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Avendo ormai terminato le dodici fatiche previste (in origine erano dieci, ma come si è detto Euristeo ne aveva invalidate due), Eracle dovette tuttavia affrontare altre durissime prove. Secondo Euripide, fu dopo il suo ritorno dagli inferi che, profondamente cambiato, Eracle fu assalito da Lyssa, la follia, uccise i suoi figli e la moglie Megara. In quel caso le sue dodici fatiche avrebbero avuto un’altra motivazione, forse un prezzo da pagare per poter entrare nel regno del cugino Euristeo. Per Euripide è proprio con la follia che Eracle paga il prezzo della sua natura divina: la follia che egli non merita e che subisce unicamente a causa della cieca gelosia di Era. Tanto che perfino la stessa Lyssa, ironicamente più saggia della grande dea, esegue malvolentieri gli ordini recati dalla messaggera degli dèi Iris, portatrice della volontà di Era:
“Voglio dunque esortare Era, prima di vederla cadere in errore, e anche te, se mai diate retta ai miei consigli. L’uomo nella cui casa mi introduci è tutt’altro che oscuro sulla terra e fra gli dèi: ha bonificato le regioni inaccessibili e le terre inospitali e, da solo, ha ripristinato il culto divino che era messo in pericolo da uomini empi; non vi consiglio dunque di tramare una così grave sciagura”.
Proprio nel momento in cui sta per compiere il più orribile delitto della sua vita, viene confermato il ruolo di Eracle come protettore dell’umanità e del culto divino! e proprio dall’incarnazione della sua follia, quella che lo accecherà, rendendolo strumento di una strage voluta dagli dèi senza alcuna ragione di giustizia. Quale miglior prova della sua innocenza? L’eroe di Euripide non è l’uomo arrogante, accecato dalla mania di grandezza, che attira su di sé lo sdegno divino; al contrario, sono gli dèi ad essere oggetto di critica. Anche qui, tuttavia, viene adombrata una ragione diversa:
“Nel massacro opera della sua stessa mano, sappia qual’è l’odio che Era nutre per lui e conosca anche il mio; altrimenti gli dèi non varranno più nulla e il potere dei mortali sarà grande, se lui non sconta un castigo”[1].
Nelle parole della si manifesta l’idea che proprio la grandezza di Eracle, più che la sua nascita illegittima, sia la causa scatenante della gelosia di Era. E allora si potrebbe pensare che Zeus, il grande assente, non protegga suo figlio perché, dopotutto, condivide quella gelosia per gli uomini troppo vicini all’immortalità. Non dimentichiamo che si tratta dello stesso Zeus che scatenerà la guerra di Troia come un mezzo per distruggere la stirpe degli eroi di discendenza divina, lasciandone solo il ricordo nella poesia.
Per piegare Eracle gli dei scelgono appunto la sua qualità “sovrumana”, la sua forza, che diventa strumento della distruzione di coloro che egli maggiormente ama. E’ questa la ragione per cui, come abbiamo visto, Eracle rinuncia ai suoi tratti divini: all’eroismo della forza giovanile viene in un certo senso contrapposta un’altra forma di eroismo, molto meno visibile, nelle parole che lo stesso Eracle pronuncia dopo il massacro, al termine della tragedia: “è insensato chi antepone la ricchezza o la forza ai suoi amici”: è Teseo che lo sostiene, anche dopo l’ignominioso delitto, senza il timore di “contaminazione” che il popolo attribuiva all’autore di un crimine. E’ lo stesso atteggiamento di lealtà totale, di affetto senza cedimenti che già si era visto in Anfitrione, ma Teseo non è un parente. Sembra qui prospettarsi una scala di valori in cui l’amicizia, l’affetto, sia che provenga da un parente o da un “estraneo” è il bene più grande, l’unico che possa sottrarre Eracle al senso di annientamento che lo spingerebbe al suicidio. E questo affetto, la phylia che antepone ad ogni rischio per sé la protezione dei propri amici sembra una forma di eroismo estremamente “moderna”. Forse anche improntate ad una razionalizzazione del “superstizioso” timore popolare legato alla contaminazione, le parole di Teseo sembrano comunque ribadire che anche se dalla sua solidarietà dovesse derivare qualcosa di male, nondimeno egli aiuterebbe comunque l’amico:
“Perché agitando la mano mi segnali il tuo terrore? Forse perché la contaminazione non mi arrivi con le tue parole? Non mi preoccupa per nulla condividere con te la sfortuna: in altri tempi ho diviso la buona sorte”[2].
Oltre ad essere innovativa e affascinante, questa rappresentazione sembra anche dare una spiegazione molto vera e reale della follia di Eracle: infatti è difficile credere, anche per un eroe del suo calibro, che egli potesse lottare col signore delle tenebre senza alcuna conseguenza. Ma le tante guerre che combatté e gli assassini che commise dopo, alcuni dei quali non certo onorevoli, furono anch’essi frutto di una sorta di follia. Sembra allora più coerente pensare ad un Eracle che, pur avendo combattuto tanto a lungo contro le forze oscure che lo perseguitavano, e pur avendo tante volte vinto, dovesse ancora soffrire per molti anni le conseguenze della sua natura incontrollata, fino a un’apoteosi finale nella conquista di un’essenza divina che potrebbe allora assumere, non diversamente dalla conquista del trono dell’eroe delle fiabe, il senso di una conquistata maturità, di quella che Bettelheim chiamava una “superiore umanità”.
Ma c’è un altro aspetto che emerge con chiarezza nella tragedia di Euripide forse più che nei precedenti miti. Certo, Eracle è sempre stato “unico”, come tutti gli altri eroi, tutti caratterizzati da un segno distintivo, un “marchio” che, anche quando non è “fisico” (come la stella in fronte di tanti eroi delle fiabe) è certamente morale: la furia, il coraggio, l’intelligenza, l’astuzia. Ma è qui che viene fuori in tutta la sua forza la solitudine, che non sempre viene associata a Eracle. Troppo spesso l’eroe viene rappresentato nel suo massimo splendore, con la sua incrollabile forza fisica, la determinazione, la sicurezza di sé che sembrano escludere ogni fragilità. Invece Euripide lo rappresenta nella sua più tremenda debolezza, nel suo destino di reietto, di uomo contaminato che “è diviso tra la cerchia degli intimi che condivide il suo marchio d’infamia e la società in generale che lo teme e lo rifiuta”[3]. A questa debolezza Euripide non contrappone più la forza semidivina dell’eroe, ma la ricerca tutta umana della dignità perduta. La pazienza, la rassegnazione, il recupero dei valori di solidarietà e compassione cui si faceva cenno prima. La solitudine estrema di chi ha varcato il confine tra umano e divino non può essere superata con la pacificazione tra gli opposti, con le qualità che rendono l’eroe diverso dagli altri, ma al contrario, solo con il recupero del rapporto con gli altri uomini, grazie a ciò che lo accomuna a loro. E infatti, contrariamente a quanto vorrebbe Teseo, che vede le lacrime dell’amico come contrastanti con il prestigio e la virilità dell’eroe, Eracle non rinnega più nulla di ciò che è umano. E non ritiene affatto incompatibile con la dignità, ma anzi, parte di essa, tanto il coraggio di continuare a vivere, quanto l’esprimere col pianto la pietas che ancora lo lega ai suoi cari che ama, e che ha assassinato senza colpa[4].
La tragedia di Euripide si chiude qui, con la partenza dell’eroe per Atene con l’amico Teseo, ma Eracle era ancora destinato, anche dopo aver terminato la sua ultima fatica, ad altre grandi imprese, ad altre umiliazioni, ad altri passaggi attraverso crisi di furia simile alla pazzia.
A Ecalia egli partecipò a una gara di tiro con l’arco indetta dal re per dare in sposa la figlia Iole, e la vinse, ma il re non volle mantenere l’impegno, proprio perché in precedenza Eracle aveva ucciso la moglie Megara (o secondo un’altra versione dopo aver ucciso i figli l’aveva data in sposa al nipote Iolao). Eracle, furioso, se ne andò, ma venne scoperta la mancanza di alcuni armenti del re che, si sarebbe scoperto poi, erano stati rubati da Autolico. Il figlio del re Ifito andò a cercare Eracle per pregarlo di aiutarlo a ritrovare le bestie, ma egli pensò che il ragazzo lo sospettasse del furto, e lo gettò dalle mura della città, provocandone la morte, benché fosse suo ospite, e così macchiandosi di un crimine molto grave agli occhi degli dei[5].
Nuovamente in preda alla follia, dovette servire ancora per tre anni presso la regina Onfale di Lidia, che secondo alcuni gli diede anche un figlio. Ma si diceva anche che presso di lei egli fosse stato costretto a indossare vesti femminili e compiere lavori da donna, o comunque imprese di poco conto. Una ulteriore umiliazione, o una ulteriore dimostrazione della grandezza di Eracle e a un tempo del suo carattere così umano, nonostante la sua asserita natura divina? Poiché egli non solo non si sottraeva a quelle piccole meschinità che altri avrebbero disdegnato, ma addirittura acconsentiva a lasciarsi prendere in giro, ridendone a sua volta. Questo accadde quando su ordine della regina Onfale egli andò a catturare i cercopi, strani esseri simili a scimmie, furfanti bugiardi e ladri che erano la disperazione degli uomini. Quando essi cercarono di rubargli le armi mentre dormiva, l’eroe si svegliò, li appese per i piedi ad un bastone e li portò dietro di sé “come due secchi”[6]. Nonostante la scomoda posizione i due fratelli, ricordando l’ammonimento della madre a guardarsi da uno che aveva “il posteriore nero”, si misero a ridere. Eracle si fece dire il motivo della loro allegria, e scoppiò a ridere anche lui. Ed ecco che allora questo eroe eccessivo, violento, quasi terrificante, subisce d’improvviso un rassicurante ridimensionamento, e acquista un carattere che pochissimi altri eroi avevano avuto prima di lui, e pochissimi avrebbero avuto in seguito: ci diventa simpatico. Questo eroe divino che lotta e vince la morte sotto i suoi molteplici aspetti ridiventa il buffo gigante che ama mangiare bene e bere vino e godersi la vita. Persino quando sottrae la dolce Alcesti a Thanatos, immaginarlo in questa rissa a pugni nudi con lo “scheletro con la falce” suona un’impresa magnifica ma anche grottesca, quasi buffa.
Sempre per ordine di Onfale, Eracle lavorò presso Sileo, che rendeva schiavi gli stranieri spogliandoli di ogni loro avere e costringendoli a lavorare nella sua vigna. Eracle stesso venne forse da lui acquistato come schiavo, ma quando gli venne messa in mano la zappa, egli sradicò tutte le viti e le usò per accendere il fuoco e arrostirsi la carne per un banchetto; poi prese il vino migliore dalla cantina e scardinò la porta per usarla come tavola. Quando Sileo vide quella rovina e si adirò, Eracle lo invitò a pranzare insieme a lui. L’uomo allora, infuriato, prese a bestemmiare e per questo rimase ucciso. Sembra che Eracle facesse di sua figlia una delle proprie mogli, ma alla sua partenza la fanciulla si sarebbe uccisa, ed egli tornando qualche tempo dopo l’avrebbe trovata morta.
Benché Eracle abbia amato nella sua vita molte donne, di lui non si parla mai come di un rapitore, di un seduttore: accadde anche che egli portasse via una fanciulla come un Teseo, poniamo: lo fece con Auge, con Iole. Ma si trattò di episodi particolari: colui che venne definito il “servo delle donne” le amò probabilmente tutte con uguale passione e devozione.
Una volta terminato anche il periodo di servitù presso Onfale, l’eroe si dedicò a dar battaglia a coloro che in vario modo gli avevano fatto del male, tra cui Laomedonte, re di Troia, al quale dopo l’avventura della cintura di Ippolita, sulla strada del ritorno Eracle aveva salvato la figlia da un mostro marino. Il re gli aveva promesso in cambio le cavalle che Zeus gli aveva donato, ma poi aveva rifiutato di dargliele. Eracle tornò a Troia con Telamone e uccise Laomedonte e tutti i suoi figli tranne Podarce, che la sorella Esione riscattò in cambio del suo velo, e Titone. Podarce rimase re di Troia col nome di Priamo (“compero”), proprio per il fatto che era stato riscattato. Esione venne data in sposa a Telamone e gli diede il figlio Teucro (da cui i Troiani vennero chiamati anche Teucri).
Dopo aver vinto anche gli Spartani e aver sedotto Auge, che gli diede il figlio Telefo, Eracle ricordò la promessa che aveva fatto a Meleagro, e si recò a Calidone, dove regnava Eneo. Per averla in sposa sconfisse il dio del fiume Achelòo, pure un pretendente della fanciulla che da quel giorno ebbe un solo corno sulla fronte. Il racconto lo fa il fiume stesso a Teseo, di ritorno dopo l’impresa del cinghiale di Calidone: “la sconfitta non fu tanto un’onta quanto fu un onore combattere, e molto mi consola la grandezza di chi mi vinse”[7]. Auge diede ad Eracle due figli, e un altro figlio egli lo ebbe dalla figlia di Fileo, Astioca. Un giorno, forse per un incidente, Eracle uccise uno dei figli di Eneo e ancora una volta volle espiare recandosi in esilio. Deianira lo accompagnò (secondo altre versioni questo episodio si verificò invece appena dopo che Eracle ebbe conquistato Deianira, mentre la conduceva con sé). Giunti al fiume Eveno in piena, il centauro Nesso si offrì di traghettare Deianira, poi cercò di violentarla: allora Eracle con una freccia avvelenata uccise Nesso che, morendo, disse a Deianira di conservare il sangue della sua ferita per farne un filtro d’amore, da usare se un giorno Eracle si fosse stancato di lei.
Dopo aver compiuto altre imprese, Eracle decise di vendicarsi di Eurito, padre di Iole. Lo affrontò con l’esercito, lo uccise e fece di Iole la sua amante. Poi decise di offrire un sacrificio a Zeus e fece inviare a Deianira un messaggero perché gli inviasse una tunica pulita. Temendo che il suo sposo le preferisse Iole, Deianira gli inviò una tunica impregnata del sangue di Nesso, e quando l’eroe la indossò, essa gli bruciò le carni: infatti a Eracle era stato predetto che non sarebbe morto per mano di un vivo, e Nesso a quel tempo era morto da molti anni. Deianira, scoprendo di essere stata ingannata, si uccise. Eracle si fece erigere una pira e scomparve tra le fiamme: era infatti stato assunto sull’Olimpo, dove si riconciliò con Era ed ebbe in sposa sua figlia Ebe. Solo la sua ombra rimase agli inferi, dove più tardi incontrò Odisseo. Anche in cielo Zeus aveva voluto eternare il ricordo delle fatiche del figlio, nella costellazione del Sagittario, dove lo si vede inginocchiato sempre nell’atto di scoccare una freccia.
[1]Euripide, Eracle, cit., p. 205-207
[2]Ibidem, p. 253
[3]R. Parker, Miasma, cit. in M. Serena Mirto, op. cit., p. 43-44
[4]M. Serena Mirto, op. cit., p. 47, ed Euripide, Eracle, op. cit. p 279-281
[5] E’ Apollodoro a parlare di questo come di un nuovo episodio della follia di Eracle. La versione di Omero, nell’Iliade, è molto meno favorevole all’eroe, sostenendo che egli uccise Ifito, che tra l’altro in precedenza aveva preso le sue parti contro il padre, perché aveva egli stesso le bestie, comprate da Autolico.
[6]K. Kerényi, op. cit., p. 401
[7] Ovidio, op. cit., p. 343