nera. Che gatto folle!, mormorava la gente quando lo vedeva correre accanto a noi oppure seduto sul portapacchi della bicicletta. Perché proprio lui? Il nostro gatto di mare che aveva navigato con noi su un veliero nelle acque del Kattegat. Il nostro gatto che, appena aprivo la portiera dell’auto, era il primo a salire, felice all’idea di viaggiare. Perché proprio lui? A che mi serviva aver vissuto tanto, se non sapevo rispondere a questa domanda?

Un nome da torero            L’avventura di un anomalo “investigatore” alla ricerca di un tesoro nascosto molto compromettente che è al tempo stesso, come sempre in Sepúlveda, l’occasione per parlare del suo Paese, di un passato pesante, di un’eredità impegnativa, del coraggio e della tentazione di rassegnarsi al “meno peggio”.

Incipit:

All’autista del Lucero de la Pampa si illuminarono gli occhi quando vide il cavaliere sul ciglio della strada. Erano cinque ore che teneva le pupille inchiodate sulla carreggiata diritta, e l’unica distrazione che ricordava erano un paio di nandù, che aveva spaventato col suo clacson stridente. Davanti aveva la strada. A sinistra la pampa coperta di graminacee e arbusti di calafate. A destra il mare, che attraversava col suo incessante mormorio d’odio lo Stretto di Magellano. Nient’altro.

Il cavaliere distava circa duecento metri e montava un matungo, un cavallo a lungo pelo che se ne stava lì a brucare l’erba. Il cavaliere era avvolto in un poncho nero che copriva anche i fianchi dell’animale, portava un cappello da gaucho con la tesa abbassata sugli occhi e non muoveva un muscolo.

Incontro d’amore in un paese in guerra     Ventiquattro racconti nel più puro “stile Sepúlveda”: la vita in tutti i suoi aspetti, mescolata alla politica in tutti i suoi aspetti. Che poi la politica è anche un aspetto della vita, naturalmente, e forse anche la vita è un aspetto della politica.

Da “Incontro d’amore in un paese in guerra”:

Erano già molti mesi che non abbracciavo un corpo tiepido, un corpo morbido, qualcuno che mi facesse domande, qualcuno che rispondesse alle mie. Era passato troppo tempo senza dare né ricevere un po’ di tenerezza. Il tempo giusto per trasformarsi in una bestia in mezzo alla guerra.

Una precisazione importante: la traduzione dallo spagnolo di tutti e tre libri è opera di Ilide Carmignani, traduttrice ormai “consolidata” ed espertissima, non solo di Sepúlveda ma di Garcia Márquez, Bolaño, Neruda, Borges e diversi altri.