Otto marzo o non otto marzo

Otto marzo o non otto marzo, questo è il problema:

Se sia più nobile sopportare
le ingiurie di una celebrazione a malapena sopportata,
oppure prendere le armi contro un mare di guai
e, combattendo, annientarli…

In vena di manie di grandezza, cito Shakespeare perché sono tra chi pensa che la “festa” abbia finito per perdere il suo senso, e che occorra invece un impegno quotidiano fatto di gesti, più che di parole, di presenza e di vicinanza, più che di fiori, di reciproca voglia di conoscenza, più che di proclami.

Io non mi riconosco “nelle donne”, ci sono donne a cui non vorrei assomigliare neanche da lontano, e altre donne (ma anche uomini) in cui sono felice di rispecchiarmi in tutto e per tutto o almeno in qualche piccolo dettaglio. Sogno un mondo in cui non si senta più dire che una cosa è “da maschi” o “da femmine”, ma semplicemente: “ti piace? allora è ok, va bene per te”. Sogno di non sentire più il malefico peso del disordine che c’è in casa come se fosse “colpa mia”, sogno un “prendersi cura” che implichi condivisione, guardare cosa c’è da fare e farlo. Sogno che ogni amore sia supporto reciproco e reciproca accettazione e accoglienza, e sogno che quando un amore finisce (perché sognare che nessun amore finisca mai sarebbe troppo persino per me), si riesca e riprendere la propria strada facendo tesoro di quel pezzo fatto insieme, senza dover a tutti i costi scaricare rabbie, odio e paure sulla persona un tempo amata, e sogno che le persone più “deboli”, in ogni senso possibile, non siano schernite e aggredite, ma difese, protette e amate. Sogno che ogni persona valga per sé e per come si comporta.

Oggi ho dato la definitiva approvazione alla stampa di un libro di poesie. Non mi viene in mente nessun modo migliore, per me, di celebrare. Ci sono alcune cose ancora da aggiustare, nella mia famiglia, come credo nella maggior parte, dal punto di vista della “condivisione di responsabilità”, ma cerchiamo ogni giorno di accogliere i reciproci spazi individuali e magari di essere orgogliosi l’uno dei risultati dell’altro.

Sono così fortunata da aver avuto l’opportunità e gli strumenti per potermi costruire, pur da basi non propriamente solidissime, un amor proprio tale per cui non potrei concepire una famiglia dove non ci sia questo tipo di impegno quotidiano. Purtroppo, moltissime donne (e non solo) non hanno questa fortuna. Sogno che questo diventi possibile per tutte (e tutti), che nessuno pensi mai più di doversi accontentare, perché se la convivenza è sempre difficilissima e faticosissima, accontentarsi è l’anticamera dell’inferno.

Eleganza e anticonformismo

Un paio di notti fa ho fatto un sogno stupendo, c’eri tu e giocavi con una sorta di doppio, che era la tua ombra, la tua anima, forse, anzi, anche più di uno, ma anche così identici alla tua “persona reale” da non distinguerli l’uno dall’altro. Era come una specie di scena cinematografica, ma c’era qualcosa di meravigliosamente reale, meravigliosamente tuo e mio. Credo proprio che tu potresti davvero giocare persino con la tua anima, scherzarci con quella tenerezza, quella divertita profondità, senza perdere mai di vista tutto ciò che tu “sei” e che ti appartiene. Il nostro cervello è davvero una “macchina” straordinaria. Quando più ne ho bisogno, tu arrivi, e sempre nel modo più incredibile, tutto l’incanto e il gioco e il sorprendente che tanto amo. Forse per questo che ho deciso di giocare un po’ anch’io. Un piccolo “colpo di testa”, un taglio nuovo, un tocco di colore, che una persona, facendomi un bellissimo complimento, ha definito “anticonformista con stile, e comunque elegante”. E io penso a quel tuo essere così elegante, in quella maniera così anticonformista, con quel tuo stile unico, che avrebbe sicuramente fatto scuola, se non fosse stato inimitabile, e mi sento un po’ più felice, proprio adesso che la tristezza stava rischiando di appannare un periodo in cui invece succedono (anche) molte cose belle.

La sostanza dei sogni

Forse è naturale che i rari sogni in cui entri – che sono anche i pochissimi di cui conservo almeno qualche sfocata immagine, qualche parola, ombre quasi impalpabili ma persistenti – non vengano nei momenti in cui più lo desidero, ma quando ne ho davvero, davvero necessità, un bisogno fisico, quasi per sopravvivere. Proprio allora, quando la fatica sarebbe davvero insopportabile senza qualcosa o qualcuno che porti un vento di leggerezza, sei sempre tu a ricordarmi quello che so, con ironia gentile, con quel sorriso che mi lascia senza difese. “Alla stessa destinazione si può arrivare da tante strade diverse”. Questa, più o meno, l’idea che il te del mio sogno ha espresso la scorsa notte. Certo che sono d’accordo, sono parole mie, almeno per metà. Sono certa che tu non solo le hai pensate, ma avresti saputo renderle molto più belle, ci avresti sperimentato sopra, costruito materiale per riderne, le avresti rese rotonde, perfette, indimenticabili, con quel rigore che mettevi nelle improvvisazioni, e no, lo so che non è affatto una contraddizione, credimi.

Sarà un caso, ma oggi sembra tutto diverso. Tutto quello che ieri era insormontabile, oggi appare ridimensionato. Oggi sono stata contenta di quello che è successo, delle parole e dei silenzi, della complicità e del rispetto degli spazi. Oggi sono stata me stessa.

Comunque sì, è ancora così, parto da te per riflettere, picchiarmi con le mie incoerenze, immaginare altri scenari, recitare, a volte, perché lo sanno, i poeti e gli artisti, che attraverso la finzione è più facile arrivare alle verità più lontane, dense e profonde. Parto da te per rimestare i pensieri, che serve sempre. Alla fine, quello che rimane di ciò che ho forse solo creduto di vedere e sentire, è che tu in quel momento non eri una semplice figura, ma vita e presenza. Un’impressione notturna, ma se noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, allora anche questo fa parte della mia sostanza, di quello che sono.

Cogli l’attimo (ma continua a sognare)

Quanta pazienza ci vuole per realizzare un sogno. Quanta pazienza per continuare a godersi la vita di ogni giorno come se, pur appartenendoti il sogno, l’attesa e il dubbio non dovessero avere influenza sul presente; come se, realizzazione o meno, niente cambiasse; come se potessimo far tesoro del fatto che nel lavandino ci sono i piatti da lavare, senza mai “non veder l’ora” che qualcosa accada. L’aspettativa toglie sostanza a ciò che stiamo vivendo? Ancora non lo so, non sono convinta. Ma certo devo imparare che portare un sogno nel regno del reale significa sapergli dare concretezza, e questo ha delle conseguenze. Bisogna avere fiducia in chi ha gli strumenti per fare in modo che dall’immaginazione si passi all’azione, per così dire. Anche quando significa considerare aspetti che consideri di secondaria importanza, ma che forse non lo sono. E nel frattempo andare avanti come se solo il “qui e ora” importasse.

No, non mi farò prendere dalla fretta, o peggio, dall’ansia. Stanotte non ho dormito e in questi giorni mi è capitato altre volte. No, dico, questo non c’entra niente. Di solito dormo come un masso, ma non lascerò che l’ansia influisca sul mio sonno.

La verità è che credevo fossimo a un passo e invece saremo in cammino ancora per un po’. Non voglio lasciare che le esigenze della realtà influiscano sul benefico effetto che i sogni hanno sempre avuto nella mia vita, però voglio che i sogni diventino un’impronta visibile, che lascino una traccia.

McAllister: Non sono cinico, sono realista. «Mostratemi un cuore non contaminato da folli sogni e io vi mostrerò un uomo felice.»
Keating: «Ma solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi. È da sempre così, e così sarà per sempre.»
McAllister: Tennyson?
Keating: No, Keating.

Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo lo sai che vola e lo stesso fiore che oggi sboccia domani appassirà. Perché il poeta usa questi versi? Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Citando Walt Whitman, «O me o vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.» Quale sarà il tuo verso? 

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Bivio

Mi sento a un bivio, di nuovo. Non è una sensazione sgradevole, tutt’altro, è che non so bene che farne.

Come scrivevo qualche giorno fa, sto facendo quello che amo e posso dire di essere felice, non nel senso che vada sempre tutto bene (mi preoccuperei… 🙂 ) ma nel senso che sento che sono nel posto giusto, al momento giusto, e mi piace essere quella che sono (quasi sempre). Questo mi permette di reggere la barca anche quando arrivano le tempeste, perché arrivano, mica no.

Eppure non riesco del tutto a smettere di proiettarmi in avanti, sarà una vecchia abitudine dura da abbandonare, sarà che ai desideri e ai sogni comunque ci tengo, e benché a volte vorrei spegnere per un momento almeno l’interruttore del cervello, tengo anche ai miei pensieri. Sono qui, vivo l’attimo, sento e amo profondamente quello che c’è, ma anche quello che sarà ha un fascino quasi irresistibile.

Mi basta un’email, l’ipotesi astratta di partecipare a un progetto che mi piacerebbe, e d’improvviso mi ricordo che sì, adesso sto portando a termine quella che è, in questo tempo, una delle cose più importanti della mia vita, e portarla a termine è tanto impegnativo quanto essenziale. E dopo? Ho un lavoro che ho amato moltissimo ma che, come molti amori messi alla prova della quotidianità, sta mostrando segni di logoramento. Vorrei vivere scrivendo ma la parte realista di me dice che è piuttosto improbabile. So che continuerò a dedicarmi a progetti legati a Robin perché non potrei fare altrimenti. Ma per il resto… Così torno a chiedermi cosa voglio fare da grande, pur essendo più che grande da qualche tempo, ma se è vero che si invecchia quando si smette di meravigliarsi e di sognare, beh, io allora ho appena iniziato a muovere i primi passi.

Da una parte sento che le cose succederanno quando sarò pronta perché succedano, mi faccio meno ansie per il fatto di non pianificare, progettare, organizzare, tutte attività che sono scarsamente nelle mie corde, anche se qualche volta sono costretta a dedicarmici. Dall’altra, avendo sempre pensato che possiamo fare molto per rendere la nostra vita il più vicino possibile a quello che vogliamo, non posso tirarmi indietro del tutto e lasciar fare unicamente all’universo e alla sua disponibilità a congiurare perché i miei desideri si realizzino.

Siccome mi succede spesso di trovare nelle parole degli altri il mio pensiero e persino il mio cuore, ho deciso di fare così: prendere i primi libri che mi sono venuti in mente, aprirli a caso e vedere cosa mi dicono.

Lo sai quanto godo di non dover più scrivere una parola? E’ davvero meraviglioso. Nella vita, se hai l’occasione di non ripeterti, prendila. (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, p. 179).

Sì, in effetti… è l’aspetto del dovere e del non ripetersi che fa presa su di me. Scrivo perché adoro farlo e per quanto posso cerco di sperimentare cose nuove nella mia vita, se non altro di imparare una cosa nuova ogni giorno.

Le Merry Maids, nei pressi di Penzance, in Cornovaglia, sono un cerchio di diciannove grosse pietre, forse un’antica area sacrificale o chissà cos’altro, dove si svolge ogni anno il Gorseld, il raduno dei bardi che cercano di ravvivare la memoria del retaggio celta. Fra queste pietre si sente certo il rispetto per l’oscuro passato svanito, per gli antenati che sono sempre antenati comuni, dell’umanità e della civiltà. Ma questa reverenza, questo senso del mistero riguardano la semplicità della vita che trascorre e sparisce, le pietre e le mucche che pascolano mansuete tra di esse, col loro segreto della vita animale. Possiamo e dobbiamo avere pietas per i druidi e certo ancora di più per le loro vittime rituali, perché erano poveri diavoli come noi e stavano certo peggio di noi. La moda della tradizione celta si involgarisce invece talora nell’esoterismo iniziatico, in un neopaganesimo posticcio, nella compiaciuta superstizione. Quel culto dell’arcano, della magia e delle origini è sempre una pacchianeria sofisticata, come ogni civetteria irrazionalistica. Quanto più profondo è il vecchio detto cornish sulle tre cose più belle del mondo: una donna con un bambino, una barca con le vele spiegate e un campo di grano che ondeggia nel vento. (Claudio Magris, L’infinito viaggiare, p. 44).

Anche questa ha molto da dire: per quanto l’irrazionale mi affascini, il mio senso del mistero è molto legato, credo, al mio amore per la terra, il mare, l’umanità forse anche (per quanto su questo aspetto ho forse margini di miglioramento). I riti pagani non mi attirano molto, e trovo il senso della vita più di tutto nel fatto di viverla.Non  che questo mi aiuti particolarmente nel decidere a che cosa dedicarmi, ma forse devo leggere meglio tra le righe.

Piccola rosa, rosa piccolina / a volte / minuta e nuda / sembra / che tu mi stia in una mano / che possa rinchiuderti in essa / e portarti alla bocca, / ma d’improvviso / i miei piedi toccano i tuoi piedi e la mia bocca le tue labbra / sei cresciuta / le tue spalle salgono come due colline / i tuoi seni si muovono sul mio petto, / il mio braccio riesce appena a circondare la sottile / linea di luna nuova che ha la tua cintura: / nell’amore come acqua di mare ti sei scatenata: /misuro appena gli occhi più ampi del cielo / e mi chino sulla tua bocca per baciare la terra. (Pablo Neruda, In te la terra, in Poesie d’amore, p. 84).

Ecco, questa in qualche modo completa quella precedente: anche l’amore è espressione in buona parte di amore per la terra, unirsi a un’altra persona (o un’altra anima) significa far diventare concreto quel desiderio di terra e di cielo, diventare tutt’uno con essi.

Ma ancora ho l’aurora impigliata in ogni tempia (Pablo Neruda, Bruna, la baciatrice, in Crepuscolario, p. 37). Tutto finirà, un giorno, le parole, le canzoni, i baci, la vita. Ma fino a quando l’aurora resta impigliata alle nostre tempie, il giorno ancora ci aspetta.

Dunque: meno senso del dovere, più passione, più amore, un forte legame con la terra (intesa come pianeta, con tutto quello che contiene), sperimentare qualcosa di nuovo. Beh, sono dei buoni punti di partenza. Sicuramente da qui troverò il modo di andare avanti.

-1 La meraviglia

Imparerò a osservare il quotidiano per scovare la meraviglia che c’è nascosta dentro. Ogni più piccolo dettaglio di ciò che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno cela una scusa per poter continuare a stupirci. Ed è la stessa scusa che abbiamo a disposizione per inseguire i sogni. A San Francisco cerco l’inaspettato, il sogno, ma forse più di tutto cerco la meraviglia nella realtà.

Io continuo a stupirmi. È la sola cosa che mi renda la vita degna di essere vissuta.
(Oscar Wilde)

– 6 Sensi di viaggio

Puoi restare fermo, immobile e attendere che l’ombra diventi un sottile bordo nero e lentamente si sposti, si giri attorno, si accorci, si nasconda sotto i tuoi piedi, quasi a scomparire, poi si riaffacci per allungarsi verso oriente fino a svanire stringendosi nel buio. Oppure muoverti, farla impazzire con cambi repentini, con passi zigzaganti, salendo e scendendo lungo i sentieri e le strade.

[…]

Il viaggio nasce nella testa, matura, ma per esistere ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi, toccare, sentire, annusare, assaggiare. Quello mentale è un sogno, non un viaggio. Puoi deciderne i tempi, le condizioni, i ritmi, le pause. Non sollecita i sensi. Il viaggio, quello vero, ti fa sopportare caldi inebrianti e freddi carichi d’oblio, patire venti indiscreti, godere del primo tepore di un’alba. Non sempre decidi tu dove fermarti, dove dormire, quando dormire. Nel viaggio mentale non c’è neppure bisogno di riposare.

[…]

Ecco perché il viaggio mentale non è viaggio. Perché è solitario per natura e non per scelta o per mancanza di scelta, perché è fatto di nessun saluto, e il saluto ti avvicina a ciò che ti è caro, perché non ha attese negli aeroporti.

[…]

L’immagine di cento fiammelle in equilibrio su piccole lampade ricavate da lattine usate, che illuminano appena le bancarelle del mercato di Bohicon. Il viola malinconico delle Dolomiti quando il giorno le abbandona. I mille volti della sabbia del deserto, pronti a tradire la tua memoria a ogni battito di ciglia del sole. Era rosa quella duna, un attimo fa. Ora è gialla, ma basta distrarsi un attimo e diverrà grigia.

Il dilatarsi angosciante e tenero del cielo sulla savana, il rosso che rincorre il blu per poi cedere entrambi al silenzio della notte, nera come il cuore del papavero.

Quali occhi ha la mente? Come può vedere tutto questo? Può inventarlo? Sì, può, ma solo dopo averlo visto accadere.

 Sei giorni alla partenza e sono pur sempre immersa nella normalità, nel consuetudinario. Lavoro, faccio letti, preparo da mangiare, stiro, lavoro, scrivo: tutte attività tendenzialmente quotidiane. Il viaggio appartiene ancora alla dimensione del sogno, benché cominci a sentirne la concretezza, come quando tieni in mano una stoffa che ancora non è tua, per saggiarne la consistenza, le cuciture, verificare che faccia per te, non solo il colore, ma il tessuto, l’intreccio, l’orlo, l’armonizzazione di tutti gli elementi nel risultato finale. Lentamente, così, il sogno si avvicina al reale e impercettibilmente comincia a modificarlo essendone, al tempo stesso, modificato.

Marco Aime è sicuramente uno dei miei scrittori preferiti, da tempi ormai anche abbastanza lontani: mi trovai per caso ad ascoltare una sua conferenza al Museo delle Culture del Mondo, al Castello d’Albertis di Genova, senza averne mai (lo ammetto) sentito parlare prima. Una di quelle decisioni dell’ultimo minuto, ché l’idea di prendersi del tempo incontra sempre un po’ di resistenza. L’argomento mi interessava, ma le cose da fare si accavallavano. Avevo già visitato il museo, forse era il momento di tornare a casa. Già che ero lì, però, tanto valeva dare un’occhiata. Dopo cinque minuti, sapevo che sarei rimasta ad ascoltarlo per ore.

Io sono timida, meno di un tempo ma pur sempre in misura considerevole. Quindi avrete un’idea del fascino che il suo racconto ha esercitato su di me se vi dico che alla fine della conferenza mi sono fermata a chiedergli, diretta e senza troppi giri di parole, se potevo presentare un suo libro nell’ambito delle attività di Bookcrossing a cui allora partecipavo. Un’altra di quelle cose che si fanno d’istinto, appena ti vengono in mente, senza lasciarti il tempo di cambiare idea. In seguito ho saputo che Aime, professore universitario, antropologo, viaggiatore, scrittore, ospite regolare di conferenze, co-sceneggiatore di spettacoli teatrali, a Genova è una specie di istituzione (per quanto dubito che lui si definirebbe così: è un altro che tende all’understatement, quando si tratta di sé, e una persona estremamente alla mano, tanto che in quell’occasione non ci pensò due volte e mi disse subito di sì).

La presentazione è stata uno dei momenti più belli della mia vita, e ha riguardato questo libro Sensi di Viaggio, che ancora tengo caro, con tutti i bigliettini infilati allora per ricordarmi i punti che mi avevano colpito di più, con le mie note, con il suo autografo. Mi sono documentata talmente tanto su antropologia, viaggi, scienze sociali, che alla fine dal pubblico qualcuno mi ha chiesto se fossi anch’io un’antropologa. Non è che voglia imbrodarmi, ma credetemi che di poche cose vado così tanto orgogliosa, a distanza di anni.

Visto che da tempo ho interrotto la rubrica La Lettrice della Domenica, perché in questo momento, purtroppo, leggo pochissimo (o meglio, leggo moltissimo, ma non libri), e visto che oggi è, appunto, domenica, valeva la pena di postare qualche citazione da questo libro tanto amato, che è anche uno di quelli che sicuramente mi porterò dietro in viaggio. I suoi racconti mi terranno compagnia, mi sembrerà quasi di sentire gli odori di Wasso, intravedere gli dei che ci si fermano ad ascoltare la musica e guardano gli uomini giocare a owari e le donne danzare, mi parrà di entrare nella via degli aquiloni a Jaipur, percorrere la Gola della Nariz del Diable dove si arrampica a zigzag il trenino che in Ecuador collega la piana di Guayaquil con il paese di Alausi, a 2600 metri di quota. E tutto questo mentre in realtà respiro odori diversi, ascolto altri suoni, guardo e tocco e gusto cose che non c’entrano con il racconto.  Perché è vero che il viaggio può diventare racconto, spesso spinge a un altro viaggio, ma un racconto non è un viaggio. L’importante è che gli odori, i sapori, i suoni non siano quelli di sempre, quelli di casa. Lasciare che la nostra ombra cambi, in modo da accorgerci di ciò che in noi stessi è cambiato. Quanti volti ci sono nella tua stanza? Se hai viaggiato, nello specchio non vedrai solo la tua immagine, ma il tuo volto arricchito dalle tracce degli incontri e dei percorsi.

Come un quadro giapponese

Più che rosa e oro, l’alba di oggi era azzurrina, con quell’atmosfera sfocata che ti sembra che davvero non ci sia solo vita e morte ma anche altro, una o più vie di mezzo, qualcosa di dolce, come l’ombra di un bacio, come i colori di un’antica passione con cui dipingi un amore senza fine. Il rumore del traffico sottostante che giungeva anch’esso vago, offuscato, come intorpidito, contribuiva a quella sensazione di osservare e ascoltare qualcosa di cui non fai del tutto parte. Nonostante il profumo dell’erba da poco tagliata; nonostante l’umido nelle ossa, che dalla terra saliva ai piedi e pareva quasi che mi stesse piovendo nelle scarpe; nonostante i crochi selvatici sparpagliati ai bordi del prato. Ho guardato il sole mentre faticosamente si faceva strada arrancando su per le colline e attraverso la lattigine che appannava il cielo. E quando infine ha guadagnato il suo posto su verso il centro della volta, somigliava pur sempre più a una moneta, sia pure d’oro, ma acciaccata dal tempo, dalla storia e dalle intemperie, che all’astro infocato che saliva sul suo cocchio (oggi sarebbe magari una Aston-Martin) e correva per il cielo come un indomito dio selvaggio. L’atmosfera mi ricordava molto quelle di certi quadri giapponesi, le nebbie, i vari toni del grigio, quella foschia che pare null’altro che un velo fragile, eppure toglie al sole gran parte della sua luce. E resta nell’aria quell’impressione d’irreale e di fragile, pur quando la nebbia scompare e il giorno alza la sua voce al di sopra della musica di quel sogno a mezza strada, senza riuscire tuttavia a farla smette di suonare. Se ascolti con attenzione, la sentirai scorrere, al di là delle montagne e forse anche del cielo.

Conosci quel posto tra il sonno e la veglia, il posto in cui ricordi ancora quello che stavi sognando? È lì che ti amerò per sempre (cit.)

Il figlio perfetto

Niccolò amava la notte, perché di notte non doveva scappare. Non dagli sguardi severi di suo padre, non dal terrore di deluderlo, o dall’ansia di dover essere sempre il primo, dai suoi compagni che sfuggivano la sua pretesa perfezione, senza capire che lui non poteva non essere perfetto, che dentro di sé aveva le stesse loro paure e la stessa voglia di sbagliare, ma era necessario che fosse perfetto.
Era necessario, perché suo padre controllava il suo grado di perfezione, e non era mai abbastanza. Con un cenno accoglieva i suoi dieci a scuola, fissandolo con aria di riprovazione se per una volta il voto era un nove. Senza un segno di sorriso ascoltava il professore di tennis lodarlo come un piccolo campione, proprio come era stato lui, anche se poi aveva dovuto smettere quando aveva cominciato a lavorare. Ma se Niccolò sbagliava un passante incrociato, se la pallina finiva fuori di un soffio, se un tentativo di ace finiva invece in net, poteva star sicuro di sentire lo sguardo deluso di suo padre dietro la nuca. Lo vedeva, quello sguardo, anche senza voltarsi, e lo costringeva a tenere la testa bassa, senza piangere perché piangere non era da uomo.
Per questo Niccolò amava la notte. Era l’unico momento in cui nessuno lo controllava. Probabilmente se suo padre avesse potuto, avrebbe detto la sua anche sui sogni che doveva fare. Anzi, i sogni glieli avrebbe proibiti del tutto. I sogni sono improduttivi, irrazionali, per nulla adatti a un futuro ingegnere.
Non che Niccolò volesse essere un ingegnere. Lui faceva disegni e scriveva poesie, ma di nascosto però, perché quelli che suo padre aveva trovato, glieli aveva sventolati davanti agli occhi come esempio della perversa ingratitudine di quel figlio bislacco, e poi li aveva stracciati.
“Io non ti mando a scuola perché impari a fare scarabocchi e scribacchiare versi insulsi. Credo che sarai d’accordo con me che questo ti fa perdere del tempo che puoi invece utilizzare in modo più utile. Tra un po’ andrai alle superiori e poi all’università, studierai ingegneria e ti leverai tutti questi grilli dalla testa”.
“Ma papà…” aveva timidamente tentato di rispondere lui.
Suo padre lo aveva costretto con un’occhiata a inchiodare lo sguardo a terra.
“Dimmi pure, se sei proprio sicuro di avere qualcosa da obiettare”.
“Scusa, papà, ma io preferirei…”
Suo padre lo aveva interrotto bruscamente.
“Lo so benissimo cosa preferiresti. Preferiresti bighellonare tutto il giorno, giocare a pallone come quegli sciocchi dei tuoi compagni, fare i tuoi compiti svogliatamente, e magari neanche quelli, e scrivere le tue… poesie!” Aveva detto quest’ultima parola con tale accento di disprezzo che Niccolò era ammutolito definitivamente. E poi aveva aggiunto quelle parole che ancora adesso gli bruciavano dentro, peggio di una cinghiata:
“Sono io che ti mantengo, e fino a che resti in questa casa, devi fare quello che ti dico io”.
Da quel momento Niccolò era stato certo che suo padre non lo teneva con sé per affetto, perché gli faceva piacere averlo vicino, ma solo perché in quel modo poteva essere sicuro di controllarlo, in modo che i soldi che spendeva per lui, prima o poi andassero a frutto.
Era stato il suo primo e ultimo tentativo di ribellarsi alla volontà di suo padre.
Questi pensieri passavano nella sua mente mentre come ogni sera aspettava di addormentarsi, con gli occhi chiusi ma ancora sveglio, sospeso tra un vago, irrealizzabile desiderio di cambiare le cose nella realtà, e la voglia, più facile da soddisfare, di dimenticare tutto per qualche ora cercando il conforto dei sogni.
Ma qualcosa, quella sera, stava andando in modo diverso dal solito. Proprio mentre stava, finalmente, per cedere al sonno, fu svegliato del tutto da qualcosa che lo soffocava, togliendogli l’aria. Si guardò intorno e vide uno strano, buffissimo ometto che lo additava e rideva. Era grande meno della metà di lui, e avrebbe voluto prenderlo per la collottola e chiedergli cosa stava succedendo, ma si accorse che non poteva. Era chiuso in una sorta di guscio di vetro senza porte, senza la minima apertura di alcun genere. Ecco perché gli mancava l’aria. Prese a smaniare e dibattersi, tirando calci e pugni contro quella gabbia spaventosa, mentre il respiro gli veniva a mancare. Pareva che quell’omino volesse farne una specie di oggetto da collezione, come le farfalle che suo padre teneva nello studio, inchiodate con spilli, chiuse dentro minuscoli scatolini, chissà perché. Non c’era né vita né bellezza in quelle farfalle, erano solo oggetti morti.
L’omino voleva ucciderlo, allora? Ma perché?
Per molti minuti Niccolò non riuscì a far altro che dimenarsi con urla silenziose, perché il fiato non gli usciva dalla gola, ed era come se picchiasse se stesso. Si faceva male, ma il guscio non si apriva. Fino a che comprese che non avrebbe mai potuto, così, restituire fiato ai polmoni. Si calmò. Tacque. L’ometto là fuori faceva gesti e smorfie, quasi incitandolo a riprendere quella sua forsennata attività. Niccolò invece cominciò a picchiettare con le dita la parete di vetro. Se qualcuno lo aveva infilato lì dentro, pensò, evidentemente doveva essere anche possibile uscire.
Senza più fretta né impazienza, quasi con delicatezza, senza più contare il tempo, e senza quasi più paura. Finché d’improvviso, chissà come, il guscio si aprì in due metà come un uovo di pasqua.
E Niccolò tornò a respirare.
Un attimo dopo, vide davanti a sé il viso di un altro bambino. Era avvolto in una specie di nebbia dal collo in giù, e sembrava un po’ triste un po’ contento.
– Sei stato bravo – disse il bambino. – Se tu non avessi aperto quella prigione di vetro, io sarei ancora tutta immerso nella nebbia. Però per liberarmi del tutto dovresti fare ancora due cose, vuoi?
Niccolò lo guardò, confuso e spaventato, ma anche con tanta voglia di dirgli di sì.
– Mi piacerebbe aiutarti, ma non so se ce la faccio, – disse. – E poi chi sei?
Lui gli sorrise.
– Questo lo capirai da te, a suo tempo – rispose.
Questo un po’ fece arrabbiare Niccolò, però chissà perché gli fece venire ancora più voglia di farlo uscire da quella nebbia. Poi magari avrebbe preso a pugni quel piccolo insolente, anche se non aveva mai preso a pugni nessuno, però adesso aveva un gran desiderio di farlo.
Un attimo dopo vide un’ombra allungarsi, allungarsi sempre più, e poi ingrandirsi, fino a diventare enorme, coprendo tutto con un buio che non era quello normale della sua stanza a luci spente, ma un nero più nero di qualsiasi notte senza stelle. Eppure c’era qualcosa di rassicurante in quell’ombra. Guardò su e vide un enorme gigante, tanto grande che il palazzo dove c’era casa sua non avrebbe potuto contenerlo tutto intero. Era davvero spaventoso, e aveva anche una faccia sgradevolissima. Niccolò sapeva che era sicuramente cattivo, eppure non sapeva se voleva combatterlo. Non solo perché era così grosso e pericoloso, non è neanche che avesse tanta paura quanto forse avrebbe dovuto. Ma c’era qualcosa che lo frenava, come se in un certo senso quel gigante lo proteggesse da qualche enorme pericolo.
E in un primo tempo parve infatti che il gigante volesse solo tenerlo al riparo della sua gigantesca mano, senza fargli male, al contrario, quasi per difenderlo. Eppure…
Impercettibilmente quella mano si muoveva, si faceva più vicina a lui. E più la mano si avvicinava, più Niccolò si sentiva schiacciato da un peso insopportabile, fin quasi a toccare con la faccia per terra. Qualcosa dentro di lui gli diceva che non doveva farsi abbattere, ma era tanto più facile e comodo lasciarsi andare, lasciare che il gigante lo coprisse con la sua ombra, non dover scegliere, non dover combattere…
Però quel peso diventava sempre più doloroso e d’improvviso gli venne il pensiero di quel bambino che doveva liberare dalla nebbia. Sentì dentro una grande rabbia contro il gigante, e una grande forza. Proprio quando stava per essere definitivamente buttato a terra e schiacciato come un insetto, con tutta quella rabbia e quella forza riuscì a tirarsi su. E più si tirava su, più il gigante si rimpiccioliva, fino a che poté guardarlo dritto negli occhi. E più lo guardava, più il gigante rimpiccioliva ancora, fino a che scomparve in una nuvola di cenere.
Niccolò poté finalmente voltarsi e vide accanto a sé il bambino di prima che era emerso dalla nebbia fino alla cintola e gli sorrideva, sempre con un po’ di tristezza, ma molto più contento di prima.
Aveva appena finito di provare sollievo che sentì un immenso dolore nel petto, come se il cuore dovesse scoppiargli da un momento all’altro. Smarrito, abbassò la testa e vide un enorme mucchio di strani vermi d’oro che gli ballavano sul torace e cantavano:

desideri mai realizzati ti divorano il cuore
nella notte li sogni, muoiono al mattino
ognuno il suo verme, ognuno un dolore
che ti resta nel petto, ti impedisce il cammino
c’è un solo rimedio, che non sia falso e bugiardo
levarsi di dosso ogni pelle di troppo
fino a che il sogno si sveli allo sguardo
dalla gola si sciolga l’inutile groppo
con occhi d’altri non potrai mai vedere
e udir con altrui orecchie neppure, direi:
perché dunque ubbidire sol degli altri al volere
lasciar che sian gli altri a decider chi sei?

Niccolò non capiva tutto quello che dicevano. Cosa voleva dire levarsi di dosso la pelle di troppo? Ma sapeva cosa voleva dire quando i sogni ti mangiano dentro. Che quegli animaletti fossero d’oro non toglieva nulla al fatto che si stavano divorando il suo cuore. Niccolò provò a toglierne uno, due, dieci, venti, ma per ogni verme levato, ne nascevano altri cento. Il bambino nella nebbia, doveva cercare il bambino nella nebbia. E in quel momento vide uno strato di pelle staccarsi dal suo petto. I vermi cominciarono a contorcersi. Gli parve di sentire qualcosa, come una musica, non più la canzone stonata dei vermi d’oro, ma qualcosa che veniva direttamente da lui. La musica era una cosa buona? Suo padre ascoltava dei dischi, ma quando lui gli aveva chiesto di poter imparare a suonare, gli aveva risposto che non lo riteneva compatibile con i suoi impegni scolastici. Quelle erano state proprio le sue parole, le ricordava bene. Provò a immaginarsi con una chitarra in mano, e un altro strato di pelle gli venne via dal petto. Ma non faceva male, al contrario. Si sentiva più leggero. Come se qualcuno gliel’avesse appiccicata addosso quella pelle, come se non avesse fatto davvero parte di lui. I vermetti adesso erano rimasti pochissimi, e la musica che gli veniva da dentro si era fatta più forte. Era bella, era sua, la sua musica, la sua canzone. Provò a immaginare di riempire quella canzone di parole e di immagini. Suo padre non lo sapeva, ma lui era bravo a colorare le cose con le parole, a disegnare poesie, a dipingere la vita con i racconti. Lui voleva continuare a scrivere, a disegnare, a raccontare. Si guardò il petto e vide che l’ultima pelle si era staccata, lo vide nudo, come avrebbe dovuto essere, senza più vermi, d’oro o non d’oro. E il bambino era uscito definitivamente dalla nebbia e gli sorrideva, e lui non poteva prenderlo a pugni perché gli somigliava troppo, gli pareva di guardarsi in uno specchio.
Finalmente si addormentò.
L’indomani, per prima cosa, disse a suo padre che voleva imparare a suonare la chitarra, che avrebbe ripreso a scrivere poesie e disegnare, e che non avrebbe fatto l’ingegnere.
– Tu mi mantieni perché devo ancora crescere – gli disse. – E io sono in questa casa perché sono tuo figlio. Solo per questo.
Non so se suo padre lo ascoltò, quella prima volta. Non so se lo fece la seconda volta, o la terza. Ma presto o tardi deve averlo ascoltato per forza, perché Niccolò è diventato un grande poeta, e gira il mondo raccontando storie con le parole, con i disegni, e con la sua inseparabile chitarra.